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  • Martedì 7 novembre 2023

Le uniche cronache da dentro Gaza sulla stampa italiana

Sono quelle del palestinese Sami al Ajrami su Repubblica, e farle arrivare è sempre più complesso

di Valerio Clari

Un murale a Gaza per la giornalista Shireen Abu Akleh di Al Jazeera, uccisa a maggio (AP Photo/Adel Hana)
Un murale a Gaza per la giornalista Shireen Abu Akleh di Al Jazeera, uccisa a maggio (AP Photo/Adel Hana)

Dal 7 ottobre, giorno dell’attacco di Hamas in Israele, nessun giornalista internazionale ha avuto accesso alla Striscia di Gaza. Sono rimasti solo i giornalisti palestinesi a raccontare i bombardamenti israeliani e l’emergenza umanitaria, rischiando la vita praticamente tutti i giorni. Finora sono stati uccisi 32 giornalisti: domenica Mohamed Al Jaja è stato ucciso da un bombardamento con la moglie e due figlie, il 2 novembre Mohammed Abu Hatab è morto a causa di un altro bombardamento insieme a undici familiari. In Italia le uniche testimonianze che arrivano dall’interno della Striscia sono quelle di Sami al Ajrami, giornalista palestinese nato a Gaza, i cui reportage sono pubblicati quotidianamente da Repubblica da quando è iniziata la guerra. Ajrami da dodici anni lavora e scrive cronache dalla Striscia per l’agenzia di stampa ANSA, e collabora con altri media internazionali, fra cui la Berliner Zeitung.

La vita dei giornalisti a Gaza da quando è iniziata la guerra è diventata estremamente complicata, soprattutto per la mancanza di sicurezza ma non solo. I giornalisti palestinesi si trovano nelle difficili condizioni di tutto il resto della popolazione: devono cercare acqua, cibo e carburante tutti i giorni. Con le proprie famiglie devono provare a trovare un luogo che reputano sicuro per sfuggire ai bombardamenti.

Contattato dal Post, Ajrami dice: «Al momento ci sono circa 250 giornalisti che lavorano nella Striscia, in condizioni molto difficili e con mezzi insufficienti. Quasi altrettanti hanno dovuto smettere, o per l’assenza di elettricità e connessione internet, o perché le loro redazioni e le loro emittenti sono state bombardate».

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Ajrami è un giornalista freelance con molta esperienza, avendo iniziato a fare il corrispondente da Gaza nel 2004. Ha cinquant’anni ed è nato nel campo profughi di Jabalia, pochi chilometri a nord di Gaza: è il campo che è stato bombardato martedì e mercoledì dall’esercito israeliano. Ajrami ha raccontato su Repubblica di avere lì ancora parte della famiglia (sopravvissuta ai bombardamenti).

Figlio primogenito di una famiglia numerosa, Ajrami imparò l’ebraico da autodidatta quando aveva 12 anni, per capire i soldati che pattugliavano le strade di Gaza e i programmi televisivi di notizie, che erano per lo più in ebraico. A 22 anni si trasferì a Tel Aviv per lavorare in un’impresa edile e collaborare all’economia di famiglia, migliorando nel frattempo le proprie conoscenze di ebraico e inglese. A 27 anni, nel 1999, queste capacità linguistiche gli permisero di entrare nello staff diplomatico dell’Autorità Nazionale Palestinese, che governa parte della Cisgiordania.

L’attività giornalistica in ebraico e inglese cominciò nel 2004 a Gaza in un’agenzia di stampa locale. Nel 2007, dopo l’arrivo al potere di Hamas nella Striscia, ai giornalisti israeliani fu vietato l’ingresso, e questo diede ad Ajarami la possibilità di collaborare con due testate israeliane, la televisione Channel 2 e il quotidiano Maariv. Ajrami raccontò di aver ottenuto piuttosto facilmente l’autorizzazione di Hamas a collaborare con giornali israeliani e di aver imposto alcune condizioni ai nuovi datori di lavoro: «Nei miei articoli non avrei mai chiamato l’esercito israeliano “Forze di Difesa”, né avrei definito “terroristi” i palestinesi». Quel lavoro si interruppe quando Hamas ritirò l’autorizzazione e decise di vietare ogni collaborazione di giornalisti palestinesi con i media israeliani.

Ajrami descrisse il proprio lavoro di quel periodo al sito americano Daily Beast, dicendo: «Ho capito che la mia è una missione molto importante perché la comunità israeliana non può sentire altre voci che escono da Gaza. E i palestinesi della Striscia che non sono mai stati in Israele non capiscono che tipo di paese sia e quindi quali mezzi siano davvero efficaci per raggiungere gli obiettivi della loro causa».

Da allora Ajrami ha continuato il suo lavoro di corrispondente da Gaza per l’agenzia locale, per l’ANSA e per vari media internazionali. Le condizioni in cui lavora attualmente non hanno paragoni con quelle degli ultimi anni, ha detto, nonostante anche in passato fosse stato toccato direttamente della guerra: una delle sue figlie fu ferita dalle schegge di un missile israeliano nel 2012.

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Oltre alle difficoltà comuni a tutta la popolazione e legate alla sopravvivenza quotidiana, Ajrami sta vivendo anche quelle specifiche nel fare il proprio lavoro di giornalista.

Ajrami scrive da Deir Al Balah, nel sud della Striscia, non lontano da Khan Yunis, e dice: «A casa e in ufficio in questo momento nemmeno la connessione lenta funziona più. Era l’unica disponibile, Israele ha bloccato la tecnologia 3G a Gaza. Come la maggior parte dei giornalisti, vado negli ospedali per trovare elettricità e connessione internet e per riuscire a inviare i materiali. Passiamo lì la gran parte della giornata, sono anche gli unici posti in cui è possibile ricaricare il telefono, che per il resto della giornata spengo o tengo nella modalità di risparmio della batteria».

Gli spostamenti sono complessi come in ogni zona di guerra e complicati ulteriormente dall’assenza di carburante: «Di solito mi sposto a piedi, da casa mia all’ospedale è una distanza che si copre in 30 minuti. Quando devo andare più lontano, come è successo per raggiungere il varco di Rafah [nel sud della Striscia, al confine con l’Egitto], si trovano ancora dei taxi, ma costano cinque volte di più che in tempi normali».

In queste condizioni quasi tutti i giornalisti non possono scrivere fisicamente gli articoli e spesso non hanno nemmeno il tempo di dettarli come facevano i corrispondenti di guerra fino alla diffusione della rete internet.

Su Repubblica i suoi articoli compaiono con la dicitura “Testo raccolto da” e il nome del giornalista o della giornalista della redazione che ha contattato Ajrami al telefono. In questi casi si concorda un orario fisso nel corso della giornata in cui il corrispondente sa di doversi trovare in un luogo in cui ci sia una connessione telefonica e con il telefono carico (l’ospedale, in questo caso): si condensa nel poco tempo a disposizione il trasferimento delle informazioni, delle storie, delle testimonianze dirette, che poi vengono editate in redazione. Altre volte, quando non è possibile parlare direttamente, gli articoli sono frutto di un insieme di messaggi di testo, audio e video in cui il corrispondente parla e racconta e che vengono mandati quando si trova infine una connessione. Ajrami dice che al momento il «90 per cento» del suo lavoro è fatto via telefono.

I funerali di Muhammad Sobh e Saeed al Taweel, due dei 31 giornalisti palestinesi uccisi (Photo by Ahmad Hasaballah/Getty Images)

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