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  • Mercoledì 6 settembre 2023

Il Post e le foto “impressionanti”

Un po' di spiegazioni e un dibattito che non ha mai regole universali

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A volte capita che sul Post vengano pubblicate immagini che possono essere impressionanti o fastidiose da guardare per qualcuno. Alcuni lettori preferiscono non vedere certe foto per diverse ragioni, ma principalmente per due: perché quelle foto mostrano persone morte o sofferenti e questo fa loro impressione e le fa soffrire a loro volta, oppure perché lo trovano indiscreto e irriguardoso nei confronti delle persone ritratte o di quelle a loro vicine.

Sono reazioni che il Post tiene sempre in conto, e sulla base delle quali può fare scelte differenti bilanciando diversi criteri, che qui proviamo a condividere per dare una risposta alle richieste di chiarimento che in alcuni casi il Post riceve. Premettendo che su questo aspetto del lavoro di informazione vengono fatte ogni volta puntuali riflessioni, e che nessuna scelta è fatta con superficialità o trascuratezza.

La prima cosa da dire è che il lavoro che il Post fa è un lavoro di giornalismo e informazione: il suo primo obiettivo è quello di contribuire a far capire le notizie e i fatti che avvengono, e a far capire meglio il mondo in generale. Questo non significa che non vengano presi in considerazione criteri che possono finire per limitare questa priorità, come l’eventuale autocensura su questa o quella informazione (i nomi di alcune persone, per esempio, o le foto dei loro volti): ma bisogna sempre avere presente che il racconto dei fatti porta con sé una quota di spiacevolezze, di dolore, di storie, realtà e informazioni che a volte preferiremmo non conoscere o che generano sofferenza anche in chi legge (in chi scrive, pure).
Un racconto della realtà che si dia come priorità maggiore il rischio di ferire delle sensibilità – priorità benintenzionata e apprezzabile – è un racconto che però non ha più a che fare con il giornalismo e con i suoi scopi.

Una seconda cosa da ricordare è che il lavoro del Post è un lavoro fatto da persone che condividono un’idea di giornalismo, di correttezza e anche di etica, e la applicano nel loro lavoro: non c’è un sistema di regole assolute e universali a cui le persone obbediscano consultando un manuale, né un algoritmo che possa affrontare queste delicatezze. Può capitare che due persone diverse possano fare scelte differenti, in buona fede e valutando contesti e situazioni: e, proprio per queste ragioni di condivisione di un modo di fare le cose, le persone del Post hanno estese autonomie di scelta e di responsabilità, completate e arricchite da confronti e discussioni con i colleghi con cui sono in contatto in quelle occasioni. Non sempre, quindi, questo dà lo stesso risultato, perché i casi sono diversi tra loro, perché le valutazioni devono essere diverse, ma l’idea di giornalismo che condividiamo e il lavoro di gruppo garantiscono che il Post appoggi e confermi queste scelte (con tutti gli assestamenti eventuali e necessari: a volte concludiamo di avere sbagliato, certo, e facciamo di tutto per correggerci).

E poi, dicevamo, ma va ripetuto: i casi sono ogni volta diversi. Le sfumature di valutazione, rispetto a questioni così delicate e drammatiche come il trattamento di fatti e notizie, sono molte, sono molte le variabili, e nessun “decalogo” o lista di istruzioni si adatterà a questa complessità. Ogni volta si fanno riflessioni nuove e adeguate e si soppesano i criteri.

Perché, al contrario di quello che qualche volta viene detto un po’ sbrigativamente, non è mai vero che “quella foto non aggiunge niente”, come non è vera quasi nessuna affermazione così assoluta e perentoria. Ogni immagine aggiunge qualcosa alla conoscenza delle cose, senza bisogno di scomodare le frasi fatte sulle “immagini che valgono mille parole”: quando la guardiamo, come quando leggiamo del testo, riceviamo nuove conoscenze e nuove informazioni, vediamo cose che prima ignoravamo. Ma non è il solo effetto che le immagini pubblicate hanno, ed è infatti questo il tema di riflessione, piuttosto: quale bilancio e scelta trarre dal soppesare da una parte la conoscenza che ciascuna immagine aggiunge e dall’altra gli effetti spiacevoli o dolorosi che può generare quella conoscenza.

In questo senso, per il Post, i criteri che suggeriscono un’autocensura sono due. Uno, apparentemente ovvio, è quello di non partecipare o alimentare l’abitudine alla “pornografia del dolore”: rinunciare a immagini laterali e voyeuristiche che non hanno nessuna attinenza reale al racconto dei fatti e che incentivano curiosità indiscrete. La ricerca negli archivi dei social network di vittime e protagonisti delle notizie ne sono un esempio, quando – molto spesso – non ottiene niente che aiuti a capire i fatti in questione ma solo intromissioni pettegole.

L’altro criterio è appunto il rispetto delle persone sofferenti coinvolte nelle notizie raccontate, soprattutto quelle irresponsabili della propria sofferenza: le vittime dirette, le persone a loro vicine. Non è quindi per non “fare impressione” a chi legge che a volte facciamo scelte di autocensura, ma soprattutto per rispetto di quella sofferenza, di ben altra scala. Ma per non “fare impressione” capita che facciamo scelte di mediazione, in cui l’impegno per raggiungere le informazioni contenute in immagini o video debba essere maggiore e più deliberato e consapevole: anticipato di qualche riga, o bisognoso di un clic in più.

Una riflessione accessoria, ma interessante, è poi quella sulla “storicizzazione” di questo genere di immagini e delle diverse reazioni che generano nel tempo: a nessuno viene fatto di mettere in discussione l’accesso alle famose foto della morte di Salvatore Giuliano o di Che Guevara, o dei bambini in fuga durante la guerra del Vietnam, o quelle degli attentati dell’11 settembre, solo per fare alcuni esempi. Questo ci dice ancora quanto contesti e variabili, compreso il tempo, cambino le nostre reazioni rispetto a simili generi di immagini.

Permettere di “figurarsi” le cose che vengono raccontate, i fatti, gli eventi lontani, spesso difficili da comprendere o “immaginare”, è quello che il buon giornalismo cerca di fare e che il Post cerca di fare, e le radici dei due verbi tra virgolette dicono immediatamente quanto questo obiettivo sia aiutato dallo strumento delle immagini. Il lavoro che da molti anni il Post si sforza di fare è conservare il suo ruolo nell’informazione costruendo una credibilità che dia fiducia ai propri lettori, che trasmetta la consapevolezza di un giornale affidabile nel mettere in relazione con gli eventi anche dolorosi e traumatici a partire da motivazioni che sono unicamente di conoscenza delle cose. A costo anche di scelte che possono rischiare di scontentare, infastidire, addolorare alcuni ed entrare in conflitto con le molte occasioni di legittima contestazione che la rete offre ai lettori. La realtà è spesso traumatica ed è difficile sottrarsi alle sue immagini, che se non spiegate e contestualizzate da chi cerca di farlo con completezza e buona fede rischiano di raggiungerci comunque attraverso canali più sommari e brutali.

Ma come in ogni cosa ci sono effetti collaterali che il buon giornalismo tiene in conto, ponderando tutte queste considerazioni. Il Post valuta di volta in volta quanto immediatamente offrire quella parte di comprensione delle cose o quanto attenuarla, mediarla, trattenerla: senza rinunciare alle intenzioni di aiutare a capire meglio le cose.