Charlie

Estratti della newsletter sul dannato futuro dei giornali.

domenica 2 Maggio 2021

Stringiamci a coorte

Questa è la questione più grossa che tormenta il sistema della pubblicità online da più di un anno, e che ha ricadute rilevanti sul mondo delle aziende giornalistiche, sulla loro capacità di sostenersi economicamente attraverso la pubblicità e sui modi delle loro dipendenze dalle grandi piattaforme digitali. Ne parleremo spesso nei prossimi mesi, oggi ci limitiamo a una breve introduzione.

Il sistema dei cookie di terze parti implica delle ingerenze nella privacy evidenti – malgrado noi le consentiamo quando accettiamo sbrigativamente quelle condizioni che troviamo sui siti alle nostre prime visite – e il dibattito sul limitarle dura da molto, ma la questione ha subito un’enorme accelerazione quando si è mossa Google, come sempre. Che all’inizio dell’anno passato ha annunciato che avrebbe inibito l’uso dei cookie di terze parti sui propri browser Chrome, adducendo appunto ragioni di maggior rispetto della privacy. Che sono da una parte fondate senza essere disinteressate: Google percepisce la domanda da parte dei propri utenti e cerca di rispondere. D’altra parte Google ha interesse ad aumentare ancora di più il proprio potere sul mercato dei dati e della pubblicità proponendo soluzioni sempre più adeguate a questo. E la proposta che ha fatto è una soluzione tecnologica dal buffo nome (sembra una puntata del Trono di Spade): Federated Learning of Cohorts, abbreviato in FLoC. Vuol dire, grossomodo, “apprendimento collaborativo delle coorti”. Per farla davvero molto breve, l’idea è la creazione di un sistema di categorie di utenti (moltissime, le coorti) che riconosca a quale di queste appartenga ciascuno di noi quando visita un sito, senza identificarci singolarmente.

La proposta ha inizialmente spiazzato i moltissimi coinvolti (ovvero chiunque usi internet, nei fatti), presentandosi come un servizio di rispetto della privacy. Ma presto se ne sono comprese anche le implicazioni in termini di maggiore potere affidato a Google, e di possibili violazioni diverse della privacy stessa. Oltre che di sovversione del mercato pubblicitario pericolosa per molte aziende e business. Quindi in questi mesi in cui Google sta avviando la sperimentazione del sistema ci sono molte diffidenze e cautele, anche nelle aziende giornalistiche in cui si cerca di capire se e come adeguarsi, se ci siano più rischi o più opportunità, se collaborare con Google o provare a mettersi di traverso.


domenica 2 Maggio 2021

E un giudizio sul diritto all’oblio

Il Garante per la privacy, cosiddetto, ha pubblicato questa settimana una propria sentenza, che stabilisce alcuni criteri, a prescindere dalla singolarità di ciascun caso (il caso non è descritto). Al Garante ricorrono le persone che non trovino soddisfacenti le risposte ricevute dalle testate a cui hanno presentato una richiesta.
(il Post, per esempio, è stato due mesi fa destinatario di una sentenza del Garante che ha rifiutato una richiesta che venissero cancellati due articoli su un personaggio pubblico oggetto di un’inchiesta giudiziaria successivamente terminata con un’assoluzione – e che il Post su sua richiesta aveva aggiornato linkando un altro articolo esistente su questo sviluppo – ordinando però la loro deindicizzazione, dato il tempo passato, otto anni).

La sentenza pubblicata martedì riguarda invece un articolo della Stampa su una vicenda giudiziaria del 1998. Il Garante ha deciso:
– di respingere anche qui la richiesta che l’articolo sia cancellato o che il nome del protagonista sia rimosso, confermando il valore di “informazione e documentazione storica” anche dopo molto tempo;
– di ritenere corretta e soddisfacente la scelta del giornale di deindicizzare l’articolo;
– di respingere la richiesta che l’articolo sia aggiornato, non avendo il richiedente offerto documentazione sugli aggiornamenti richiesti; e quindi di ritenere il giornale non responsabile di indagini proprie successive sugli sviluppi delle notizie pubblicate;
– di multare il giornale per 10mila euro per non avere dato risposta alle richieste ricevute, ritenendo che questo sia invece un dovere del giornale a prescindere dalle sue scelte.


domenica 2 Maggio 2021

Il diritto all’oblio, una grande conversazione quotidiana

Le regolamentazioni e le sentenze introdotte – soprattutto nelle sedi dell’Unione Europea – a proposito del diritto delle persone di attenuare o cancellare da internet informazioni giornalistiche che le riguardano, entro determinate circostanze, hanno creato un fronte di occupazioni del tutto nuove, nei giornali e negli studi legali.
Le richieste in questo senso sono infatti molto frequenti, e nel caso dei giornali quasi quotidiane: ci sono studi legali che le seguono, e sono nate società che svolgono servizi in questo senso. Nelle aziende giornalistiche si sono investite risorse, tempo e competenze per dare risposta a queste richieste.

Le risposte sono complesse, perché le variabili intorno a cui viene discussa la legittimità delle richieste sono tante: quanto tempo è passato, che notorietà aveva e ha la persona coinvolta, quanto siano rilevanti la sua presenza e la citazione del suo nome nell’articolo discusso, che valore di servizio pubblico abbia tuttora la notizia. E poi ci sono tipicamente tre diverse richieste che vengono avanzate, in successivi subordini: la cancellazione dell’articolo, la rimozione del nome del cliente dall’articolo, la “deindicizzazione” dai motori di ricerca (ovvero l’introduzione di un breve codice che faccia sì che l’articolo non compaia su Google e sui motori di ricerca).
Poi, l’esperienza del Post sarebbe tentata di aggiungere qui una lunga trattazione sui toni bulli e minacciosi – quasi sempre dei bluff senza fondamento per intimidire interlocutori inesperti – di alcuni degli studi legali richiedenti, ma non ci sfogheremo in questa occasione.

Più in generale, per i giornali è anche una questione di valutare ogni volta – contemplando le variabili citate sopra – una scelta di equilibrio tra il diritto di cronaca e di documentazione storica, e i diritti o le spesso comprensibili esigenze delle persone protagoniste delle notizie.


domenica 25 Aprile 2021

Le contese sulla “storica sede del Corriere”

Questa settimana c’è stato un piccolo sviluppo non favorevole a RCS – la società editrice di Corriere della Sera, Gazzetta dello Sport , e di diversi periodici, la cui maggioranza è dell’imprenditore Urbano Cairo – di una contesa giudiziaria che ha enormi implicazioni economiche, e in parte anche simboliche. Si tratta infatti della ” storica sede ” del Corriere della Sera in via Solferino a Milano: che RCS vendette nel 2013 al fondo americano Blackstone, mantenendo in una parte degli immobili la redazione del Corriere della Sera , in affitto (la Gazzetta dello Sport fu invece spostata nella sede principale di RCS, nella periferia nordest di Milano). La vendita aiutò le casse di RCS in un momento di grosse difficoltà, ma fu molto contestata dai giornalisti del gruppo.
Quando pochi anni dopo Urbano Cairo divenne azionista di maggioranza e sostanzialmente “editore” del gruppo, decise di contestare quella vendita (era il 2018) sostenendo che fosse stata fatta a condizioni svantaggiose a cui RCS sarebbe stata costretta dalle sue difficoltà (RCS avrà presto pagato in canone di affitto più di quanto ricavò dalla vendita). Il procedimento legale avviato da Cairo (una richiesta di “arbitrato“) interruppe così una nuova trattativa di vendita dell’immobile alla società Allianz da parte di Blackstone (che ne avrebbe ottenuto un ricavo doppio, generando i risentimenti di Cairo): e Blackstone quindi presentò a sua volta negli Stati Uniti una denuncia contro Cairo con una enorme richiesta di danni, denuncia il cui percorso è stato sospeso in attesa dell’arbitrato italiano: la storia è raccontata più estesamente qui .
La richiesta di Cairo non ha come priorità l’annullamento della vendita dell’immobile, ma soprattutto un risarcimento economico per RCS, come ha spiegato lui stesso. Ed è una questione che ha una grande importanza per i bilanci di RCS (con molte implicazioni societarie e bancarie: la più rilevante è che RCS non ha messo a bilancio nel cosiddetto “fondo rischi” la richiesta di danni da parte di Blackstone: questo favorisce i bilanci attuali di RCS ma mette a rischio quelli futuri se Blackstone ottenesse ragione).
La novità di questa settimana è che in un procedimento parallelo a quello avviato da Cairo, la procura di Milano ha chiesto l’archiviazione dichiarando in sostanza che nella vendita non ci siano stati rilievi penali di “usura”. La decisione sull’arbitrato dovrebbe esserci a fine luglio ed è del tutto indipendente da questa indagine penale, ma una decisione diversa da parte della procura l’avrebbe senz’altro condizionata in senso favorevole a RCS.

(a margine: il Corriere della Sera, che aveva celebrato la denuncia e l’apertura dell’inchiesta per usura, non ha invece dato notizia della richiesta di archiviazione)


domenica 25 Aprile 2021

La Super Lega e i quotidiani italiani

La spettacolare catastrofe del progetto “Super Lega” tra dodici squadre di calcio europee ha avuto dei tratti peculiari italiani che hanno riguardato i maggiori quotidiani. Si dà infatti il caso che le due società che pubblicano i tre maggiori quotidiani italiani (Corriere della Sera, Repubblica e Stampa) possiedano ciascuna una squadra di Serie A (Torino e Juventus: una esclusa e una promotrice della Super Lega), e che questo abbia creato un groviglio di conflitti di interessi. Dal momento che la gran parte delle opinioni e delle posizioni – anche quelle sui giornali – è stata contraria al progetto Super Lega, per ilCorriere della Sera è stato meno problematico dare spazio ai pareri (contrarissimi) del proprio editore. Anche se faceva impressione, mercoledì, vedere in prima pagina rispettivamente sul Corriere e su Repubblica foto e intervista dell’editore del primo e foto e intervista del cugino dell’editore della seconda (per giunta la stessa mattina il Sole 24 Oreapriva con un grande virgolettato del presidente di Confindustria, ovvero a sua volta l’editore di quel quotidiano: ma non sulla Super Lega).
Repubblica ha come la gran parte degli altri quotidiani scritto piuttosto criticamente del progetto Super Lega, riportando le accuse molto pesanti contro il suo maggiore promotore: il presidente della Juventus Andrea Agnelli, importante membro della famiglia e dell’azionariato che possiede Exor, la società di cui fa parte GEDI, editrice di Repubblica. Mercoledì però ha dedicato ad Agnelli un’intervista di due pagine intere, condotta addirittura dal direttore del quotidiano Maurizio Molinari (venerdì è intanto passato un anno dal traumatico licenziamento del suo predecessore Carlo Verdelli): intervista senza indulgenze e giornalisticamente rilevante nella sostanza, ma appunto problematica in linea di principio (il rapporto dell’intervistato con la testata non era indicato in nessun modo, per esempio).

Ad aggiungere una complicazione ulteriore e puntuale ci si è messo il precipitoso fallimento del progetto Super Lega nella serata di martedì, alla vigilia della pubblicazione dell’intervista. Andrea Agnelli era stato intervistato da Repubblica la mattina di martedì e aveva dato risposte di totale e perentoria certezza rispetto al successo («Fra i nostri club c’è un patto di sangue, andiamo avanti», «[il progetto] ha il cento per cento di possibilità di successo»): quando a inizio serata sono arrivate le prime notizie di probabili defezioni di alcune squadre l’articolo è stato parzialmente integrato nel suo incipit e nelle domande iniziali, ricevendo dalla Juventus indomita conferma su quelle due prime risposte. Ma quando poco dopo mezzanotte il quotidiano è stato pubblicato online, l’incipit conteneva ora la presa d’atto del fallimento (“si sono ritirate le sei squadre inglesi”) e sosteneva che Agnelli “ci parla prima di partecipare ad una riunione digitale notturna tra i soci fondatori della Super Lega”, ma le risposte di Agnelli non avevano ricevuto nessun emendamento (il “patto di sangue” era raccontato come morto poche righe prima che Agnelli lo garantisse: però è stato tolto nella notte dalla prima pagina), facendole così apparire la mattina dopo un’ulteriore dimostrazione di un’ingenuità comunicativa della Juventus e del suo presidente.


domenica 25 Aprile 2021

È una buona idea per i giornali buttarsi su Clubhouse?

È raro che un precoce investimento su una cosa nuova si riveli proficuo, alla lunga: statisticamente i nuovi formati o tendenze che si affermano sono assai pochi rispetto a tutti quelli che vengono presentati come “the next big thing”, e quindi salirci sopra immediatamente ha maggiori probabilità di fallimento che di riuscita. Ed è sicuramente più efficace aspettare e far passare le eccitazioni iniziali. Ma è vero che individuare un successo prima di tutti genera un vantaggio maggiore, ed è più facile riuscirci se si fanno esperimenti più numerosi.
Il sito britannico PressGazette, che si occupa di news e media, ha provato a scrivere un piccolo manuale per i giornali indecisi se fare progetti e investimenti su Clubhouse, il cosiddetto “social dell’audio” che ha avuto grandi attenzioni nei mesi scorsi ma di cui è già percepito e raccontato un grosso ridimensionamento dell’interesse, probabilmente fisiologico. Le conclusioni dell’articolo sono un po’ ambigue – e mettono molto in conto il successo di prodotti concorrenti da parte di Facebook o Twitter – ma qualcosa dicono:
“La verità è che, per come stanno le cose, Clubhouse non è una piattaforma imprescindibile per gli editori, che dovrebbero dare priorità ad altri social media. Ma i più lungimiranti hanno ragione a tenere d’occhio Clubhouse. Se mantiene lo hype dei mesi scorsi, può diventare presto un investimento di tempo più valido per chi sappia sfruttarlo”.


domenica 18 Aprile 2021

Il caso più delicato di conflitto tra giornalismo e pubblicità

Abbiamo raccontato spesso di come le difficoltà economiche delle testate giornalistiche generino sovrapposizioni sempre più spregiudicate e meno trasparenti tra i contenuti giornalistici e quelli pubblicitari, con rischi di conflitto e di inaffidabilità dei primi o ingannevolezza dei secondi. Ma parliamo sempre di promozione di prodotti o servizi commerciali riconoscibili come tali. La questione sta diventando ancora più delicata e pericolosa da quando gli spazi promozionali sui giornali vengono acquistati da strutture e istituzioni interessate a una narrazione propagandistica della realtà, producendo quindi contenuti in conflitto con quelli della più rilevante attualità, ovvero con il ruolo principale del giornalismo.
C’erano stati nei mesi scorsi i casi di Cina e Polonia, ma questa settimana una questione più puntuale è stata notata da alcuni lettori del sito di Ansa e successivamente raccontatadal Fatto: Ansa ha pubblicato un articolo sponsorizzato dall’ambasciata del Qatar che nega le accuse – sostenute e dimostrate da molte inchieste giornalistiche – di sfruttamento, schiavitù e morti sul lavoro nell’organizzazione dei Mondiali di calcio. Un uso di questo genere degli “articoli sponsorizzati” – e un’adesione alla “difesa” presentata da Ansa nell’articolo del Fatto – implica che una testata giornalistica accetti di ospitare notizie false o di propaganda politica e ideologica con la candida dizione “in collaborazione con”.
«Alle domande del Fatto Quotidiano, il direttore dell’Ansa Luigi Contu ha risposto così: “L’articolo contiene l’estratto di un’intervista pubblicata sul quotidiano francese Le Figaro, crediamo abbia valore giornalistico”. La collaborazione commerciale con il Qatar, spiega Contu, “non ci imbarazza: lo facciamo con molte ambasciate, anche di Stati non democratici. Manteniamo autonomia e controllo su quello che scriviamo”. Si tratta di contenuti assimilabili ad articoli commerciali, è come affittare uno spazio giornalistico a uno stato estero. “Vero – conviene Contu – ma lo facciamo in maniera trasparente”. Sull’entità economica dell’accordo, il direttore non è d’aiuto: “Non la conosco, non credo sia rilevante, forse poche migliaia di euro”.
Il presidente dell’Ansa, Giulio Anselmi (che occupa la stessa carica in capo alla Fieg, federazione degli editori di giornali), conferma le parole di Contu: “È un accordo commerciale che non mina l’autonomia giornalistica della nostra redazione. L’altro giorno infatti abbiamo pubblicato una notizia critica sul Qatar”».


domenica 4 Aprile 2021

Una specie di patteggiamento

Questa settimana Google ha attivato in Italia il progetto Google News Showcase, con cui promuove i contenuti di alcune testate giornalistiche: è il risultato delle trattative internazionali tra Google e le aziende giornalistiche, di cui abbiamo parlato quasi ogni settimana negli scorsi mesi. In Italia i giornali coinvolti lo hanno raccontato celebrandolo ognuno come un proprio successo e come il riconoscimento di un particolare valore da parte di Google. A descrivere più esattamente la natura dell’accordo è uscito invece un più accurato articolo su Domani, martedì scorso.
“Assomiglia molto di più a una complicata manovra di pubbliche relazioni”.


domenica 4 Aprile 2021

Lo strano giornale che è Harper’s

È una testata americana assai illustre, di cui da noi è piuttosto noto il nome – anche perché a volte lo si confonde con il mensile femminile Harper’s Bazaar, nato da una sua costola ma venduto alla grande multinazionale Hearst un secolo fa – ma praticamente ignota ogni altra cosa. Harper’s Magazine è un mensile newyorkese di attualità e cultura nato nel 1850 che ha pubblicato nella sua storia grandi scrittori, autori famosi, reportage che sono nella storia del giornalismo. Da quarant’anni ha degli editori/direttori che lo hanno portato su posizioni molto di sinistra ma anche molto indipendenti, che hanno generato negli anni occasionali ma intense attenzioni e discussioni. Ha fatto di nuovo notizia in tutto il mondo l’anno passato per la pubblicazione dell’articolo di critica contro la “cancel culture” firmato da diversi intellettuali. Nella sua rubrica dedicata ai media sul New York Times, Ben Smith ha raccontato domenica scorsa le diverse anomalie del giornale: tra cui la scelta di far lavorare la redazione negli spazi della redazione malgrado la pandemia.


domenica 4 Aprile 2021

Libero e la violazione della regola

Il criticabile e criticato sistema dei “contributi pubblici diretti” ai giornali ha criteri poco convincenti a giustificare sostegni che superano per diverse testate il milione di euro, e che sono facilmente aggirabili: le “cooperative di giornalisti”, per esempio, sono in alcuni casi una formalità fittizia che nasconde un editore e proprietario del tutto simile a quello di altri quotidiani. E non potendo intervenire sulla qualità dei contenuti – per delicate ragioni legate alla libertà di espressione ed editoriale – la legge che attribuisce i contributi ha stabilito pochissimi vincoli minimi di rispetto civile per le aziende giornalistiche che vengono finanziate. Uno di questi richiede comprensibilmente “l’obbligo per l’impresa di adottare misure idonee a contrastare qualsiasi forma di pubblicità lesiva dell’immagine e del corpo della donna”.
Il movimento “Non una di meno” ha individuato la pubblicazione su Libero di una pubblicità che corrisponde palesemente alla definizione di “pubblicità lesiva dell’immagine e del corpo della donna” e viola quindi la norma, e ha chiesto al Dipartimento per l’Editoria – in rispetto delle prescrizioni della legge – di ritirare il contributo di ben 5.407.119,97 euro (il terzo più ricco) destinato a Libero per il 2019.


domenica 4 Aprile 2021

Non lo fare più

Julian Reichelt, il direttore della Bild – il giornale tedesco scandalistico che è il quotidiano più venduto in Europa – è di nuovo direttore dopo l’autosospensione legata alle indagini interne sulle accuse di abusi del suo ruolo da parte di alcune dipendenti. L’indagine ha individuato comportamenti inadeguati ma non gravi abbastanza da sanzionarlo in qualche modo, e ha parlato di “sbagli fatti” e “confusione tra le vite professionali e private” ma specificando che “a differenza da quanto riportato da alcuni media, non ci sono state molestie sessuali” o abusi di questo genere. Alexandra Würzbach, la direttrice dell’edizione domenicale che aveva sostituito Reichelt durante le scorse settimane, resterà condirettrice a garanzia di maggiori prudenze future.


domenica 28 Marzo 2021

Showcase must go on

Lo sviluppo italiano delle trattative di Google con gli editori di giornali che vi avevamo anticipato tre settimane fa è stato ufficializzato mercoledì: Google ha comunicato i nomi di alcune testate che hanno accettato di essere pagate per l’uso dei propri articoli nel nuovo contenitore di news che si chiama Google News Showcase (che avrà maggiore visibilità sugli smartphone, ma anche su Google News). Un gruppo molto eterogeneo che comprende tra gli altri il Corriere della Sera, Libero, Fanpage, il Sole 24 ore, Varese News, il Foglio e il Fatto. L’accordo è stato anche molto celebrato dalle testate coinvolte, per le quali significa sia un interessante contributo economico (forfettario su tre anni, diverso per ciascuna testata), sia un’occasione di promozione maggiore dei propri contenuti, data la potenza in questo senso della distribuzione di Google. Le uniche possibili controindicazioni, per le testate coinvolte, sono di aver accettato compensi economici che qualcuno ha giudicato invece non soddisfacenti, e di offrire agli utenti di Showcase contenuti che altrove sono destinati solo agli abbonati paganti: perdendo così abbonati potenziali.

Ma le ragioni del progetto, al di là delle sue ricadute, sono poco raccontate in tutti questi articoli: l’operazione è nata come un modo per Google di accontentare le richieste economiche dei giornali in tutto il mondo (che chiedono da tempo e con sempre maggior forza di essere compensati per la citazione da parte di Google dei loro contenuti) scegliendo il modo e i termini per farlo, piuttosto che correre il rischio di esserne obbligata in base a nuove legislazioni su cui non abbia il controllo, e per evitare di legittimare le richieste che riguardino l’uso degli articoli sulle pagine del motore di ricerca e su Google News. Gli accordi prevedono infatti che le testate coinvolte e compensate rinuncino così a ogni diversa pretesa nei confronti di Google, e attenuano così il loro lavoro di lobbying sulle istituzioni legislative.

Il compromesso “ok, ti paghiamo, ma come diciamo noi, e tu smetti di piantare grane” non ha convinto tutti negli altri paesi. In Italia invece tra le testate maggiori mancano solo quelle del gruppo GEDI (l’editore di Repubblica e Stampa, il più grande del paese nei quotidiani), ma è probabile che facciano annunci simili nei prossimi giorni, una volta ottenute condizioni economiche convincenti.

Di tutto questo abbiamo parlato spesso nei mesi scorsi: ricordiamo soltanto la critica maggiore rivolta a questi accordi, che è di privilegiare una retribuzione economica puntuale che non interviene sulle condizioni strutturali di crisi e sulle prospettive future delle aziende giornalistiche, e trascurare il vero danno radicale causato da Google sul loro business, ovvero l’essersi impadronito (insieme a Facebook soprattutto) del mercato pubblicitario generando un crollo del suo valore per i media.


domenica 28 Marzo 2021

Invece i periodici Mondadori

Anche Mondadori ha diffuso i suoi bilanci nel 2020, che confermano come i migliori risultati e le maggiori priorità siano sui libri piuttosto che sull’informazione, in particolare quella di carta (Mondadori è tuttora il maggiore editore di periodici, pubblicando tra gli altri Sorrisi e Canzoni, Chi, Donna Moderna, Grazia):
“nel 2021 il Gruppo Mondadori intende proseguire nell’opera di consolidamento della propria leadership nell’area Libri – sia nel segmento dell’editoria scolastica sia Trade, aumentandone la rilevanza e l’incidenza sul complesso delle attività del Gruppo – e di completamento delle proprie competenze e offerta in ambito digitale […] Nel 2020 il mercato pubblicitario ha registrato un calo complessivo del 15,3%, risentendo pesantemente degli effetti negativi conseguenti all’emergenza sanitaria Covid-19. Tutti i canali hanno registrato nel periodo una contrazione, tra cui il digital -0,8% e periodici -36,6%“.


domenica 28 Marzo 2021

Sistemi loschi

Gli americani chiamano “dark patterns” i meccanismi ingannevoli creati online per indurci a scelte diverse da quelle nei nostri interessi: “scelte di design che rendono molto facile l’ingresso in una situazione e molto difficile uscirne”. Contro i tanti modi con cui i siti più diversi utilizzano “dark patterns” per far sì che gli utenti accettino delle condizioni o fatichino a rifiutarle ci sono campagne da diverso tempo, e questa settimana la California ha approvato una legge per vietarne l’uso e invalidare i consensi ottenuti con questi sistemi.
Tra gli esempi di “dark patterns” elencati dal sito Digiday c’è anche – già – “nei servizi di abbonamento: rendere molto difficile la cancellazione di un servizio o l’individuazione dei link per rifiutarlo”. La California era già intervenuta tre anni fa specificamente su questo.

Come ricorderete, eravamo tornati a parlare ancora la settimana scorsa degli ostacoli all’annullamento degli abbonamenti creati da molti giornali, e abbiamo ricevuto ulteriori segnalazioni questa settimana, che riguardano anche siti esteri: la pratica non è assolutamente solo italiana. E infatti la non profit American Press Institute ha pubblicato lunedì scorso una ricerca dedicata alle scelte dei giornali americani per conservare gli abbonati che tra l’altro dice che “solo il 41% rende facile la disdetta online di un abbonamento”. Il tema di questo uso di “dark patterns” è stato ripreso anche da un articolo sul sito NiemanLab, che si occupa di giornalismo per una fondazione di Harvard.


domenica 21 Marzo 2021

I famigerati tabloid britannici

Disegniamo una piccola mappa, ché noi li chiamiamo così ma sono testate anche molto diverse tra loro, pur condividendo oltre al piccolo formato una scelta di temi e storie mediamente più “larghe”, “popolari” e brevi: in alcuni casi traboccando soprattutto nello scandalistico, nel bellicoso, nel morboso e nel pettegolo, in altri conservando una quota di attenzioni a temi più seri.
I più importanti sono questi (escludendo la freepress Metro) e hanno una diffusione di gran lunga superiore a quella dei quotidiani considerati più seri come il Times, il Guardian, il Daily Telegraph, il Financial Times.
Il Sun è il più grande e importante: ha mezzo secolo ed è pubblicato da News Corp, l’azienda multinazionale di proprietà del famigerato editore Rupert Murdoch (famigerato per potere e spregiudicatezza) e che possiede anche il Times e il Wall Street Journal, tra gli altri. Il Sun stesso è famigerato per l’aggressività dei modi che spesso sconfinano nel criminale e per produrre contenuti sensazionalistici e demagogici: ancora giovedì il New York Times ha rivelato che il Sun ha pagato un losco investigatore per ottenere informazioni personali e riservate su Meghan Markle. Le sue posizioni politiche sono state varie, con orientamenti spesso conservatori ma disposti a sostenere candidati labouristi.

Il Daily Mail è il suo concorrente (sono i due con una diffusione che supera il milione di lettori), con posizioni molto di destra (qui c’è un grafico più ampio sulle posizioni politiche percepite dei giornali inglesi): appartiene alla famiglia che lo fondò più di un secolo fa ed è stato capace di costruire precocemente un enorme seguito anche su internet, grazie soprattutto ai formati del “boxino morboso” molto imitati anche in Italia, che lo rendono uno dei siti di news più letti del mondo. I suoi approcci sono ugualmente pessimi e la sua inaffidabilità banditesca è nota.

Il Daily Mirror si differenzia per essere sempre stato su posizioni più di sinistra nei 120 anni della sua storia. Nel suo curriculum recente c’è una famosa storia di intercettazioni telefoniche illegali sulle linee di personaggi famosi.
Il Daily Express è quello che ha posizioni più di destra, con grande sostegno al partito UKIP e a Brexit, e battaglie contro l’immigrazione. È nota la sua incessante attenzione per ogni evocazione di sospetto sulla storia e sulla morte di Diana Spencer, ancora oggi.
Il Daily Star è dedicato più esplicitamente alle celebrities, allo spettacolo e al gossip: è stato protagonista del peggio della copertura del caso di Madeleine McCann insieme all’Express: entrambi sono stati denunciati dai genitori della bambina scomparsa e condannati a un risarcimento e a una prima pagina di scuse. Ha smesso di pubblicare ragazze in topless a pagina 3 nel 2019 (ci sono ancora ragazze, non in topless). Venerdì aveva una pagina sugli inglesi che non si deodorano le ascelle e varie foto di sederi femminili nei contesti più diversi. Star ed Express sono della stessa società che pubblica il Mirror.
L’Evening Standard ha quasi due secoli ed è diventato una freepress nel 2009: è più specificamente londinese, più “presentabile” degli altri tabloid ed è di proprietà dell’imprenditore russo Alexander Lebedev, uno dei cosiddetti “oligarchi”, ex ufficiale del KGB.


domenica 21 Marzo 2021

Prigionieri

La scelta di alcune testate di trattenere gli abbonati mettendo ostacoli pratici all’annullamento degli abbonamenti (soprattutto richiedendo agli abbonati comunicazioni macchinose del tutto superflue) continua a raccogliere critiche e generare risentimenti: anche se probabilmente in numeri minori rispetto a quelli degli abbonati che permette di trattenere. Questa settimana tra gli altri si è lamentato Jonathan Bazzi, scrittore tra i finalisti del premio Strega dell’anno passato, che avrebbe voluto chiudere l’abbonamento alla Stampa.


domenica 14 Marzo 2021

L’articolo sparito su Coso e Coso

Domenica scorsa il sito del Corriere della Sera ha cancellato senza spiegazioni un articolo che aveva pubblicato poco prima, dedicato a una notizia che è stata ripresa da molte testate internazionali, e che è in effetti una storia.
In breve: alla fine della settimana scorsa, l’account di Instagram che si chiama Diet Pradae che si occupa di critica della moda (con due milioni e mezzo di followers) ha raccontato della causa per diffamazione da parte di Dolce & Gabbana – il brand di moda – a cui si sta opponendo, e che riguarda il modo in cui fu raccontato e rivelato un famigerato incidente di comunicazione dei due fondatori dell’azienda. La storia è raccontata qui.

La parte che interessa a Charlie è quella che riguarda l’anomalo rapporto del giornalismo che si occupa di moda con l’oggetto del proprio lavoro di informazione, ovvero le aziende di moda: sia perché la causa in questione è un nuovo pezzo di una storia di aggressive insofferenze delle aziende di moda nei confronti delle critiche o delle autonomie di giudizio (insofferenze però abituate da speculari disponibilità e indulgenze da parte dell’informazione sulla moda); sia perché a margine di questo caso è successa un’ulteriore cosa che conferma questa anomalia, ovvero che il Corriere della Sera abbia rimosso precipitosamente dal suo sito un articolo che era stato pubblicato per dare brevemente conto della notizia (di cui hanno scritto moltissimi altri siti internazionali, e nessuno italiano tra i più importanti, malgrado la storia riguardi per giunta una grande azienda italiana). Esempio vistoso della limitata autonomia dell’informazione dai propri inserzionisti in tempi difficili.
“E sulla stessa notizia della denuncia contro Diet Prada il sito del Corriere della Sera ha per esempio rapidamente rimosso un sobrio articolo che aveva messo online domenica pomeriggio riprendendo quello di Associated Press (l’articolo è rimasto online qui). Nessuna delle maggiori testate italiane ne ha scritto, e pochissimi anche tra i siti che si occupano di moda”.


domenica 14 Marzo 2021

Micromega tiene duro

Il direttore e fondatore della rivista di cultura e politica Micromega ha annunciato di avere costruito un modo per farne proseguire le uscite dopo che il gruppo Gedi (editore di Repubblica, Stampa ed Espresso, tra gli altri) aveva rinunciato a continuare a pubblicarlo.
“ho costituito “MicroMega edizioni impresa sociale s.r.l.”, che da adesso in poi pubblicherà la rivista. Società non profit: non potrà distribuire utili fra i soci. Tutto sarà reinvestito per allargare le attività di MicroMega.
La testata è stata rilevata a diverse condizioni, tra le quali la proibizione di avere, per anni quattro, anche come soci di minoranza, “società editrici, anche non italiane, ovvero soci di società editrici”.
Perciò, dovremo farcela da soli, diventando editori a partire da zero, con enormi difficoltà che stiamo già sperimentando ogni giorno (anche per il venire meno di economie di scala).
Abbiamo comunque ottenuto che Gedi, a costi contenuti, per tutto il 2021 continui a essere il nostro fornitore tipografico, curando anche distribuzione e abbonamenti. Senza tali accordi avremmo dovuto interrompere la pubblicazione della rivista per almeno sei mesi”.


domenica 7 Marzo 2021

Google come si muove travolge tutto

Ma stavolta si tratta di un’altra cosa, che riguarda internet in generale è di conseguenza anche le news online. Google ha annunciato di voler dismettere la pubblicità personalizzata in base ai nostri percorsi di navigazione: quella basata sui “cookies” che i siti depositano sui nostri computer e che contengono informazioni che vengono lette – tra gli altri – dai sistemi di pubblicazione dei banner e delle inserzioni, per decidere (non sempre con grande efficienza) quali pubblicità mostrarci. Non è chiaro ancora che tipo di meccanismo Google vorrà conservare sui propri browser, ma nei fatti è un grosso cambiamento – motivato con le richieste di rispetto dei propri dati da parte degli utenti – nei funzionamenti della pubblicità online e nel loro business.

La decisione di Google va in una direzione che in teoria dovrebbe essere apprezzata da tutti (quella del rispetto della privacy degli utenti), soprattutto se consideriamo quanto i “cookies” e la loro invasiva indiscrezione fossero demonizzati fino a pochi anni fa, prima che diventassero rapidamente parte della normalità della navigazione online. Ma proprio perché sono diventati “normali”, adesso ci è stato costruito sopra un grande e complesso sistema di business pubblicitario che riguarda tutta la Rete. Una similitudine che si può fare è quella con l’introduzione degli spot pubblicitari che interrompono i programmi in tv, alla fine del secolo scorso. Ci furono scandalo, irritazione e persino un referendum, in Italia: poi ci siamo abituati e ora quelle interruzioni sono una parte importante dei ricavi pubblicitari delle reti televisive, che non ne vorrebbero mai fare a meno.

Per questa ragione – tra gli altri – i grandi editori hanno già iniziato a protestare per questa scelta di Google, contraddicendo le predicazioni contro i cookies e contro le invasioni della privacy che gli stessi editori avevano ospitato fino a pochi anni fa. E lo stesso interesse di Google non è dettato da generosità nei confronti degli utenti come potrebbe sembrare, ma dalla consapevolezza che la propria condizione di potere enorme e prevalente nella gestione della pubblicità online gli permette di dettare le regole e imporre meccanismi diversi su cui avere maggior controllo e di cui essere il primo beneficiario.


domenica 7 Marzo 2021

Movimenti

New Scientist, una delle riviste di divulgazione scientifica più famose al mondo, pubblicata a Londra dal 1956, è stata acquistata dall’azienda britannica DMGT, la cui pubblicazione maggiore – nella sua divisione editoriale – è quella del quotidiano Daily Mail (e del suo sito, il più visitato sito di news in inglese del mondo), ma ha anche Metro e il quotidiano i, sempre nel Regno Unito. New Scientist prevede nel 2021 profitti per sette milioni di sterline.

Wired, testata mensile americana di illustre storia nelle rivoluzioni digitali della fine del secolo scorso (che descrivemmo qui) ha un nuovo direttore, dopo che Nick Thompson è andato a fare l’amministratore delegato del mensile Atlantic. L’editore Condé Nast (che pubblica anche Vogue, Vanity Fair, New Yorker, GQ, tra gli altri, sotto la direzione editoriale di Anna Wintour, famosa direttrice di Vogue) ha scelto Gideon Lichfield.
Lichfield, che era direttore della rivista dell’MIT e ha lavorato al sito Quartz e al settimanale britannico Economist, sarà responsabile anche delle edizioni internazionali di Wired, compresa quella italiana diretta da Federico Ferrazza.


domenica 28 Febbraio 2021

Il mondo a parte del giornalismo sulla Moda

Il New York Times ha pubblicato un articolo sul giornalismo che si occupa di Moda, interessante per la storia puntuale che racconta ma soprattutto per la scelta rara di indicare ai lettori le anomalie di quel settore dell’informazione: soprattutto nella confusione di rapporti privati e professionali tra i giornalisti e la aziende della Moda, e nelle questioni etiche che ci sarebbero in qualunque altro contesto. La storia è quella della casa “regalata” a un famoso giornalista americano dall’ex dirigenza del brand Manolo Blahnik, e delle liti giudiziarie successive, e di come questo evidenzi un sistema di regali e favori proprio di tutto il settore.
“Come scrive il New York Times, la vicenda non è solo l’ultimo aneddoto sui «problemi del mescolare lavoro e amicizia» ma «fa luce su un comportamento endemico da tempo nel mondo della moda, in cui regali, favori e influenza sono la moneta di scambio». Spesso si tratta di piccoli omaggi o favori: una borsa regalata a un giornalista famoso nella speranza che venga fotografato mentre la indossa, con un ritorno pubblicitario più o meno involontario per il marchio. Oppure l’invito a una sfilata dall’altra parte dell’Oceano, con volo in prima classe e pernottamento in hotel di lusso in cambio di un’intervista che altrimenti non ci sarebbe stata”.


domenica 28 Febbraio 2021

Un sottosegretario di qua o di là

Il governo ha scelto mercoledì sera i nuovi sottosegretari, e anche quello alla Presidenza del Consiglio con delega all’informazione ed editoria, che succede ad Andrea Martella e dovrebbe occuparsi di molte questioni che riguardano il tempestoso settore delle aziende giornalistiche, gli interventi pubblici in loro sostegno, la promozione dello sviluppo digitale. Il nuovo responsabile è Giuseppe Moles, che ha 51 anni, è lucano e di Forza Italia. La genesi della sua nomina non è molto promettente: ci si è arrivati dopo che la prima scelta – Giorgio Mulè, Forza Italia, già direttore di Panorama e di Studio Aperto – era stata ritenuta inaccettabile dal M5S  e dal PD per la sua contiguità con le aziende editoriali e gli interessi di Silvio Berlusconi. Quindi Mulè è stato riassegnato alla Difesa, e Moles – che ha competenze sui temi della Difesa e della geopolitica – è finito a fare il sottosegretario all’Editoria.


domenica 21 Febbraio 2021

Il panico nelle grandi testate “locali” americane

I “quotidiani locali” negli Stati Uniti sono una cosa diversa che da noi. A parte il più “popolare” USA Today, persino i tre quotidiani che vengono considerati più spesso “nazionali” – e uno di loro è il quotidiano più famoso del mondo – portano il nome della propria città, e uno addirittura di una strada della propria città (il New York Times, il Washington Post, il Wall Street Journal).
Tutti gli altri sono considerati “locali”, anche quando il “locale” sono città enormi e il bacino di lettori potenziali è di milioni di persone: il Boston Globe, il Los Angeles Times, il Chicago Tribune, sono tra i più importanti.

Adesso sta succedendo un guaio grosso, dopo che molte testate locali importanti hanno sofferto grandi tagli o chiusure nei due decenni passati. Il fondo speculativo Alden sta concludendo l’acquisto di tutto il Tribune Publishing, la grande azienda editoriale che pubblica il Chicago Tribune, il Daily News a New York, l’Orlando Sentinel e molte altre testate (anche lo Hartford Courant, che è il più antico quotidiano americano tra quelli che non hanno mai sospeso le pubblicazioni). Alden è famoso e famigerato per operazioni precedenti su alcuni giornali che sono risultate in devastanti tagli alle strutture giornalistiche e riduzoni della qualità dei prodotti, e per il suo obiettivo di monetizzare in ogni modo gli asset proficui dei giornali e chiudere tutto il resto. Un giornale importante del gruppo Tribune, il Baltimore Sun, è riuscito a trovare un finanziatore per creare una propria società non profit e staccarsi dall’operazione: ma sui destini degli altri c’è molto pessimismo e preoccupazione sia nelle redazioni relative, che tra gli osservatori delle cose che riguardano i media, che tra i lettori di quelle testate “locali”.

Le loro maggiori speranze sono state appese nei giorni scorsi al possibile veto all’operazione da parte di un’azionista di minoranza del gruppo, Patrick Soon-Shiong, medico miliardario ed eccezionale personaggio che tre anni fa ha anche comprato il Los Angeles Times. Venerdì il Wall Street Journal aveva raccontato che Soon-Shiong si sarebbe invece stancato dei giornali, e vorrebbe vendere lo stesso Los Angeles Times: ma lui ha immediatamente smentito.


domenica 14 Febbraio 2021

I tormenti al New York Times generano tormenti al New York Times

Se vi hanno appassionato le tensioni e le questioni al New York Times i cui sviluppi accompagnano questa newsletter da sei mesi, questa settimana non è effettivamente successo niente di grosso in superficie, ma sono usciti alcuni articoli che indicano come le tensioni e le questioni siano ormai una storia che va oltre gli addetti ai lavori.
Vanity Fair ha una ricostruzione di come si è arrivati all’uscita di Donald McNeil, lo stimato giornalista scientifico messo sotto accusa per avere usato – per discuterne l’uso – il termine razzista e dispregiativo “nigger” in una conversazione con alcuni studenti; e quello che si è capito è che, per quanto discutibile possa essere il suo allontanamento, non era stato messo in relazione solo a una parola ma anche ad altri comportamenti poco apprezzati. Anche CNN ha altri “retroscena” sulle tensioni nell’azienda. Il Washington Post invece racconta di come il direttore del New York Times abbia corretto l’iniziale proclama per cui certi termini non possano essere accettati “a prescindere dalle intenzioni”: la formula aveva generato le proteste di chi aveva sostenuto che i contesti invece contino (al New York Times è capitato di citare lo stesso termine nei suoi articoli, per raccontare fatti o discuterne), e il direttore Dean Baquet si è corretto in una comunicazione interna: «Non dovremmo vietare ogni parola dal nostro giornalismo se vogliamo raccontare il mondo per come è».
Infine, un giornalista di NBC ha rivelato che l’editore del New York Times ha bloccato un articolo di un columnist del giornale dedicato alla vicenda McNeil (l’articolo è stato pubblicato poi dal New York Post, il tabloid “popolare” newyorkese).


domenica 14 Febbraio 2021

Valigia Blu cresce

Il “crowdfunding” di Valigia Blu è arrivato alla sua scadenza di fine gennaio – ne avevamo parlato qualche settimana fa – superando abbondantemente l’obiettivo dei 60mila euro di raccolta che si era dato, basandosi sul risultato dell’anno precedente. Fino a oggi è oltre i 75mila euro. La sua fondatrice Arianna Ciccone ha raccontato soddisfazioni e progetti.
Valigia Blu è un sito di news nato come emanazione del Festival del Giornalismo di Perugia ma che da anni si è preso uno spazio e una visibilità online raccogliendo apprezzamenti legati soprattutto al lavoro di verifica e “debunking” delle notizie false, alle riflessioni sull’informazione e al “giornalismo esplicativo”. Si sostiene con i contributi dei lettori, promuovendo ogni anno campagne puntuali di contributo.
La raccolta di contributi permette di sostenere circa la metà dei suoi costi, che in parte sono attenuati da una gran quantità di lavoro volontario. Rispetto a forme rinnovabili di membership o abbonamento, la scelta del crowdfunding puntuale, ogni anno, ha la controindicazione di dover ricostruire da zero ogni volta la partecipazione (ora uno spazio su Facebook per i sostenitori comincia un primo lavoro di coinvolgimento stabile), ma beneficia invece dell’entusiasmo e della motivazione concentrati in una campagna. Per ora Valigia Blu preferisce così, e sta funzionando.


domenica 7 Febbraio 2021

Cambia nome Business Insider

È un sito americano dapprima soprattutto di economia e finanza ma poi cresciuto con estese derive “pop” e più leggere e molto clickbait (sabato il suo articolo più visto era sulla masturbazione in una serie televisiva): esiste dal 2005 e fa dei numeri di visite e lettori rilevanti. A un certo punto la sua maggioranza venne comprata dall’editore tedesco Axel Springer, cambio che originò l’allargamento dei suoi temi. Il suo CEO, Henry Blodget, è stato assai discusso e criticato per diverse “disinvolture” passate. Adesso per emanciparsi ancora di più dai temi originali il sito ha deciso di chiamarsi solo Insider.
(dal 2016 ce n’è una versione italiana, creata con una joint venture dal gruppo GEDI, un po’ come con lo HuffPost: articolo più letto di ieri, sabato, “Australia, un meteorite nel cortile della scuola: la Nasa va a controllare e resta di stucco”).

Un aggiornamento su Business Insider Italia.


domenica 24 Gennaio 2021

Quartopotéri

Vivendi, la multinazionale francese che ha partecipazioni in aziende media di generi molto diversi (in Italia se ne parla soprattutto per il suo rapporto conflittuale con Fininvest in Mediaset, e per la sua maggioranza in Tim) ha comunicato venerdì di avere acquisito il 7,6% dell’azienda editoriale spagnola Prisa, che tra le altre testate pubblica El Pais, il più venduto quotidiano del paese. Ma ha anche una quota del 20% nella società che possiede il quotidiano Le Monde in Francia. Come dice Le Figaro: “Se qualcuno ne dubitasse ancora, può smettere. Vivendi ha decisamente intenzione di crescere nella stampa e nell’editoria”.


domenica 24 Gennaio 2021

Strascichi al Sole 24 Ore

In realtà lo strascico è un articolo del Fatto che ha rimesso il dito nella piaga del periodo di direzione di Roberto Napoletano al Sole 24 Ore, tra il 2011 e il 2017. La storia è complicata – e in attesa di giudizio, letteralmente – ma la sintesi è che Napoletano lasciò il giornale in seguito a una serie di accuse che andavano dall’arricchimento personale ai danni del giornale, alla malagestione della società, alla costruzione di un sistema di falsificazionedel numero delle copie vendute. Le ostilità con una parte della redazione e le ricadute sulla salute dell’azienda sono un’eredità non ancora rimossa nella vita del giornale: e martedì il Fatto ha pubblicato un articolo attingendo ad alcune carte del processo appena depositate. La successione di spese “anomale” va abbastanza oltre l’ordinario comprensibile.
“L’audit indica spese “anomale” per 298 mila euro: 7.367 euro per richieste di rimborso non conformi alle procedure; 9.199 per spese con carta di credito aziendale senza giustificativi; 47.276 per viaggi in violazione delle procedure; 107.965 euro per beni e servizi previsti, come la casa e le auto, ma oltre i massimali; 65.578 per “beni e servizi non previsti da alcun contratto”, come i 51.600 euro per la pulizia della casa di via Monti a Milano, 12.998 per consegna giornali, 980 per consegna a domicilio dei regali di Natale”.


domenica 24 Gennaio 2021

Diritto all’oblio, difesa del passato

L’introduzione del cosiddetto “diritto all’oblio” nelle pratiche dei quotidiani è stata una cosa rivoluzionaria: benché la sua regolamentazione sia rimasta giustamente vaga e affidata molto alla discrezione dei giornali, è entrato nell’ordine di idee dell’informazione che le persone citate negli articoli possano avere accettabili ragioni per chiedere che il loro nome sia rimosso (e soprattutto non rintracciabile dalle ricerche su Google), trascorso un certo tempo e considerando il rilievo della notizia e della citazione. Le ragioni delle richieste però entrano in conflitto con la condivisa e celebrata necessità di “difendere la memoria” delle cose e del passato, oltre che con l’importanza documentale di un patrimonio di informazioni sul passato così vasto e dettagliato come quello dei giornali. Giornali che quindi si muovono con cautela e scelte diverse a seconda dei casi e dei contesti, e faticano a codificare delle regole assolute: è un terreno molto vario e accidentato.
Questa settimana il quotidiano Boston Globe – il più importante di Boston, quello del film Spotlight – ha annunciato la creazione di un servizio che prenda in considerazione i casi in cui un “breve e non significativo articolo del Globe influisca sul futuro delle persone coinvolte, con l’impressione che – conoscendo il sistema giudiziario – questo abbia in passato avuto effetti sproporzionati sulle persone di colore”. Ma “metteremo l’asticella molto alta per i personaggi pubblici o per i crimini maggiori” ha detto il direttore del digitale del giornale. Le soluzioni prospettate – da decidere caso per caso – sono la rimozione di passaggi, l’anonimizzazione dei protagonisti, la deindicizzazione degli articoli dai motori di ricerca. Come dice lo stesso articolo del Globe, il tema “solleva questioni delicate per i giornali, che si sono sempre ritenuti i responsabili delle prime bozze di scrittura della Storia”.


domenica 17 Gennaio 2021

I quotidiani locali GEDI nel frullatore

Ci sono stati grossi movimenti nei quotidiani locali, sullo sfondo delle trasformazioni che avevamo descritto la settimana scorsa. Al gruppo GEDI – che già prima del nuovo corso aveva un’abitudine di redistribuzione geografica dei direttori dei quotidiani locali – proseguono i “consolidamenti”. Omar Monestier – direttore del Messaggero Veneto di Udine, già al Tirreno, e tra i più attenti alle necessità di innovazione – è diventato direttore anche del Piccolo di Trieste. Alla redazione del Piccolo l’accorpamento non è piaciuto per niente, e c’è stato un comunicato di protesta con toni molto severi: “È diffusa in questa redazione l’idea che oggi, dopo 140 anni, si sia conclusa una storia: quella di un Piccolo totalmente indipendente”. Poi la redazione ha bene accolto il nuovo direttore e spiegatoche non ce l’ha con lui ma con l’editore. Editore che ha persino licenziato il vicedirettore del Piccolo Alberto Bollis, molto ostile al ridimensionamento del ruolo e dell’identità del giornale. Scelta anomala in un gruppo abituato appunto a redistribuire i ruoli al suo interno, e che alcuni hanno letto come un’esibizione di forza e di intenzioni poco disposte a trattare. Lo stesso è successo al direttore della Gazzetta di Mantova Paolo Boldrini – “esonerato” piuttosto sbrigativamente – , che viene rimpiazzato dall’ex direttore del Piccolo Enrico Grazioli (che aveva diretto la Gazzetta di Mantova già fino al 2012, e anche diversi altri quotidiani del gruppo). Fabrizio Brancoli, che aveva appena lasciato il Tirreno che GEDI ha ceduto a un nuovo editore, va a dirigere il gruppo dei quotidiani veneti: il Corriere delle Alpi di Belluno, il Mattino di Padova, la Nuova Venezia e la Tribuna di Treviso.


domenica 17 Gennaio 2021

Ma c’è chi sta peggio

Il Trentino, quotidiano di Trento, ha chiuso. L’ultimo numero è andato in edicola ieri. Per ora rimane il sito: il quotidiano è dell’editore altoatesino Athesia*, che nella regione è un potere editoriale e politico molto forte e quasi monopolista: oltre ad altre attività possiede a Bolzano i quotidiani Dolomiten (in lingua tedesca, molto letto e venduto, beneficiario di enormi contributi pubblici) e Alto Adige, e a Trento Adige e Trentino (che aveva acquisito cinque anni fa dal gruppo Espresso, ora GEDI).

*da non confondere con l’editrice Athesis, che è quella che pubblica i quotidiani l’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi.


domenica 17 Gennaio 2021

Chi paga la disinformazione

Il sito americano Axios ha ripreso e descritto un’analisi di Newsguard – un servizio internazionale di verifica dell’accuratezza sui siti di news – che mostra come i meccanismi della pubblicità online facciano sì che molti inserzionisti anche importanti abbiano le proprie pubblicità inserite in siti di riconosciuta e pericolosa falsificazione, e quindi contribuiscano economicamente a promuovere notizie false (in questo caso sui risultati elettorali americani, di quelle che poi alimentano gli assalti al Campidoglio). Questo avviene perché la gran parte dei banner pubblicitari che vediamo online sono gestiti da reti che evitano il rapporto diretto tra sito e inserzionista (quella di Google, Google Ads, è la più usata) e distribuiscono le pubblicità su molti siti che si limitano ad accettare il servizio per ottenerne ricavi economici (molto esigui, e questo è un problema più ampio di cui abbiamo parlato altre volte). Si chiama pubblicità “programmatic“.

Sia gli inserzionisti che i siti possono stabilire dei limiti e dei filtri – gli uni sui siti in cui comparire e gli altri sulle pubblicità da ospitare – ma molto permeabili, e soprattutto gli inserzionisti hanno pochissima contezza di quali siti finanzino (e quasi sempre se ne disinteressano, fin tanto che i loro banner raggiungono i numeri di occhi promessi). La questione riguarda anche i siti di news e gli inserzionisti italiani: prendiamo per esempio un sito che dice che i lockdown non servono e che promuove come veri una storia notoriamente falsa sui vaccini o un video di medici richiamati dall’Ordine dei medici; queste cose sono prodotte, diffuse e lette grazie ai ricavi economici ottenuti, per esempio, da TIM, Sky, oppure – attraverso gli spazi famigerati gestiti dal network Outbrain – Tezenis e Vodafone.

“La disinformazione è alimentata e finanziata da ricavi pubblicitari ricevuti dai maggiori brand”, dice Newsguard (che offre servizi a pagamento come proprio modello di business), suggerendo ai brand suddetti di affidarsi a concessionarie pubblicitarie con criteri di selezione non solo automatizzati e chiedendo ai network “programmatic” di progettare criteri più stringenti.


domenica 10 Gennaio 2021

C’è disordine nell’Ordine

Spiegare a cosa serva l’Ordine dei Giornalisti non è facile. In teoria dovrebbe garantire a tutti che ci siano un filtro e una formazione della qualità dell’informazione che riceviamo, per prima cosa, facendo sì che sia affidata prevalentemente a persone con competenza ed etica: ma questo obiettivo – già un po’ sfuggente nelle definizioni – è nella pratica perseguito con grande sbadatezza, e affidato solamente a un iniziale esame pigro e scolastico da superare dopo formazioni le più diverse (l’introduzione dei “crediti” nei percorsi professionali successivi ha creato più un’industria dei crediti che una vera qualità di aggiornamento e formazione). Insomma, la competenza e l’etica sono doti costruite più individualmente – che si sia giornalisti o no – che dalle strutture dell’Ordine. In più, in questi decenni in cui la produzione e diffusione di informazioni sono traboccate ovunque fuori dai tradizionali “mezzi di informazione”, la distinzione di affidabilità e responsabilità tra giornalisti e non giornalisti si è ulteriormente sfilacciata. L’Ordine dei Giornalisti è quindi oggi soprattutto un’associazione di tutela economica dei suoi iscritti, che hanno garantite condizioni contrattuali migliori (quando ottengono dei contratti): e molti giornalisti dicono semplificando che la quota annuale di cento euro serve solo a entrare gratis alle mostre e ai musei (in realtà, nei fatti, il tesserino da giornalista è tuttora un lasciapassare considerato in alcune situazioni ufficiali o emergenziali).

In questo contesto molto stanco e deprezzato ma anche acquisito e immutabile, c’è stata in questi mesi un po’ di agitazione intorno al presidente dell’Ordine, che si chiama Carlo Verna, ha 62 anni e un passato da giornalista sportivo in Rai. E che ha avuto un paio di occasioni di visibilità pubblica in cui non ha esattamente ben figurato: una è stata una maldestra comunicazione assai derisa sui social network a proposito della questioneFeltri-Boldrini, e la più recente è stata il suo aver governato una conferenza stampa di Giuseppe Conte con capacità e autonomia altrettanto discusse. Entrambe queste cose sono state molto sottolineate questa settimana dal suo principale avversario nell’Ordine, il toscano Carlo Bartoli che si candida a rimpiazzare Verna.


domenica 10 Gennaio 2021

Cos’è un editoriale

È un termine che viene usato piuttosto liberamente e spesso esteso a qualunque articolo di commento o opinione. Treccani invece spiega: “Articolo di fondo che viene stampato, talora senza firma, nelle prime colonne della prima pagina di un giornale (o nella prima pagina di una rivista) e rispecchia l’indirizzo politico del giornale stesso”. Quindi, a essere corretti e rigorosi sul significato, l’elemento peculiare dell’editoriale è che è scritto “a nome del giornale” e quindi è firmato dal direttore o da un responsabile importante, oppure non è firmato.
In molti quotidiani internazionali è più frequente – rispetto a quelli italiani – la tradizione di una sezione fissa di editoriali non firmati, all’interno delle pagine dei commenti e delle opinioni: che possono essere anche tre o quattro ogni giorno ed esprimere una posizione su diversi argomenti, a volte anche più leggeri. In Italia è un’idea che ha ripreso il Foglio alla sua nascita – quando declinò alcune delle impostazioni formali del Wall Street Journal – e che mantiene ancora oggi. Anche il Post pubblica editoriali non firmati, anche se molto saltuariamente (e con una scelta simile nella gran parte degli articoli).

Ma appunto per questa abitudine agli editoriali non firmati, si è fatto notare questa settimana negli Stati Uniti l’annuncio del maggiore quotidiano dell’Oklahoma – che si chiama The Oklahoman – per cui gli editoriali d’ora in poi saranno firmati. Le cose stanno cambiando, dice l’editoriale sugli editoriali, ed è meglio che i lettori sappiano sempre chi scrive: alla fine anche gli editoriali sono espressione di un autore (in particolare all’Oklahoman li scrive quasi sempre una sola persona). La scelta segue un anno di frequenti polemiche sulla difficile distinzione tra le pagine dei commenti e le altre nei quotidiani americani: dove appunto sono spesso curate da due redazioni separate.


domenica 10 Gennaio 2021

O con le cattive

Paolo Attivissimo è un giornalista della Radio Svizzera italiana che da anni guadagna crescenti popolarità online occupandosi con gran competenza e passione di almeno tre argomenti molto seguiti: l’esplorazione spaziale, le automobili elettriche, e le sciatterie e bufale sui giornali italiani. Le prime due le racconta con eccitazione e ottimismo, la terza invece con delusione e sfinimento che diventano spesso collere e insofferenze: quindi non è molto amato nelle redazioni italiane, perché ogni giorno pubblica – soprattutto su Twitter– segnalazioni di strafalcioni miste a insulti espliciti nei confronti dei responsabili.
Questa premessa serviva a spiegare il testo con cui Attivissimo ha commentato una cosa bizzarra successa questa settimana su molti siti di news, ma esemplare per conoscere lo scadimento di attenzioni e controlli diffuso in molte redazioni. È una vecchia branca degli errori giornalistici, quella delle traduzioni sbagliate per scarsa conoscenza delle lingue: a cui in questi anni si aggiunge spesso un uso precipitoso e poco critico dei traduttori automatici.


domenica 27 Dicembre 2020

Come mai in Italia niente scandali simili

La storia del podcast Caliphate e i suoi strascichi portano inevitabilmente a paragoni con le redazioni italiane, dove simili rigori, severità e autocritiche sono impensabili: benché casi di invenzione di articoli e fatti capitino e siano capitati. Le due maggiori ragioni per cui storie simili non succedono da noi sono l’indulgenza delle direzioni dei giornali (che tendono a vederle come colpe da occultare invece che da correggere; quando non le hanno addirittura incentivate) ma anche l’omertà generale dei giornalisti: e questa pure è una grande differenza dagli Stati Uniti, dove chi si inventa cose è spesso vissuto dai colleghi come un pericolo e un disonore per la credibilità di tutti, e a essere criticate sono soprattutto le dirigenze che lo consentono. Come è appena successo con Caliphate, i cui limiti erano stati indagati e accusati da molte testate e infine persino dal New York Times stesso.

Un caso anomalo è quindi in Italia l’accusa di questa settimana di Riccardo Romani – giornalista di Sky Tg24 e di lungo curriculum – nei confronti di Maurizio Crosetti di Repubblica a proposito di un celebrato articolo di quest’ultimo sulla morte di Diego Maradona. Romani dice che Crosetti si è inventato molte cose. Crosetti non ha risposto. Al di là del caso puntuale, una disinvoltura con la fabbricazione – soprattutto scrivendo da posti remoti del mondo – è sempre circolata in una parte del giornalismo italiano soprattutto prima che internet permettesse facili verifiche e sbugiardamenti (si legga l’istruttivo romanzo di Enrico Franceschini): oggi è appunto più rischiosa, ma non per merito dei silenziosi colleghi dei falsificatori.


domenica 27 Dicembre 2020

I contributi pubblici e il Manifesto

Una storia di questa settimana mostra di nuovo le contraddizioni e inadeguatezze dell’attuale sistema di contributi pubblici diretti ai giornali, di cui abbiamo scritto spesso. La storia è questa, e dovete avere un po’ di pazienza e attenzione perché ha dentro molte storie e cerchiamo di essere sintetici: due anni fa l’allora sottosegretario Crimi sostenne e ottenne l’abolizione della legge che regola i suddetti contributi, all’interno di un generale atteggiamento repressivo del M5S nei confronti dei giornali, che aveva reso la scelta del taglio non limpidissima. La nuova legge prevedeva che i contributi sarebbero stati progressivamente diminuiti fino ad estinguersi nel 2022. Due decreti sostenuti dal successivo governo hanno poi sospeso quell’intervento e differito le scadenze: ma dal 2021 la riduzione avrebbe dovuto iniziare. Invece nel decreto “Ristori” appena approvato è stata inserita una nuova proroga che garantisce la totalità dei contributi fino al 2022 (ovvero la quota relativa all’anno 2021).

Qui ci sarebbero da inserire molte parentesi, attingendo a cose che Charlie ha spiegato in passato. Una è che il contributo statale a un buon servizio pubblico di informazione che non ha più le fonti di autonomia economica di un tempo è una cosa che sarebbe del tutto responsabile e sensata per il funzionamento della democrazia. Un’altra è che adottare dei criteri per cui questo contributo provveda effettivamente a un miglioramento dell’informazione pubblica è difficilissimo. Una terza è che nei fatti i criteri adottati oggi sono in questo senso un fallimento, premiando senza nessuna ragione logica o di valore soprattutto testate che non meritano nessun trattamento di favore rispetto ad altre che quei contributi non li ricevono, e che in alcuni casi hanno sfruttato fino a oggi in modi truffaldini i criteri richiesti per accedere ai contributi. Un’altra ancora è che il 2020 ha di molto aggravato e legittimato le preoccupazioni per la salute economica dei quotidiani.
L’ultima è che il governo attuale si appoggia su due partiti che hanno atteggiamenti speculari ed entrambi sventati nei confronti di tutto questo: il M5S non nasconde le sue insofferenze e i suoi desideri punitivi nei confronti delle testate giornalistiche presso le quali gode di rarissime simpatie (l’unica eccezione è il Fatto), mentre il PD tende a mantenere un atteggiamento prudente e conservativo – e un po’ clientelare – rispetto ai poteri dell’informazione tradizionale e alle loro richieste.

In questo contesto nei giorni scorsi ci sono state trattative e baratti che hanno permesso al sottosegretario Martella di ottenere la nuova proroga dei contributi integrali ma solo di due anni, con il M5S che non ha voluto consentire prolungamenti maggiori. Questo ha molto preoccupato e deluso in particolare il Manifesto, che tra i giornali destinatari dei contributi si trova in due condizioni particolari: di difficoltà economiche storicamente maggiori, e di corrispondenza più legittima ed esatta al criterio che stabilisce i contributi per le “cooperative di giornalisti”, che altri giornali soddisfano assai meno credibilmente con acrobazie societarie.
Martella ha risposto al quotidiano con una lettera che dice in sostanza “siete ingiusti, ho fatto del mio meglio, non vi rendete conto con chi ho a che fare”, il Manifesto sta promuovendo una bellicosa campagna di sostegno, gli altri quotidiani coinvolti stanno più quieti godendosi il bicchiere mezzo pieno del prolungamento dei benefici, che non era scontato.
La cosa più promettente della lettera di Martella è probabilmente la promessa di una riforma generale dei criteri di contribuzione pubblica.
“il governo è al lavoro per formulare una proposta di riforma della contribuzione diretta all’editoria che superi definitivamente la prospettiva dei tagli, introduca elementi innovativi”


domenica 27 Dicembre 2020

La storia meno attraente di tutte

Ma è un pezzo importante di quello che sta succedendo a tutta una serie di condizioni acquisite del lavoro giornalistico italiano e rivela la loro attuale fragilità e le loro confuse prospettive. È la storia delle traversie dell’INPGI, l’ente che si occupa delle pensioni di quella particolare categoria professionale che sono i giornalisti in Italia.

Come molti albi professionali in Italia, anche quello dei giornalisti ha infatti un ente previdenziale sostitutivo dell’INPS, con cui garantisce ai suoi iscritti le pensioni e le varie indennità di malattia, gravidanza, disoccupazione. Da qualche tempo l’INPGI è in crisi: nel 2020 chiuderà con il bilancio in perdita per il quinto anno consecutivo, con una perdita di 253 milioni, assai più grave che negli anni precedenti. In questi casi la legge prevede che l’ente venga commissariato, ma un emendamento alla legge di bilancio del 2021 ha prorogato il termine per il commissariamento di 6 mesi. È la terza proroga dal 2019. In questi 6 mesi l’INPGI dovrà studiare piani per il futuro per riportare i conti in ordine, come non ha fatto finora. Il problema principale dell’INPGI sta nel suo funzionamento: l’istituto deve pagare pensioni – a volte anche molto alte – con i soldi versati annualmente dai giornalisti iscritti, che però sono sempre meno e guadagnano meno di un tempo (e quindi versano contributi minori). Dal 2012 al 2019 in Italia ci sono stati 2.509 contratti giornalistici in meno, perché sono di più i giornalisti che vanno in pensione di quelli che vengono assunti stabilmente. E la contraddizione è che se in questi anni si consentono alle aziende giornalistiche in difficoltà maggiori ammortizzatori e prepensionamenti per aiutarle a tagliare costi, quei prepensionamenti poi deve pagarli l’INPGI (ovvero gli altri giornalisti). Tutta questa questione è a sua volta legata a quella più ampia della grande distanza che esiste tra i professionisti in condizioni di consolidato privilegio e quelli in condizioni di contemporanea precarietà e disagio economico.

Le soluzioni finora pensate – contributi di solidarietà sulle pensioni più alte, tagli alle pensioni di reversibilità – bastano a risparmiare appena qualche milione ogni anno. La proposta migliore sembra quella di far entrare nell’INPGI i “comunicatori” che svolgono professioni non esattamente giornalistiche in simili ambiti, ma è difficile stabilire con certezza chi ne faccia parte (non esiste un contratto nazionale dei comunicatori) e anche se nell’INPGI entrassero tutti i comunicatori pubblici immaginati porterebbero 50 milioni in più all’anno, ancora troppo poco. Per giunta, le stesse associazioni dei comunicatori non vedono con favore l’idea di essere associati a un ente di previdenza in difficoltà. Insomma questa proroga di 6 mesi serve più a prendere tempo che a muoversi in qualche direzione. A rischio sono le pensioni future dei giornalisti (per le quali i giornalisti pagano i dovuti e cospicui contributi), e l’opzione più probabile sullo sfondo è che sia l’INPS ad assorbire l’INPGI rivedendone tutti gli attuali funzionamenti e criteri.


domenica 27 Dicembre 2020

Il gorgo Callimachi

L’imbarazzante – per il New York Times – “caso Caliphate” sta avendo ancora sviluppi malgrado l’inaudita ammissione di colpa da parte del giornale sulle insufficienti verifiche fatte sul podcast di Rukmini Callimachi basato in gran parte sulle dichiarazioni inventate di un presunto membro dell’ISIS. Un articolo sul sito di NPR – la radio pubblica statunitense – ha accusato i responsabili del popolarissimo podcast del New York Times, The Daily(celebrato come uno dei più grandi successi giornalistici di questi anni) di avere cercato un’attenuazione delle responsabilità del giornale e una “riduzione del danno” (anche intimidendo altri giornalisti), e la direzione del New York Times di avere affidato loro la divulgazione del problema malgrado fossero noti i loro coinvolgimenti personali con la produzione di Caliphate. Intanto Erik Wemple ha raccontato sul Washington Post come l’autocritica del New York Times non abbia soddisfatto molti nella redazione del giornale, che hanno accusato la direzione di avere trascurato elementi di dubbio sul podcast che erano già emersi al tempo della sua produzione.

(sullo sfondo c’è il famigerato precedente del “caso Jayson Blair” del 2003, ovvero la rivelazione di una serie di plagi e invenzioni da parte di un giornalista del New York Timesche fu allora uno scandalo inaudito)


domenica 27 Dicembre 2020

L’Osservatorio, osservato

L'”Osservatorio Permanente Giovani-Editori” è un oggetto misterioso nel panorama del business giornalistico italiano: il mistero si deve all’apparente distanza tra la sua straordinaria visibilità – soprattutto presso alcune testate – e capacità di creare relazioni con importanti figure di potere italiane e internazionali, e la poca concretezza e chiarezza dei suoi risultati, che nelle intenzioni proclamate dovrebbero riguardare la lettura dei giornali da parte dei giovani, appunto. Il tutto sintetizzato nella figura del suo fondatore, presidente e frontman, Andrea Ceccherini e nel suo incessante lavoro di autopromozione soprattutto in occasioni fotografiche accanto a vari “potenti della terra”.

Per molti anni quello che se ne sapeva era che il Corriere della Sera, il gruppo Monrif (che pubblica Nazione, Resto del Carlino e Giorno) e il Sole 24 Ore ne erano i principali sponsor e sostenitori, ottenendone in cambio un grosso lavoro di lobbying perché le scuole adottassero copie dei suddetti giornali da far leggere agli studenti. Poi negli ultimi anni sono successe un paio di cose: è stato rivelato lo scandalo dei dati di copie “gonfiati” del Sole 24 Ore – gonfiati per altre vie, ma le copie date alle scuole e conteggiate come vendute sono finite sotto maggiori attenzioni – ed è uscita un’inchiesta sul Venerdì di Repubblica che ha messo in discussione i risultati accampati dall’Osservatorio con il progetto “Quotidiano in classe” e dipinto il suo fondatore come un capace venditore di fumo e raccoglitore di contributi economici da editori e fondazioni bancarie che verrebbero in cospicua parte dedicati alla prosperità dell’Osservatorio stesso e del ruolo del suo creatore e presidente.

Il presidente Ceccherini ha querelato allora l’autore dell’inchiesta Claudio Gatti insieme all’allora direttore di Repubblica Mario Calabresi e allo studioso di business dei media Pier Luca Santoro, i cui pareri erano citati nell’articolo. La querela sarà discussa a febbraio: ma intanto lo studio Alpa incaricato da Ceccherini (lo stesso studio Alpa divenuto noto in questi anni per le relazioni con il Presidente del Consiglio Conte) aveva anche chiesto la rimozione dal sito di Santoro di due articoli critici dedicati alle attività dell’Osservatorio, e di un terzo che contiene la riproduzione di quello di Gatti, insieme al pagamento dei danni relativi. Questa settimana però il Tribunale Civile di Firenze ha rigettato la richiesta imponendo a Ceccherini il pagamento delle spese legali e definendo le domande poste da Santoro legittime e i fatti descritti reali. Nella sentenza si dice che «l’inefficacia dell’iniziativa “Il Quotidiano in Classe” risulta dai dati».


domenica 29 Novembre 2020

Michele Serra e Taboola, il ritorno

Michele Serra è tornato – nella sua rubrica di sabato su Repubblica – a contestare i contenuti cialtroni offerti da Taboola ai siti che decidono di accettarli (qui la puntata precedente). Ovvero anche la stessa Repubblica, ma non è la prima volta che Serra critica scelte del giornale con la discrezione necessaria al contesto che lo ospita.
Taboola, ricordiamo, è una di quelle piattaforme di pubblicità che distribuiscono sui siti web inserzioni “mimetizzate” con i contenuti. Di un altro servizio simile – Outbrain – fa uso anche il Post, per normali necessità di ricavi pubblicitari, mettendo meticolose attenzioni nel consentire solo banner “presentabili” tra la molta spazzatura ingannevole o morbosa che queste piattaforme tenderebbero a sbolognare in giro (a volte sfugge qualcosa, e accogliamo con gratitudine le segnalazioni dei lettori, intervenendo tempestivamente). Altri siti sono meno rigidi, e Serra ha da ridire.
«La domanda è questa: perché se un giornale, o una trasmissione televisiva, o una persona fisica, si macchia di sessismo (vedi il recente scandalo sul siparietto di Raidue, più cretino che offensivo, “come essere sexy al supermercato”), succede un casino, mentre la pubblicità online è dispensata, non so se per diritto divino o per potere di ricatto, da ogni riguardo nei confronti di Bo Derek, Claudia Pandolfi, eccetera? Secondo poi: chi è Taboola? Chi è, voglio dire, fisicamente? Una trasmissione tivù è il suo conduttore, i suoi autori, il suo editore, un giornale idem, ma come si chiama la persona fisica che mette online le rughe delle dive per prenderle per i fondelli? Di quale speciale esenzione gode?».


domenica 29 Novembre 2020

Le rassegne stampa e il diritto d’autore

Alcuni siti di news e giornali hanno raccontato questa settimana un piccolo sviluppo che riguarda un pezzo dell’industria delle news molto ignorato dal grande pubblico ma con un suo cospicuo ruolo: le società di rassegne stampa, o media monitoring con termine più contemporaneo. Sono i servizi che vendono a clienti – di solito aziende o istituzioni pubbliche, ma anche privati di varie visibilità e notorietà – un lavoro quotidiano di raccolta degli articoli che li riguardino. Un tempo era un lavoro concentrato soprattutto sui quotidiani e compiuto manualmente, con sfoglio e ritaglio fisico di pezzetti di carta: oggi è diventato tutta un’altra cosa, con algoritmi e motori semantici che selezionano i contenuti richiesti con grande completezza e raffinatezza, e attingono anche ai più diversi spazi del web, social network compresi. E indirizzandosi anche verso un’analisi di “reputation” dei clienti e non solo di rassegna.
La più grande e famosa di queste aziende si chiama L’Eco della Stampa: un’altra grande è Datastampa, ma ce ne sono poi diverse altre.

Un ulteriore fattore di trasformazione in questi servizi è la sempre più insistente richiesta da parte degli editori dei giornali di ricevere una retribuzione per l’uso e la vendita dei loro contenuti: una questione non dissimile da quella che oppone i giornali a Google e alla sua distribuzione dei loro contenuti. Questa richiesta ha portato a risultati confusi negli anni passati: una società creata apposta dagli editori è riuscita a fare accordi con alcune aziende di rassegne stampa, che però sono stati rifiutati dalle due maggiori. Insoddisfatti, alcuni grandi giornali sono usciti da quel consorzio e hanno cominciato a trattare separatamente. Allo stesso tempo alcune testate hanno avviato contestazioni giudiziarie contro i servizi di rassegna stampa. Questa settimana c’è stato un piccolo accordo, ma che ancora una volta è solo un frammento di una questione che andrebbe trattata collettivamente e con scelte condivise.


venerdì 20 Novembre 2020

Bernardo Valli, Repubblica e tutto il resto

Nei giorni scorsi si è molto parlato, tra i giornalisti e i collaboratori dei quotidiani, dell’abbandono di Repubblica da parte di Bernardo Valli, uno dei più stimati e importanti reporter e inviati italiani di sempre. Il Manifesto aveva riferito pubblicamente per primo di una lettera di Valli diretta a Repubblica, i cui contenuti sono stati interpretati da diversi siti di news a partire da alcune deduzioni (in alcuni casi inventando dei virgolettati di Valli): Valli ha comunque 90 anni, ma scriveva ancora sul giornale e sull’Espresso, e la decisione avrebbe potuto essere stata legata solo a questo.
Le deduzioni però non riguardano solo Valli ma più in generale un tema molto presente nelle discussioni recenti sul giornalismo italiano: ovvero dove stia andando Repubblica. È noto infatti il dissenso di Valli rispetto ad alcune posizioni (in particolare favorevoli all’attuale governo israeliano) assunte dal direttore di Repubblica Molinari, e si raccontano aneddoti di irriguardosi interventi del direttore su un articolo di Valli. Insomma, il suo abbandono – benché più discreto di quelli che lo hanno preceduto – è con buona certezza un altro pezzo della storia del progressivo stravolgimento recente di Repubblica (che domenica scorsa il fondatore Eugenio Scalfari ha provato a minimizzare scrivendo che quello che conta ora per Repubblica è avere un editore con le spalle economicamente larghe). L’ulteriore palese conferma della delicatezza del caso Valli è l’indifferenza con cui invece Repubblica – che lo aveva appena celebrato, un attimo prima che arrivasse il nuovo direttore – ha deciso di ignorare l’abbandono di uno dei giornalisti che l’hanno fatta e costruita come Valli. Indifferenza segnalata ieri da Adriano Sofri sul Foglio.


venerdì 20 Novembre 2020

Basta con gli endorsement

Secondo il giornale online americano The Hill, la pratica degli endorsement ufficiali da parte dei giornali nei confronti dei candidati alle elezioni, che negli Stati Unti è molto più frequente che da noi, è meglio abbandonarla. Intanto perché ha raramente le ricadute desiderate: le testate influenzano molto meno il cambiamento delle opinioni, e di recente gli endorsement hanno soprattutto perso. E poi perché vanno molto a detrimento della credibilità dei giornali in tempi in cui quella credibilità è in precipitoso declino. Funzionano di più e sono utili e convincenti, sostiene l’articolo, nei casi di testate locali dedicate a elezioni locali.


domenica 15 Novembre 2020

Che succederà ai giornali di Mondadori

Mondadori ha annunciato che a primavera Ernesto Mauri, amministratore delegato dell’azienda, lascerà il suo ruolo. Mauri è in Mondadori da dirigente da quasi trent’anni, con un intervallo prima a La7 e poi coi periodici di Cairo. Ha quasi 74 anni e gli sono riconosciuti successi e risultati in tempi prosperi e in tempi difficili. Negli ultimi anni è stato responsabile di uno spostamento delle priorità dell’azienda verso i libri, che si sta dimostrando oculato (i giornali vanno male, i libri tutto sommato bene), con l’acquisizione di Rizzoli, la cessione di Panorama e altre testate giornalistiche del gruppo e la diminuzione della partecipazione nel Giornale. E anche dell’acquisizione di Banzai Media, il gruppo di siti e testate web che è andato a riempire la storica lacuna di Mondadori sul digitale (Banzai Media aveva una quota nel Post, allora ceduta ai rimanenti soci, ndr).
La sostituzione di Mauri con l’attuale responsabile dei Libri Antonio Porro sarà una variabile rilevante nei destini delle testate giornalistiche che rimangono in Mondadori, tutte in difficoltà ma alcune ancora molto forti nei numeri, soprattutto Sorrisi e Canzoni, Chi e Grazia. Fino all’inizio dell’anno c’era una generica disponibilità a ulteriori cessioni ma il 2020 si è portato via la possibilità di poter ottenere offerte interessanti.


domenica 15 Novembre 2020

Cosa vuol dire “Op-Ed”

Le pagine dei commenti di autori esterni al giornale sui quotidiani americani sono gergalmente note come “Op-Ed pages” (e “Op-Ed” i singoli articoli): un diffuso equivoco chiarito di recente anche in redazione al Post è quello per cui si immagina che la sigla stia per “Opinioni e Editoriali”. Invece no.
Lo spiega tra gli altri un vecchio articolo del New York Times:
“The inaugural Op-Ed page appeared on Sept. 21, 1970. It was named for its geography — opposite the editorial page — not because opinions would be expressed in its columns”.
Vuol dire “la pagina opposta a quella degli editoriali”.


domenica 8 Novembre 2020

I guai della Gazzetta del Mezzogiorno

Della Gazzetta del Mezzogiorno, il più radicato quotidiano della Puglia e della Basilicata, di storia secolare, era stato dichiarato il fallimento lo scorso giugno, dopo una serie di problemi che avevano coinvolto accuse giudiziarie insieme ad accuse di cattiva gestione nei confronti dell’editore, tutto nel contesto delle difficoltà economiche dei quotidiani tradizionali. Al giornale era stato concesso di continuare le pubblicazioni nella prospettiva dell’acquisto da parte di un nuovo editore. Che non c’è stato, e si dubita che ci sarà, anche per una gestione ulteriormente maldestra delle procedure di messa in vendita: il giornale non è uscito sabato e tra due settimane dovrebbe scadere il suo “esercizio provvisorio”.


domenica 25 Ottobre 2020

Pagare una copia alla volta, o un articolo alla volta

La richiesta di poter leggere l’editoriale di Giannini anche senza abbonarsi alla Stampa ha anche rimesso in circolazione un’altra questione, su cui ci sono frequenti insistenze da parte di lettori e potenziali lettori: perché i maggiori giornali non rendono possibile l’acquisto online di una singola copia, o persino di un singolo articolo? Alcuni, come Libero, permettono l’acquisto di una copia chiedendo una registrazione. Che ci risulti, solo il Fatto e Domani lo consentono dalla app con immediatezza senza nessuna registrazione. Ai micropagamenti avevamo accennato qualche settimana fa spiegando le maggiori garanzie di continuità di ricavo offerte ai giornali dagli abbonamenti, e quindi la scelta di disincentivare altre forme di acquisto. Abbiamo chiesto ulteriori risposte e valutazioni a Valerio Bassan, esperto di modelli di business per l’informazione e autore della newsletter Ellissi.

I micropagamenti sembrano un’ottima idea, almeno in teoria. Permettono ai lettori di finanziare una testata senza impegnarsi troppo, di acquistare solo ciò che interessa davvero, offrono agli editori una strada di monetizzazione alternativa agli abbonamenti e alla pubblicità.
Eppure fino a oggi i micropagamenti non hanno mai attecchito. Perché? Ecco quattro aspetti, secondo me.

Per gli editori è molto più remunerativo un abbonato rispetto a chi acquista un singolo articolo. Il calcolo è presto fatto: per rimpiazzare un abbonamento da 90 euro all’anno servono 450 micropagamenti da 20 centesimi ciascuno, oppure 90 da 1 euro;

Se l’obiettivo dell’editore diventa generare 450 transazioni, allora dovrà moltiplicare gli investimenti di acquisizione dei singoli lettori paganti: questo potrebbe portare i giornali a perseguire dinamiche di acquisizione “mass market” simili a quelle della pubblicità. Ci manca solo un nuovo clickbait da micropagamenti;

Come conseguenza logica dei punti precedenti, il costo imposto al singolo micropagamento finirebbe per essere più elevato delle nostre aspettative. Spenderemmo 50 centesimi, o magari 60, per leggere un solo articolo (col rischio maggiore, peraltro, che quell’investimento non ci soddisfi);

Viviamo nell’era della subscription economy: acquistiamo in abbonamento non solo servizi, ma anche beni (dalle automobili alla verdura). Saremmo davvero disposti a spendere 1 euro per acquistare un singolo film su Netflix, piuttosto che 10 per fruire ogni mese di tutti i contenuti della piattaforma? Non sono sicuro che l’esperienza del micropagamento, per l’utente, sia quella migliore possibile.


domenica 18 Ottobre 2020

Era una premessa per dire dei viaggi

I lettori del Corriere della Sera hanno ormai familiarità con la proposta dei “viaggi coi giornalisti del Corriere”, spesso pubblicizzata sulle sue pagine. È un altro creativo esempio della necessità di cui sopra di arricchire le opportunità di ricavo sfruttando il capitale di contenuti o di competenze e visibilità delle testate. In RCS l’idea è nata dall’esistenza di un’agenzia di viaggi che è una società interna al gruppo, il “Dove Club”: e che permette di gestire tutti gli aspetti di un viaggio che altri giornali che vogliano fare la stessa cosa devono appaltare all’esterno (il Giornale, per esempio). La testata ci mette la presenza di un suo giornalista e la sua capacità di costruire programmi di viaggio interessanti in forza delle sue relazioni e opportunità (lo fanno lo stesso mensile Dove, il Corriere e IoDonna). Ed è un business che funziona: i gruppi sono di 20-30 persone (età media di solito alta, come quella dei lettori del Corriere e per via della possibilità di spesa), i prezzi non economici, ma la domanda c’è. In quest’anno difficile per i viaggi le mete sono state ridimensionate, ma in questi giorni sono proposti viaggi a Roma, in Sicilia, in Sardegna.


domenica 18 Ottobre 2020

Sono giornatine, al New York Times

Non basta il caso Callimachi, al giornale più importante e ammirato del mondo. Un opinionista ha criticato nella autonoma sezione dei commenti il celebrato progetto “1619” del giornale, dedicato a una revisione della storia degli Stati Uniti che superi le rimozioni sulla schiavitù e sul suo ruolo. Progetto che ha vinto premi, ha influenzato il dibattito, ma è stato anche molto attaccato, e pure da Donald Trump, diventando un pezzo importante del lavoro di “militanza” civile del New York Times di questi anni. Ma questa settimana Bret Stephens si è associato alle critiche, contestando sullo stesso New York Times la confusione tra il lavoro degli storici e dei giornalisti, e i suoi pretesi conseguenti errori in 1619. È intervenuto lo stesso direttore del giornale Dean Baquet, con un commentoprotettivo del progetto e della sua responsabile, e piuttosto furioso.
Negli stessi giorni, nel suo piccolo, il critico teatrale da 27 anni del New York Times ha annunciato che lascerà il giornale indicando in un commento del direttore sull’inutilità del suo ruolo una delle ragioni.
Tutto questo segue altre polemiche interne diventate molto pubbliche nei mesi passati, e insomma sono giornatine, al New York Times.