Charlie

Estratti della newsletter sul dannato futuro dei giornali.

domenica 25 Luglio 2021

E giornali e TikTok

TikTok, il social network per la condivisione di brevi video popolarissimo soprattutto tra gli adolescenti, non dà la possibilità di aggiungere il link a un sito esterno, nei video che vengono pubblicati: e questo spiega in parte la diffidenza dei giornali di tutto il mondo nei confronti della piattaforma. Gli altri social network come Facebook, Twitter o Instagram, invece, oggi garantiscono con i link diretti agli articoli la parte più consistente del traffico online dei giornali. Su TikTok c’è dal 2019 il Washington Post, tra i pochissimi al mondo con una presidio così attivo: con un profilo gestito interamente da Dave Jorgenson, più spesso noto come “il tizio di TikTok del Washington Post”. L’obiettivo del profilo è abbastanza dichiaratamente solo quello di creare contenuti divertenti (fino a poco tempo fa la bio del profilo diceva “i giornali sono come gli iPad, ma sulla carta”) e che coinvolgano più utenti possibili per avvicinarli al brand. Raramente Jorgenson si cimenta in spiegazioni giornalistiche approfondite e più che altro prende spunto dalle notizie per scherzarci sopra.
Il profilo non porta traffico direttamente misurabile al giornale, ma ha quasi 1 milione di follower in un mercato prevalentemente diverso da quello degli abituali lettori di giornali, e può essere utile ad aumentare il valore del brand e la riconoscibilità della testata, o anche a influenzare le scelte di lettura. I costi sono abbastanza limitati, soprattutto per un grande giornale, visto che c’è solo da pagare lo stipendio a una persona che pensa, recita, realizza e monta i video. Di recente Jorgenson, rispondendo alle domande dei lettori del Washington Post sul suo lavoro, ha dichiarato di impiegare mediamente 3 ore e mezzo per la realizzazione di un video (ne fa due al giorno).Tra le televisioni è molto attiva la rete statunitense NBC, che ha diversi canali verticali su TikTok (tra cui quelli di news e sport, di recente anche uno dedicato alle Olimpiadi).

Tra i grandi giornali italiani solo Repubblica è su TikTok: il profilo è gestito da Gedi Visual, la redazione multimediale delle testate del Gruppo Gedi, che per i motivi già esposti lavora su TikTok con minore priorità, ma con costanza. A differenza di quelli del Washington Post i contenuti di Repubblica su TikTok sono più strettamente giornalistici: si cercano le notizie che si prestano maggiormente al formato da un minuto e poi un giornalista le espone, sostanzialmente senza montaggio: il profilo ha quasi 43mila follower. Il formato di spiegazione delle notizie in un minuto ha un seguito maggiore nel profilo curato privatamente dal giornalista di Repubblica Alessio Balbi, che si chiama “Newsbox” e ha invece oltre 100mila follower. Newsbox è un progetto di Balbi partito da un podcast quotidiano e cresciuto anche su TikTok: il successo è probabilmente dovuto al formato rivolto a tutti, con spiegazioni che non danno nulla per scontato.


domenica 25 Luglio 2021

Ridimensionamenti in Condé Nast

Condé Nast è la grande multinazionale dei media che pubblica alcune delle testate più famose e autorevoli del mondo, tra cui Vogue, Vanity Fair, Wired, New Yorker, per dire le più note. Le versioni italiane di diversi di questi periodici (termine un po’ desueto, in tempi digitali) hanno concorso – soprattutto all’inizio del millennio, con l’introduzione di Vanity Fair e Wired – a un grosso rafforzamento della sezione italiana dell’azienda, che però è in difficoltà da alcuni anni, come tutte le aziende di periodici di questi tempi. Ci sono stati tagli e assestamenti, e adesso le notizie sono di una riduzione dell’autonomia italiana (e di altre sedi europee) e di un maggiore controllo delle testate da parte della sede europea a Londra: alcune direzioni saranno cancellate, e rimpiazzate da ruoli meno indipendenti di “coordinatori” che faranno capo a un’unica direzione londinese. Tra questi, quello del direttore di Vogue, occupato fino a oggi da Emanuele Farneti (da dopo la morte di Franca Sozzani che ne era stata direttrice per quasi trent’anni) che ha annunciato su Instagram la sua uscita.


domenica 25 Luglio 2021

Piccoli aggiornamenti sulla questione RCS Blackstone

Ovvero sulla causa legale dedicata alla “storica sede” del Corriere della Sera in via Solferino e che potrebbe mettere molto in difficoltà il suo editore, se dovesse perderla. Dopo la sconfitta italiana sull’arbitrato, adesso si attende la sentenza americana: questa settimana un giudice ha annunciato la propria ricusazione volontaria riferendo di proprie relazioni col fondo Blackstone, ed è stato sostituito.


domenica 25 Luglio 2021

Breve ma intenso

Approfittiamo dell’annuncio che Clubhouse d’ora in poi sarà accessibile a tutti e non solo “su invito”, come era stato dal suo lancio, per portare l’attenzione solo un momento sulla velocità con cui il social network “audio” è passato da essere “la prossima grossa cosa” per tutti, e anche per i giornali, a un luogo che giornali e giornalisti sembrano avere già dimenticato, o almeno accantonato come prospettiva su cui fare investimenti seri. Capita spesso con le “prossime grosse cose”, e non è di certo un ridimensionamento imprevisto, ma stavolta sembra essere capitato prestissimo.


domenica 25 Luglio 2021

Giornali che rispondono alle critiche, in modi diversi

È stata molto criticata in giro e sui social network l’insistenza di alcuni quotidiani sull’ipotesi che l’attore Libero De Rienzo fosse morto in conseguenza di abusi di sostanze “stupefacenti”: sia per la grande enfasi e priorità data – a partire dai titoli – a quello che era solo un aspetto della notizia della sua morte, sia per le certezze che quei titoli trasmettevano rispetto a quella che gli articoli descrivevano come una ipotesi da prendere con cautela, appunto.
Per Repubblica ha risposto alle accuse Marco Mensurati, rivendicando la scelta e attaccando le critiche secondo lui promosse per ragioni di amicizia da un “circolo intellettuale che oggi ringhia contro i giornali”.

Alessandro Trocino del Corriere della Sera ha commentato la questione con una lettura più complessa e comprensiva:
“Si può discutere cosa sia una notizia. Cosa meriti di essere divulgato e cosa no. Ma forse quello su cui si dovrebbe discutere non è “se” le notizie meritino di essere riportate. Ma come. La continenza, l’equilibrio, la sensibilità dovrebbero essere un bagaglio comune, del cronista, del capo che titola e del social manager che fa il lancio. Non sempre è così”.

Anna Masera, invece, ha usato la sua rubrica di “Public editor” della Stampa per condividere lo stupore di molti lettori per come era stata promossa, in un titolo e in un articolo, una eventuale relazione – molto dubbia e messa molto in dubbio dall’articolo stesso – tra la morte di una persona e il suo essersi vaccinata.
“I giornali non sono concepiti per restare senza titoli, ma certamente si può fare uno sforzo per raddoppiare l’attenzione nel farli”.

Il direttore del Post Luca Sofri ha infine commentato sul suo blog una risposta opposta di frequente da alcuni giornali e giornalisti nei confronti delle critiche di diverso genere, comprese quelle succitate: quella che dice “le notizie si danno”.


domenica 25 Luglio 2021

Modelli di business e soccorsi

Il grosso limite dei mecenatismi occasionali a favore dei giornali da parte di enti o fondazioni – succede molto negli Stati Uniti, per niente da noi – è che sono, appunto, occasionali: possono quindi aiutare a costruire progetti di informazione senza però renderli autonomi economicamente. Sono quindi un potenziale prezioso per iniziative che abbiano bisogno di essere avviate con l’ambizione di trovare poi altri ricavi, oppure che siano in difficoltà e abbiano bisogno di immediati soccorsi: la prima cosa vale più per progetti nuovi e piccoli, la seconda per progetti vecchi e costosi.
Ma negli Stati Uniti questa semplificazione può essere sparigliata, e alcuni giornali in condizioni non floride avrebbero gli strumenti e l’esperienza per dedicarsi a progetti nuovi, se potessero. Vale quindi la pena segnalare l’investimento della Ford Foundation (una delle più grandi del mondo, fondata da Henry Ford, che sovvenziona moltissime attività benintenzionate) che ha dato un milione di dollari per finanziare un team investigativo allo storico quotidiano di New Orleans Times-Picayune e al suo gemello di Baton Rouge (dopo una fusione di tre anni fa) The Advocate.
Ancora più eccezionale, e meno replicabile, è stata la decisione di Jeff Bezos di donare cento milioni di dollari allo scrittore e avvocato Van Jones, abituale commentatore di CNN, e allo chef José Andres per il suo impegno nel creare progetti alimentari in paesi meno sviluppati.


domenica 18 Luglio 2021

Il record della nuova tv di destra britannica

Si chiama GB News e ha iniziato le trasmissioni il mese scorso dopo essere stata presentata come “la Fox News del Regno Unito”, in riferimento alla rete televisiva americana di enorme successo nel formare le opinioni più radicali nel proprio pubblico di destra e nell’aver accompagnato i successi (e i fallimenti) di Donald Trump. GB News ha coinvolto nel suo progetto alcuni giornalisti di diverse notorietà nel suo paese, e ha ricevuto iniziali attenzioni e curiosità che sono durate molto poco, con estese delusioni rispetto ai suoi risultati. Questa settimana ha fatto notizia in negativo perché un suo conduttore si è inginocchiato in onda in solidarietà con la nazionale inglese di calcio e contro gli insulti razzisti che aveva ricevuto: però il pubblico stesso della tv (che ospita tra l’altro un programma specificamente dedicato a criticare i presunti eccessi “woke” progressisti) si è indignato contro il gesto, e ha partecipato a un boicottaggio di protesta. Il risultato è stato che i sistemi di rilevazione dell’audience televisiva hanno registrato un pubblico pari a zero per alcuni programmi della rete, mercoledì scorso.


domenica 11 Luglio 2021

USA Today si adegua

USA Today è il quotidiano a maggior diffusione degli Stati Uniti, e l’unico tra quelli considerati non “locali” a definirsi come tale a partire dallo stesso nome (gli altri a distribuzione “nazionale” si chiamano New York Times, Washington Post, Wall Street Journal). Ha neanche 40 anni, ha sempre avuto un approccio più popolare e accessibile, e politicamente meno definito degli altri (ma che nella sintesi e nella grafica fu innovativo e imitato), ed è pubblicato dal gruppo editoriale Gannett: che è l’editore di giornali più grande del paese e possiede molte altre importanti testate di grandi e piccole città. Sia il giornale che l’editore hanno la sede in Virginia, poco fuori Washington, DC.
Questa settimana USA Today, che finora è rimasto sempre un po’ indietro nello spostamento delle priorità sul digitale, anche in virtù della sua grande diffusione cartacea, ha invece annunciato che si allineerà a tutte le altre grandi testate internazionali nel mettere a pagamento almeno parte di suoi contenuti online. È un’ulteriore sanzione, se ce ne fosse stato bisogno, del fatto che nessun giornale a grande diffusione – cartacea e digitale – pensa più che questa sia più sufficiente a garantire ricavi pubblicitari bastanti, e che la quota di ricavi che si può ottenere dai lettori online sia diventata fondamentale, a costo di ridurli in numero.


domenica 11 Luglio 2021

I guai dell’Evening Standard

L’Evening Standard è un quotidiano londinese che ha quasi due secoli:è diventato una freepress nel 2009: è più “presentabile” degli altri tabloid britannici ed è di proprietà dell’imprenditore russo Alexander Lebedev, uno dei cosiddetti “oligarchi”, ex ufficiale del KGB. L’anno scorso, con la pandemia e il crollo dell’uso dei mezzi pubblici a Londra – la gran parte della sua distribuzione avviene nelle stazioni della metropolitana ed è un quotidiano del pomeriggio consumato tantissimo da chi esce dal lavoro – il giornale aveva ridotto drasticamente le copie stampate: adesso i dati dell’anno fino a settembre 2020 dicono di un calo dei ricavi del 31%.


domenica 11 Luglio 2021

Mandare in pensione i giornalisti

C’è una questione accessoria ma concretissima, che riguarda l’eventuale ricambio generazionale nelle redazioni dei giornali italiani: avevamo riassunto qualche mese fa i guai dell’INPGi, l’ente di previdenza che si occupa dei contributi pensionistici per la professione dei giornalisti. L’ente è in crisi da diverso tempo e ne è stato disposto il commissariamento, che dal 2019 è già stato prorogato tre volte. L’ultima proroga è scaduta a fine giugno, ma nel decreto sostegni bis approvato venerdì dalla commissione Bilancio della Camera è stata inserita un’ulteriore proroga fino a fine 2021 (e non dovrebbero esserci nuove modifiche nei prossimi passaggi alle Camere). Il bilancio del 2020 dell’Inpgi è stato chiuso con un passivo di 242,2 milioni sulla gestione patrimoniale, e anche su quella previdenziale c’è un grosso buco (di oltre 188 milioni di euro), visto che l’Inpgi ha pagato nell’ultimo anno pensioni per oltre 564 milioni di euro, incassando dai giornalisti iscritti contributi per soli circa 376 milioni. La situazione dell’Inpgi riflette lo squilibrio tra la popolazione di giornalisti più anziana e privilegiata, abituata a stipendi e pensioni che erano possibili in tempi migliori, e quella più giovane e precaria che nella crisi attuale difficilmente ottiene contratti stabili, e quindi anche la possibilità di iscriversi all’Inpgi stesso: il risultato è che il numero di chi paga i contributi continua a ridursi, mentre aumentano i pensionati.

A proposito di questa storia c’è un’ulteriore notizia che coinvolge anche l’Inpgi 2, la gestione separata dell’Inpgi a cui sono iscritti i giornalisti che lavorano come autonomi, cioè i freelance o quelli che hanno contratti di collaborazione con le testate, e che guadagnano mediamente molto meno rispetto a quelli iscritti all’Inpgi 1: il reddito medio dei freelance è intorno ai 15.600 euro all’anno, poco meno di 9mila all’anno quello dei collaboratori, mentre quello dei giornalisti assunti è di circa 60mila euro annuali. La notizia, emersa da un’interrogazione parlamentare del 17 giugno scorso e descritta in un recente articolo del Fatto Quotidiano, è che l’Inpgi starebbe cercando di far confluire gli immobili di sua proprietà in una SICAF, una società di investimento a capitale fisso (attualmente si trovano nel Fondo Amendola, di cui l’Inpgi è l’unico azionista), per fare in modo che le quote di questa società vengano acquistate al 51 per cento dall’Inpgi 2, le cui casse godono invece di buona salute (il restante 49 per cento rimarrebbe all’Inpgi 1). L’obiettivo sarebbe unire le risorse delle due casse previdenziali, cioè gli immobili dell’Inpgi 1 e la liquidità dell’Inpgi 2, per provare a fare investimenti che aumentino il valore di quegli immobili e poi rivenderli, con l’idea di ristrutturare il buco nel bilancio dell’Inpgi 1. L’operazione è considerata dal Fatto potenzialmente molto rischiosa, e se dovesse andare male potrebbe compromettere anche le risorse economiche dell’Inpgi 2. Nell’interrogazione parlamentare presentata dal senatore Elio Lannutti – ex M5S, ora al Gruppo misto, a lungo giornalista – si chiede «se si ritenga necessario intervenire per scongiurare l’ennesima manovra non risolutiva, che rischia di compromettere anche le casse in salute dell’Inpgi 2».


domenica 4 Luglio 2021

Dai periodici Hearst se ne sono andati la metà dei giornalisti

Sono stati confermati i dati che citavamo la settimana passata: gli incentivi a lasciare del gruppo internazionale Hearst per le redazioni dei periodici italiani sono stati accolti da 45 giornalisti su 107, compresi 5 direttori. Le testate interessate sono Gente, Marie Claire, Elle, Esquire, Cosmpolitan, Elle Decor e Marie Claire Maison. L’azienda cercherà un nuovo direttore per Gente, mentre affiderà la direzione di tutte le altre testate a Massimo Russo, direttore di Esquire e già in ruoli di responsabilità sul digitale in molti gruppi editoriali italiani.


domenica 4 Luglio 2021

Pacchetti di abbonati

Ai giornali interessa ovviamente aumentare il numero dei propri abbonati complessivi perché ogni abbonato pagante è un’entrata in più da aggiungere a quella voce fondamentale di ricavi: ma anche un abbonato non pagante (o pagante poco) è un capitale che ha del potenziale, e questo spiega come mai alcune testate attivino estese campagne promozionali fatte di sconti e offerte molto convenienti e apparentemente in perdita, per le testate stesse. Perché un abbonato che non paga oggi può diventare più facilmente un abbonato che pagherà domani: sia perché avrà superato un primo ostacolo rilevante, sia pratico che psicologico, ovvero le procedure di registrazione e di immissione dei propri dati, sia perché l’offerta spesso include un rinnovo automatico a pagamento alla scadenza, con meccanismi non immediatissimi per annullarlo (il rinnovo automatico dell’abbonamento al Post si annulla con due clic, ndr).
Ma c’è anche un’altra ragione per aumentare il proprio “monte abbonati” senza aumentare anche il numero degli abbonati paganti: ed è promozionale, sia per presentare pubblicamente i risultati della testata in una luce più favorevole, sia per farlo nei confronti degli inserzionisti a cui raccontare l’esistenza di una comunità estesa e fedele di lettori, anche più di quanto lo sia nei fatti. Quindi alcuni editori non offrono solo singolari offerte individuali, ma raggiungono masse di abbonati gratuiti attraverso comunità strutturate: un esempio è la partnership del Corriere della Sera con il Consiglio dei Dottori Commercialisti che offre gratis a tutti i commercialisti ed esperti contabili iscritti all’albo (circa 120mila persone) l’abbonamento ai contenuti del Corriere online.


domenica 27 Giugno 2021

È quel momento dell’anno

Quello in cui il Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio assegna la prima delle due quote annuali di contributi pubblici diretti ai quotidiani che ne hanno fatto richiesta in base ai criteri stabiliti dalla legge. Criteri che, come abbiamo spiegato spesso, in teoria dovrebbero sostenere i giornali pubblicati da cooperative di giornalisti, da enti non profit o destinati a minoranze linguistiche – insomma tutelare utili e bisognosi mezzi di informazione – mentre nella pratica sono per buona parte sfruttati con costruzioni formali da giornali con proprietà tradizionali oppure con ricavi già molto cospicui, attribuendo soldi pubblici a una concorrenza piuttosto sleale nei confronti delle altre testate, e senza che ne venga incentivata in nessun modo la qualità dell’informazione o un servizio pubblico. In nome di un’idea di “pluralismo” che si limita a finanziare qualunque testata si costituisca in modo da essere finanziata. Le quote maggiori delle nuove attribuzioni replicano sostanzialmente quelle dell’anno precedente.
Dolomiten 3.088.498,02 euro
Famiglia cristiana 3.000.000 euro
Libero quotidiano 2.703.559,99 euro
Avvenire 2.533.353,97 euro
Italia oggi 2.031.266,98 euro
Il quotidiano del Sud 1.848.080,44 euro
Il manifesto 1.537.625,76 euro
Corriere Romagna 1.109.178,49 euro
Cronacaqui.it 1.103.650,03 euro
Il Foglio 933.228,99 euro
Primorski dnevnik 833.334,04 euro
Il Cittadino 712.049,4 euro
Cronache di (Libra editrice) 629.978,39 euro
Quotidiano di Sicilia 524.703,62 euro
Neue Südtiroler Tageszeitung 516.650,56 euro


domenica 20 Giugno 2021

Buzzfeed che fa di nuovo Buzzfeed

Buzzfeed è un grande sito di news americano con una storia ormai ricca: nacque individuando il potere di traffico e numeri – e ricavi pubblicitari conseguenti – di notizie virali, frivole, stupide, di liste qualunque e di gallery di sciocchezze; si diede una presentabilità investendo parte dei ricavi in una sezione di giornalismo di qualità e di inchiesta, Buzzfeed News; subì il declino dei ricavi pubblicitari; e ultimamente ha fatto notizia per avere acquistato lo Huffington Post: di cui Jonah Peretti, creatore di Buzzfeed, era stato cofondatore insieme ad Arianna Huffington.
Questa settimana Buzzfeed ha voluto invece far conoscere di nuovo la sua parte più spregiudicata nel perseguimento di obiettivi di traffico a basso costo e a prescindere dalla qualità dei contenuti: e ha proposto una sorta di “concorso” della durata di due mesi in cui gli articoli proposti da chiunque che raggiungano determinati (grossi) obiettivi di visualizzazioni saranno retribuiti con compensi crescenti: 150 dollari per 150mila visualizzazioni, 500 dollari per 500mila, 2mila dollari per un milione, e 10mila dollari per 4 milioni di pagine viste. L’obiettivo è naturalmente generare traffico e ricavi pubblicitari a basso costo, ma anche sperimentare gratis e senza impegno l’efficacia di una grandissima varietà di articoli, la loro capacità di diventare virali, le dinamiche del traffico online.


domenica 13 Giugno 2021

Mancini come modello di business

L’inizio degli Europei di calcio ha portato grandi vivacità nelle pagine pubblicitarie dei quotidiani italiani. Il giorno della partita inaugurale, intanto, c’è stato un investimento formidabile di Poste Italiane – sponsor della Nazionale – che ha comprato delle “sovracopertine” su quasi una decina di giornali, in molti casi rivestendoli con proprie immagini promozionali legate agli Europei, ma nei quotidiani maggiori associandole anche ad articoli originali sponsorizzati scritti da giornalisti importanti (Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera, Emanuela Audisio su Repubblica). Su alcune di queste testate le iniziative di Poste hanno quindi ricevuto un trattamento di favore anche in articoli su altre pagine.

Poi c’è l’iperpresenza dell’allenatore Roberto Mancini come testimonial: in simili pose, è comparso per due giorni come indossatore di polo, ospite di un teatro, consegnatore di pacchi. E nel primo di questi contesti la pubblicità opaca ha fatto infine traboccare il vaso della tolleranza dello stesso Comitato di redazione del Corriere della Sera, che ha deciso di dire la sua al direttore contro l’associazione sul giornale tra una pubblicità e un articolo dedicato allo stesso inserzionista.
“Ci dispiace dover intervenire per segnalare l’ennesimo caso di invadenza del marketing sulle pagine del nostro giornale. Ieri, 10 giugno, sulle cronache nazionali del Corriere è stata pubblicata una pagina sul commissario tecnico della Nazionale Roberto Mancini che è palesemente un’inserzione pubblicitaria, nella quale viene con ridondanza messo in evidenza un noto marchio di moda, senza segnalarla come tale ai lettori. Che si tratti di pubblicità lo conferma l’inserzione, questa chiaramente pubblicata come tale, uscita oggi, con foto sempre di Mancini che indossa un capo del medesimo marchio di moda”.
I lettori di Charlie sanno come queste sovrapposizioni poco rivelate siano frequentissime sui maggiori quotidiani, e sul Corriere della Sera in particolare, e lo stesso CdR ha sottolineato come si tratti di un “ennesimo caso”. È probabile che la richiesta di “una maggiore vigilanza per tenere separati i contenuti giornalistici da quelli pubblicitari” sarà messa alla prova già da qui alla prossima domenica, e che ne riparleremo.


domenica 13 Giugno 2021

È sparito Business Insider Italia

Era la versione italiana di un popolare sito di news statunitense, Business Insider, che si occupa principalmente di finanza e tecnologia (ma soprattutto ultimamente è sempre più generalista e ha cambiato nome in Insider). Ha smesso di pubblicare all’improvviso, senza che ci fossero comunicazioni ufficiali, e tutto il sito è andato offline: dal primo giugno cliccando sui link ancora esistenti di Business Insider Italia si viene reindirizzati alla URL statunitense. Business Insider Italia faceva parte del Gruppo GEDI (quello di Repubblica e della Stampa, tra le altre), che lo pubblicava grazie a un accordo con il grande editore tedesco Axel Springer, proprietario di molte grandi testate internazionali. I due editori hanno deciso di non rinnovare l’accordo, che scadeva quest’anno: negli ultimi mesi se n’era parlato, ma non erano state date spiegazioni per il mancato rinnovo e la chiusura non era stata annunciata. Business Insider Italia era nato a novembre del 2016 e si era costruito un piccolo spazio nell’informazione italiana (secondo gli ultimi dati disponibili era 50mo nel traffico tra le testate italiane), anche grazie alle possibilità del suo editore e alla fama internazionale del suo marchio. Ha sempre avuto una redazione piuttosto piccola che si avvaleva di tanti collaboratori esterni, e questo permetterà di ricollocare nelle altre testate del Gruppo GEDI i pochi che lavoravano in redazione, chiudendo invece le collaborazioni. Al momento tutto l’archivio degli articoli prodotti in questi quattro anni e mezzo non è più consultabile online, e non è chiaro se tornerà a esserlo.


domenica 6 Giugno 2021

The finger in the piaga

Quest’ultimo passaggio della richiesta americana è da mettere da parte e particolarmente importante: perché mostra la consapevolezza del rischio persino da parte di chi chiede i contributi, e lo segnala come il problema universale maggiore nel destinare i contributi pubblici. Se portiamo la stessa riflessione in Italia, oggi i contributi pubblici diretti ai giornali sono assegnati con criteri apparentemente “neutrali” (cooperative, non profit, minoranze linguistiche) ma che hanno come risultato di fatto un sostegno “partigiano” accettato da diversi partiti perché destina i maggiori contributi a una piccola quota di testate “protette” da questo o da quel partito: con interferenze nella concorrenza e favoritismi che non tengono in nessun conto dei criteri di qualità dell’informazione, ammesso che se ne possano trovare. Sarà interessante vedere anche cosa si possono inventare negli Stati Uniti.


domenica 6 Giugno 2021

Un nome familiare ai lettori

All’inizio dello scorso febbraio, quando era ormai quasi certo che si sarebbe formato il governo Draghi, comparve sul Corriere della Sera una pagina intera di pubblicità piuttosto insolita, con solo una scritta su sfondo rosso che diceva: “Grazie Presidente Mattarella”. La pagina pubblicitaria – che normalmente vale diverse migliaia di euro – era stata pagata da Giancarlo Aneri, imprenditore 73enne di Legnago, in provincia di Verona, la cui azienda produce soprattutto vino (e poi olio e caffè). Qualche giorno dopo il Corriere raddoppiò lo spazio e gli dedicò una breve intervista rivelando l’identità del misterioso inserzionista, che a suo dire avrebbe preferito «rimanere anonimo», ma che allo stesso tempo non sembrava essersi fatto troppo pregare per uscire allo scoperto. Aneri è in realtà una presenza frequente nei quotidiani italiani, non solo per le pubblicità che compra spesso ma anche per le numerose interviste che ottiene, sempre molto benevole per lui e per la sua attività. Ha una storia di successo e la fama di uno che si è “fatto da sé”, ma il motivo principale per cui finisce così spesso sui giornali è che nell’ambiente dell’informazione italiana tradizionale Aneri è una presenza di vecchia data e ha molti amici, a partire dalla sua organizzazione annuale del premio “ È Giornalismo ”, che fondò nel 1995 con Giorgio Bocca, Enzo Biagi e Indro Montanelli, tre dei più illustri giornalisti italiani del Novecento, e che viene assegnato ogni anno in una conviviale cerimonia milanese.
Dalla creazione del premio Aneri è sempre stato in rapporti di amicizia con una parte rilevante del giornalismo italiano, di cui si dice grande appassionato (oltre a definirsi “giornalista mancato”), e lo si trova spesso sul Corriere sul Sole 24 Ore sul Giornale , su Libero e su diversi altri . A volte è presente in interviste in cui parla lui stesso, altre volte è citato insieme ai suoi prodotti, e non necessariamente in occasione di grandi notizie: Aneri che fa bere il suo vino a Xi Jinping e a Obama, la Juventus che regala magnum di Amarone Aneri ai giocatori per festeggiare lo scudetto, e così via. Di recente alcuni giornali hanno dedicato articoli all’inaugurazione di un modello di bottiglie mignon di prosecco, definite “ da passeggio ” e descritte come un’idea che dovrebbe facilitare la ripresa del settore dei vini dopo la pandemia. Ancora venerdì Aneri ha comprato una pagina di pubblicità sul Sole 24 Ore per l’Amaro Anerissimo .


domenica 6 Giugno 2021

Lo HuffPost tutto italiano

Confermando le ipotesi di cui avevamo raccontato i mesi scorsi, l’editore GEDI ha annunciato di avere acquisito la totalità delle quote della società Huffington Post Italia, ovvero dell’edizione italiana dello HuffPost (il sito di news che si chiamava Huffington Post dal cognome della sua fondatrice). L’anno scorso lo HuffPost era stato acquistato da Buzzfeed (l’altro grande successo dell’informazione online dello scorso decennio in cerca di un rilancio commerciale) che aveva proceduto a chiudere e ridimensionare le edizioni internazionali: quella italiana era in una condizione anomala, frutto di un accordo col gruppo che pubblica Repubblica e la Stampa, tra gli altri, e che ha deciso di rilevarne tutta la proprietà, probabilmente con l’intenzione di portare anche lo HuffPost verso una forma a pagamento, come ha fatto – in un modo o nell’altro – la quasi totalità delle testate internazionali negli ultimi anni.


domenica 30 Maggio 2021

A Reuters era sfuggita una cosa

Il progetto di Reuters – una delle agenzie di stampa più importanti del mondo – di far funzionare i suoi contenuti online come quelli delle normali testate giornalistiche e dare l’accesso a pagamento ai suoi servizi tramite abbonamento, è andato momentaneamente a sbattere contro una conseguenza apparentemente imprevista. Nei giorni successivi all’annuncio il più grosso cliente di ReutersReuters ha come core business la vendita di informazioni finanziarie ad aziende ed enti interessati – che si chiama Refinitiv e fornisce dati e servizi alle borse e ad altre istituzioni finanziarie, aveva contestato il progetto sostenendo che violasse i termini del contratto tra le due aziende, minacciando l’annullamento del contratto stesso, che per Reuters vale più di 300 milioni di dollari l’anno.
Giovedì Reuters ha comunicato la sospensione del progetto di paywall


domenica 30 Maggio 2021

In mano alle banche

Il Fatto ha pubblicato un lungo articolo sulla dipendenza di praticamente tutti i quotidiani da prestiti bancari che garantiscono alle banche coinvolte diverse misure di potere sui quotidiani stessi (le si percepiscono molto facilmente sfogliando le pagine di economia, ma anche riflettendo su come il giornalismo di inchiesta dei quotidiani affronti la categoria delle banche quasi solo in caso di bancarotte e truffe conclamate).
“Oggi, a conti fatti, sono davvero poche le case editrici di giornali che non devono soldi al gruppo guidato da Carlo Messina. Per esempio l’editore del Giornale, Paolo Berlusconi, predilige Bpm e la Popolare di Sondrio, mentre in passato il Foglio si è rivolto al Creval e a Chianti Banca e la Società editoriale Il Fatto, che pubblica questo giornale, a Unicredit per il prestito da 2,5 milioni ottenuto lo scorso anno con la garanzia del Fondo Centrale di Garanzia, ma il grosso dei finanziamenti all’editoria passano per Intesa e per la sua boutique degli affari, Banca Imi”.


domenica 23 Maggio 2021

I quattro cantoni

Riassunto degli scambi di direttori tra i tre giornali maggiori della destra italiana (più uno, romano): il Giornale fu fondato nel 1974 dal giornalista Indro Montanelli: tra il 1976 e il 1979 ne divenne maggiore azionista la famiglia Berlusconi. Montanelli e i Berlusconi litigarono nel 1993, Montanelli se ne andò e dal 1994 il direttore del giornale fu Vittorio Feltri (che aveva diretto l’Indipendente, quotidiano nato due anni prima e chiuso poco dopo) con Maurizio Belpietro come vicedirettore, che nel 1996 andò a dirigere solo per pochi mesi il Tempo di Roma. Feltri si stufò e se ne andò nel 1997, e nel 2000 fondò Libero, portando via una buona quota di lettori al Giornale, di cui contemporaneamente divenne direttore Belpietro fino al 2007 (quando andò a dirigere Panorama). Nel 2009 Feltri tornò a dirigere il Giornale con Alessandro Sallusti condirettore, mentre Belpietro andò a dirigere Libero. Nel 2010 Sallusti divenne direttore del Giornale con Feltri “direttore editoriale” (Feltri ha da allora ruoli non di “direttore responsabile” per essere stato radiato, ripreso, poi sospeso dall’Ordine dei Giornalisti, che ha infine lasciato), ma i due litigarono presto e Feltri tornò a dirigere Libero con Belpietro per qualche mese, salvo rientrare al Giornale, e di nuovo a Libero come direttore nel 2016 (con Pietro Senaldi come direttore responsabile). Belpietro intanto aveva litigato con l’editore (la famiglia Angelucci, imprenditori delle cliniche, che da allora possiede anche il Tempo) e fondò la Verità, diventandone anche editore (dal 2018 ha comprato anche Panorama e altre testate da Mondadori): ne è tuttora direttore. Questa settimana Sallusti ha raggiunto di nuovo Feltri a Libero.


domenica 23 Maggio 2021

Hanno vinto i cattivi

La storia più importante nell’imprenditoria giornalistica americana di questi mesi, che abbiamo aggiornato in molte edizioni di Charlie, è finita nel modo più realistico, e meno cinematografico: l’acquisto del gruppo Tribune Publishing (che possiede molte testate quotidiane importanti, a cominciare dal Chicago Tribune) da parte del famigerato e temuto fondo Alden è stato approvato dagli azionisti, e nessun tentativo di trovare un editore più benintenzionato è riuscito. Al risultato del voto ha contribuito anche la scelta di astenersi – di fatto un voto a favore – dello stesso Patrick Soon-Shiong di cui abbiamo parlato nel prologo, che è anche azionista del gruppo Tribune e otterrà 150 milioni di dollari dalla vendita.


domenica 23 Maggio 2021

Prologo – Ci vogliono teste nuove

Il Washington Post aveva giovedì un articolo sul particolare personaggio che è l’editore del Los Angeles Times, di cui abbiamo parlato in altre occasioni: medico di enormi successi scientifici e imprenditore miliardario, nato in Sudafrica da genitori cinesi e rimasto in California dopo i perfezionamenti universitari. Uno di quegli uomini o donne che chiamiamo geni, dice il Washington Post. Eppure, è in grosse difficoltà nell’applicare le sue ambizioni e intelligenze ai destini di uno dei più grandi quotidiani statunitensi: come ha commentato un esperto di media che lo conosce, «Patrick si è sopravvalutato, penso sia stato sorpreso lui stesso dalle difficoltà del business dei giornali: che non è destinato a nessuna soluzione facile».
I parziali successi che Soon-Shiong ha finora ottenuto si devono principalmente a due fattori, che condivide con quello che Jeff Bezos ha portato proprio al
Washington Post: molti soldi da metterci e disponibilità a innovare e cambiare molto. I suoi insuccessi invece si devono alla terza cosa che Bezos ha e forse Soon-Shiong – e molti altri imprenditori di successo anche da noi – no: la familiarità con le trasformazioni digitali, culturali e sociali che permettono di immaginare l’editoria dei giornali come una cosa completamente diversa da quello che era appena vent’anni fa.


domenica 16 Maggio 2021

Le notizie comprate dalla Cina, anche in Italia

Abbiamo scritto altre volte del lavoro di propaganda avviato da tempo dal governo cinese, investendo denaro e impegno sulla collaborazione in questo senso con alcune testate internazionali. Questa settimana la questione è stata raccontata su molte testate americane per via di una indagine svolta dalla International Federation of Journalists (IFJ) che descrive questi investimenti a partire da una serie di casi internazionali, tra cui anche quello italiano (a pagina 5): nel report si cita in particolare l’agenzia Ansa, sulla cui “promozione” cinese avevamo raccontato il mese scorso questa storia (con questa postilla).

“The state-run news agency ANSA signed an accord with China’s state media agency Xinhua to launch the Xinhua Italian Service. This has translated into Ansa running fifty Xinhua stories a day on its news wire, with Xinhua taking editorial responsibility for the content while Ansa serves as a tool of distribution. One Italian journalist commented that the agreement has been trouble-free so far, “They were mainly on economics and Chinese culture… If we find something which we believe interesting, especially on economic matters, we might take a few news and decide autonomously to broadcast them.” The agreements have also led to Italian television stations airing Chinese documentaries and artistic content”.


domenica 16 Maggio 2021

Il guaio che il Corriere si è cercato

Il problema principale di RCS, l’azienda editrice del Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport oltre che di diversi periodici, è diventato questa settimana un altro rispetto alle complicazioni note del settore e condivise con molte società giornalistiche. La storia è quella della vendita della “storica sede di via Solferino” che avevamo raccontato il mese scorso. È infatti stata comunicata la decisione dell'”arbitrato” che ha sancito che non ci sia stato niente di illecito nella vendita del palazzo milanese che ospita tuttora – in affitto – la redazione del Corriere della Sera , e ha dato così torto alla richiesta di RCS e del suo editore Urbano Cairo.

Ma la conseguenza potenzialmente rischiosa per RCS è che la sentenza ha dato quindi un argomento alla denuncia americana del fondo Blackstone – acquirente e proprietario del palazzo – che sostiene che la contestazione di RCS abbia fatto saltare la vendita successiva a un altro acquirente (si dice da allora che fosse la società Allianz), con un grosso danno economico per Blackstone: che ha richiesto 600 milioni di euro di danni complessivi. Se le corti americane dovessero convenire su questo, i conti di RCS sarebbero in guai enormi: per questa ragione sabato, mentre tutti quotidiani titolavano sulla sconfitta di Cairo e RCS, il Corriere ha raccontato la notizia “proteggendola” con un’altra più positiva e cercando di contenere i danni, e di sottolineare come la sentenza sostenga che la richiesta dell’arbitrato non sia stata comunque pretestuosa e infondata.
Uno scenario realistico ora è anche la ricerca di un accordo tra le parti per evitare rischi maggiori.


domenica 16 Maggio 2021

La trasformazione di CNN

Non è una novità e risale ormai a qualche anno fa, ma il Washington Post ha pubblicato un articolo esauriente che la riassume e ne fa un bilancio. CNN non è più infatti la rete delle news e dei fatti “distaccati” di cui il mondo aveva un’idea dalla sua nascita, ma una testata tra quelle divenute più vivacemente partigiane soprattutto durante l’amministrazione Trump – contro Trump – e il cui presidente Jeff Zucker (in carica dal 2013) ha spinto in generale verso una forte personalizzazione ed emotività da parte dei conduttori e giornalisti, ritenendo questo indirizzo più adeguato ai tempi e ai gusti del pubblico, che infatti gli ha dato ragione.


domenica 16 Maggio 2021

Il Washington Post ha una direttrice

La prima della sua storia, nominata al posto di Martin Baron che si era dimesso come preventivato alla fine del 2020 dopo aver guidato il quotidiano in un periodo di grande crescita e successi (aiutati dagli investimenti del proprietario Jeff Bezos). La direttrice è Sally Buzbee, 55 anni, che viene da 33 anni all’agenzia Associated Press dove ha assunto successivamente ruoli di dirigenza sempre più importanti. Lo stesso articolo del Washington Post racconta la sua scelta come inattesa rispetto ai nomi che erano circolati nei mesi scorsi, e la spiega soprattutto nell’ottica di un’espansione del giornale sui mercati internazionali, dove gli altri due grandi quotidiani statunitensi – il New York Times e il Wall Street Journal – hanno presenze molto più forti e consolidate.


domenica 16 Maggio 2021

E la Gazzetta del Mezzogiorno ha di nuovo un direttore

La Gazzetta del Mezzogiorno, il più radicato quotidiano della Puglia e della Basilicata, di storia secolare, ha da sabato un nuovo direttore, scelto dalla nuova proprietà che ha acquistato il giornale l’anno scorso salvandolo da un periodo difficile e da concreti rischi di chiusura. Il direttore è Michele Partipilo, che era caporedattore al giornale. Per qualche mese all’inizio dell’anno l’editore aveva discusso una proposta di direzione con Concita De Gregorio – giornalista di Repubblica – ma il progetto non è stato sufficientemente convincente.


domenica 9 Maggio 2021

Audiweb e Audipress (e Auditel)

Venerdì è stato bruscamente interrotto un progetto di fusione tra due società che registrano e comunicano i dati sui lettori dei giornali di carta e dei siti web, Audipress e Audiweb (avevamo spiegato meglio qui cosa sia Audipress). Il progetto avrebbe dovuto concludersi in queste settimane, e i dati di traffico online usualmente comunicati da Audiweb (che mensilmente citavamo qui su Charlie) sono sospesi da tre mesi e ne era stata annunciata la ripresa per fine aprile: ma non sono invece stati ancora pubblicati proprio per le nuove complicazioni di tutta l’operazione.

Quello che è successo nei giorni scorsi è legato alle ragioni stesse che avevano suggerito la fusione: ovvero una perdita di rilevanza nel mercato pubblicitario dei due enti di misurazione. Audiweb perché sul web si è persa del tutto la distinzione tra siti di informazione e siti in genere (grandi piattaforme comprese) rispetto alla pubblicazione di pubblicità: e uno strumento che dia solo i numeri dei siti di informazione è del tutto insoddisfacente per il business della pubblicità. Audipress perché il ruolo dei giornali di carta nello stesso settore pubblicitario è molto diminuito. La loro fusione in un unico sistema di conteggi intendeva rinnovare il senso delle misurazioni e renderle di nuovo più interessanti per quel settore.

Il problema è che queste stesse ragioni (la perdita di definizione di cosa sia “giornale”, cosa sia “testata”, cosa sia “media”, eccetera) generano sovrapposizoni e conflitti che erano già difficili da affrontare e che hanno coinvolto anche il più importante e noto degli enti di misurazione italiani, ovvero Auditel. Che misura il pubblico della tv. E che a sua volta è interessata a gestire le analisi di fruizione dei contenuti video e televisivi online. Per farla semplice: chi misura RaiPlay, Audiweb perché è un sito web (o il nuovo Audiweb/Audipress) o Auditel perché è un contenuto televisivo? Così Auditel si è messa di traverso e siccome i vari consorzi sono formati dalle stesse associazioni di pubblicitari, si è bloccato tutto.


domenica 9 Maggio 2021

C’è un nuovo direttore a Los Angeles

Sono mesi in cui si aspettavano e si aspettano nuove nomine importanti in alcune grandi testate americane. Quella più seguita riguarda la direzione del Washington Post, dopo le previste dimissioni del leggendario Marty Baron (quello del Caso Spotlight, ricordiamo), sulla quale c’è una novità: il successore non sarà Kevin Merida, 64 anni, stimato ex editor del giornale dove era stato 22 anni prima di andare al nerwork sportivo ESPN, e che era stato dato tra i più probabili.
Ma Merida ha accettato invece di andare a dirigere il Los Angeles Times, uno dei quotidiani “locali” più importanti degli Stati Uniti, che copre una città e uno stato (la California) di grandissime dimensioni e di grandissima importanza.
Merida ha raccontato in giro di avere avuto l’impressione che il Post non lo volesse più di tanto, pur avendolo preso in considerazione: la spiegazione più probabile è che quel giornale (posseduto da Jeff Bezos, il fondatore di Amazon) abbia ambizioni e progetti che suggeriscano un nuovo direttore più giovane.


domenica 2 Maggio 2021

Stringiamci a coorte

Questa è la questione più grossa che tormenta il sistema della pubblicità online da più di un anno, e che ha ricadute rilevanti sul mondo delle aziende giornalistiche, sulla loro capacità di sostenersi economicamente attraverso la pubblicità e sui modi delle loro dipendenze dalle grandi piattaforme digitali. Ne parleremo spesso nei prossimi mesi, oggi ci limitiamo a una breve introduzione.

Il sistema dei cookie di terze parti implica delle ingerenze nella privacy evidenti – malgrado noi le consentiamo quando accettiamo sbrigativamente quelle condizioni che troviamo sui siti alle nostre prime visite – e il dibattito sul limitarle dura da molto, ma la questione ha subito un’enorme accelerazione quando si è mossa Google, come sempre. Che all’inizio dell’anno passato ha annunciato che avrebbe inibito l’uso dei cookie di terze parti sui propri browser Chrome, adducendo appunto ragioni di maggior rispetto della privacy. Che sono da una parte fondate senza essere disinteressate: Google percepisce la domanda da parte dei propri utenti e cerca di rispondere. D’altra parte Google ha interesse ad aumentare ancora di più il proprio potere sul mercato dei dati e della pubblicità proponendo soluzioni sempre più adeguate a questo. E la proposta che ha fatto è una soluzione tecnologica dal buffo nome (sembra una puntata del Trono di Spade): Federated Learning of Cohorts, abbreviato in FLoC. Vuol dire, grossomodo, “apprendimento collaborativo delle coorti”. Per farla davvero molto breve, l’idea è la creazione di un sistema di categorie di utenti (moltissime, le coorti) che riconosca a quale di queste appartenga ciascuno di noi quando visita un sito, senza identificarci singolarmente.

La proposta ha inizialmente spiazzato i moltissimi coinvolti (ovvero chiunque usi internet, nei fatti), presentandosi come un servizio di rispetto della privacy. Ma presto se ne sono comprese anche le implicazioni in termini di maggiore potere affidato a Google, e di possibili violazioni diverse della privacy stessa. Oltre che di sovversione del mercato pubblicitario pericolosa per molte aziende e business. Quindi in questi mesi in cui Google sta avviando la sperimentazione del sistema ci sono molte diffidenze e cautele, anche nelle aziende giornalistiche in cui si cerca di capire se e come adeguarsi, se ci siano più rischi o più opportunità, se collaborare con Google o provare a mettersi di traverso.


domenica 2 Maggio 2021

E un giudizio sul diritto all’oblio

Il Garante per la privacy, cosiddetto, ha pubblicato questa settimana una propria sentenza, che stabilisce alcuni criteri, a prescindere dalla singolarità di ciascun caso (il caso non è descritto). Al Garante ricorrono le persone che non trovino soddisfacenti le risposte ricevute dalle testate a cui hanno presentato una richiesta.
(il Post, per esempio, è stato due mesi fa destinatario di una sentenza del Garante che ha rifiutato una richiesta che venissero cancellati due articoli su un personaggio pubblico oggetto di un’inchiesta giudiziaria successivamente terminata con un’assoluzione – e che il Post su sua richiesta aveva aggiornato linkando un altro articolo esistente su questo sviluppo – ordinando però la loro deindicizzazione, dato il tempo passato, otto anni).

La sentenza pubblicata martedì riguarda invece un articolo della Stampa su una vicenda giudiziaria del 1998. Il Garante ha deciso:
– di respingere anche qui la richiesta che l’articolo sia cancellato o che il nome del protagonista sia rimosso, confermando il valore di “informazione e documentazione storica” anche dopo molto tempo;
– di ritenere corretta e soddisfacente la scelta del giornale di deindicizzare l’articolo;
– di respingere la richiesta che l’articolo sia aggiornato, non avendo il richiedente offerto documentazione sugli aggiornamenti richiesti; e quindi di ritenere il giornale non responsabile di indagini proprie successive sugli sviluppi delle notizie pubblicate;
– di multare il giornale per 10mila euro per non avere dato risposta alle richieste ricevute, ritenendo che questo sia invece un dovere del giornale a prescindere dalle sue scelte.


domenica 2 Maggio 2021

Il diritto all’oblio, una grande conversazione quotidiana

Le regolamentazioni e le sentenze introdotte – soprattutto nelle sedi dell’Unione Europea – a proposito del diritto delle persone di attenuare o cancellare da internet informazioni giornalistiche che le riguardano, entro determinate circostanze, hanno creato un fronte di occupazioni del tutto nuove, nei giornali e negli studi legali.
Le richieste in questo senso sono infatti molto frequenti, e nel caso dei giornali quasi quotidiane: ci sono studi legali che le seguono, e sono nate società che svolgono servizi in questo senso. Nelle aziende giornalistiche si sono investite risorse, tempo e competenze per dare risposta a queste richieste.

Le risposte sono complesse, perché le variabili intorno a cui viene discussa la legittimità delle richieste sono tante: quanto tempo è passato, che notorietà aveva e ha la persona coinvolta, quanto siano rilevanti la sua presenza e la citazione del suo nome nell’articolo discusso, che valore di servizio pubblico abbia tuttora la notizia. E poi ci sono tipicamente tre diverse richieste che vengono avanzate, in successivi subordini: la cancellazione dell’articolo, la rimozione del nome del cliente dall’articolo, la “deindicizzazione” dai motori di ricerca (ovvero l’introduzione di un breve codice che faccia sì che l’articolo non compaia su Google e sui motori di ricerca).
Poi, l’esperienza del Post sarebbe tentata di aggiungere qui una lunga trattazione sui toni bulli e minacciosi – quasi sempre dei bluff senza fondamento per intimidire interlocutori inesperti – di alcuni degli studi legali richiedenti, ma non ci sfogheremo in questa occasione.

Più in generale, per i giornali è anche una questione di valutare ogni volta – contemplando le variabili citate sopra – una scelta di equilibrio tra il diritto di cronaca e di documentazione storica, e i diritti o le spesso comprensibili esigenze delle persone protagoniste delle notizie.


domenica 25 Aprile 2021

Le contese sulla “storica sede del Corriere”

Questa settimana c’è stato un piccolo sviluppo non favorevole a RCS – la società editrice di Corriere della Sera, Gazzetta dello Sport , e di diversi periodici, la cui maggioranza è dell’imprenditore Urbano Cairo – di una contesa giudiziaria che ha enormi implicazioni economiche, e in parte anche simboliche. Si tratta infatti della ” storica sede ” del Corriere della Sera in via Solferino a Milano: che RCS vendette nel 2013 al fondo americano Blackstone, mantenendo in una parte degli immobili la redazione del Corriere della Sera , in affitto (la Gazzetta dello Sport fu invece spostata nella sede principale di RCS, nella periferia nordest di Milano). La vendita aiutò le casse di RCS in un momento di grosse difficoltà, ma fu molto contestata dai giornalisti del gruppo.
Quando pochi anni dopo Urbano Cairo divenne azionista di maggioranza e sostanzialmente “editore” del gruppo, decise di contestare quella vendita (era il 2018) sostenendo che fosse stata fatta a condizioni svantaggiose a cui RCS sarebbe stata costretta dalle sue difficoltà (RCS avrà presto pagato in canone di affitto più di quanto ricavò dalla vendita). Il procedimento legale avviato da Cairo (una richiesta di “arbitrato“) interruppe così una nuova trattativa di vendita dell’immobile alla società Allianz da parte di Blackstone (che ne avrebbe ottenuto un ricavo doppio, generando i risentimenti di Cairo): e Blackstone quindi presentò a sua volta negli Stati Uniti una denuncia contro Cairo con una enorme richiesta di danni, denuncia il cui percorso è stato sospeso in attesa dell’arbitrato italiano: la storia è raccontata più estesamente qui .
La richiesta di Cairo non ha come priorità l’annullamento della vendita dell’immobile, ma soprattutto un risarcimento economico per RCS, come ha spiegato lui stesso. Ed è una questione che ha una grande importanza per i bilanci di RCS (con molte implicazioni societarie e bancarie: la più rilevante è che RCS non ha messo a bilancio nel cosiddetto “fondo rischi” la richiesta di danni da parte di Blackstone: questo favorisce i bilanci attuali di RCS ma mette a rischio quelli futuri se Blackstone ottenesse ragione).
La novità di questa settimana è che in un procedimento parallelo a quello avviato da Cairo, la procura di Milano ha chiesto l’archiviazione dichiarando in sostanza che nella vendita non ci siano stati rilievi penali di “usura”. La decisione sull’arbitrato dovrebbe esserci a fine luglio ed è del tutto indipendente da questa indagine penale, ma una decisione diversa da parte della procura l’avrebbe senz’altro condizionata in senso favorevole a RCS.

(a margine: il Corriere della Sera, che aveva celebrato la denuncia e l’apertura dell’inchiesta per usura, non ha invece dato notizia della richiesta di archiviazione)


domenica 25 Aprile 2021

La Super Lega e i quotidiani italiani

La spettacolare catastrofe del progetto “Super Lega” tra dodici squadre di calcio europee ha avuto dei tratti peculiari italiani che hanno riguardato i maggiori quotidiani. Si dà infatti il caso che le due società che pubblicano i tre maggiori quotidiani italiani (Corriere della Sera, Repubblica e Stampa) possiedano ciascuna una squadra di Serie A (Torino e Juventus: una esclusa e una promotrice della Super Lega), e che questo abbia creato un groviglio di conflitti di interessi. Dal momento che la gran parte delle opinioni e delle posizioni – anche quelle sui giornali – è stata contraria al progetto Super Lega, per ilCorriere della Sera è stato meno problematico dare spazio ai pareri (contrarissimi) del proprio editore. Anche se faceva impressione, mercoledì, vedere in prima pagina rispettivamente sul Corriere e su Repubblica foto e intervista dell’editore del primo e foto e intervista del cugino dell’editore della seconda (per giunta la stessa mattina il Sole 24 Oreapriva con un grande virgolettato del presidente di Confindustria, ovvero a sua volta l’editore di quel quotidiano: ma non sulla Super Lega).
Repubblica ha come la gran parte degli altri quotidiani scritto piuttosto criticamente del progetto Super Lega, riportando le accuse molto pesanti contro il suo maggiore promotore: il presidente della Juventus Andrea Agnelli, importante membro della famiglia e dell’azionariato che possiede Exor, la società di cui fa parte GEDI, editrice di Repubblica. Mercoledì però ha dedicato ad Agnelli un’intervista di due pagine intere, condotta addirittura dal direttore del quotidiano Maurizio Molinari (venerdì è intanto passato un anno dal traumatico licenziamento del suo predecessore Carlo Verdelli): intervista senza indulgenze e giornalisticamente rilevante nella sostanza, ma appunto problematica in linea di principio (il rapporto dell’intervistato con la testata non era indicato in nessun modo, per esempio).

Ad aggiungere una complicazione ulteriore e puntuale ci si è messo il precipitoso fallimento del progetto Super Lega nella serata di martedì, alla vigilia della pubblicazione dell’intervista. Andrea Agnelli era stato intervistato da Repubblica la mattina di martedì e aveva dato risposte di totale e perentoria certezza rispetto al successo («Fra i nostri club c’è un patto di sangue, andiamo avanti», «[il progetto] ha il cento per cento di possibilità di successo»): quando a inizio serata sono arrivate le prime notizie di probabili defezioni di alcune squadre l’articolo è stato parzialmente integrato nel suo incipit e nelle domande iniziali, ricevendo dalla Juventus indomita conferma su quelle due prime risposte. Ma quando poco dopo mezzanotte il quotidiano è stato pubblicato online, l’incipit conteneva ora la presa d’atto del fallimento (“si sono ritirate le sei squadre inglesi”) e sosteneva che Agnelli “ci parla prima di partecipare ad una riunione digitale notturna tra i soci fondatori della Super Lega”, ma le risposte di Agnelli non avevano ricevuto nessun emendamento (il “patto di sangue” era raccontato come morto poche righe prima che Agnelli lo garantisse: però è stato tolto nella notte dalla prima pagina), facendole così apparire la mattina dopo un’ulteriore dimostrazione di un’ingenuità comunicativa della Juventus e del suo presidente.


domenica 25 Aprile 2021

È una buona idea per i giornali buttarsi su Clubhouse?

È raro che un precoce investimento su una cosa nuova si riveli proficuo, alla lunga: statisticamente i nuovi formati o tendenze che si affermano sono assai pochi rispetto a tutti quelli che vengono presentati come “the next big thing”, e quindi salirci sopra immediatamente ha maggiori probabilità di fallimento che di riuscita. Ed è sicuramente più efficace aspettare e far passare le eccitazioni iniziali. Ma è vero che individuare un successo prima di tutti genera un vantaggio maggiore, ed è più facile riuscirci se si fanno esperimenti più numerosi.
Il sito britannico PressGazette, che si occupa di news e media, ha provato a scrivere un piccolo manuale per i giornali indecisi se fare progetti e investimenti su Clubhouse, il cosiddetto “social dell’audio” che ha avuto grandi attenzioni nei mesi scorsi ma di cui è già percepito e raccontato un grosso ridimensionamento dell’interesse, probabilmente fisiologico. Le conclusioni dell’articolo sono un po’ ambigue – e mettono molto in conto il successo di prodotti concorrenti da parte di Facebook o Twitter – ma qualcosa dicono:
“La verità è che, per come stanno le cose, Clubhouse non è una piattaforma imprescindibile per gli editori, che dovrebbero dare priorità ad altri social media. Ma i più lungimiranti hanno ragione a tenere d’occhio Clubhouse. Se mantiene lo hype dei mesi scorsi, può diventare presto un investimento di tempo più valido per chi sappia sfruttarlo”.


domenica 18 Aprile 2021

Il caso più delicato di conflitto tra giornalismo e pubblicità

Abbiamo raccontato spesso di come le difficoltà economiche delle testate giornalistiche generino sovrapposizioni sempre più spregiudicate e meno trasparenti tra i contenuti giornalistici e quelli pubblicitari, con rischi di conflitto e di inaffidabilità dei primi o ingannevolezza dei secondi. Ma parliamo sempre di promozione di prodotti o servizi commerciali riconoscibili come tali. La questione sta diventando ancora più delicata e pericolosa da quando gli spazi promozionali sui giornali vengono acquistati da strutture e istituzioni interessate a una narrazione propagandistica della realtà, producendo quindi contenuti in conflitto con quelli della più rilevante attualità, ovvero con il ruolo principale del giornalismo.
C’erano stati nei mesi scorsi i casi di Cina e Polonia, ma questa settimana una questione più puntuale è stata notata da alcuni lettori del sito di Ansa e successivamente raccontatadal Fatto: Ansa ha pubblicato un articolo sponsorizzato dall’ambasciata del Qatar che nega le accuse – sostenute e dimostrate da molte inchieste giornalistiche – di sfruttamento, schiavitù e morti sul lavoro nell’organizzazione dei Mondiali di calcio. Un uso di questo genere degli “articoli sponsorizzati” – e un’adesione alla “difesa” presentata da Ansa nell’articolo del Fatto – implica che una testata giornalistica accetti di ospitare notizie false o di propaganda politica e ideologica con la candida dizione “in collaborazione con”.
«Alle domande del Fatto Quotidiano, il direttore dell’Ansa Luigi Contu ha risposto così: “L’articolo contiene l’estratto di un’intervista pubblicata sul quotidiano francese Le Figaro, crediamo abbia valore giornalistico”. La collaborazione commerciale con il Qatar, spiega Contu, “non ci imbarazza: lo facciamo con molte ambasciate, anche di Stati non democratici. Manteniamo autonomia e controllo su quello che scriviamo”. Si tratta di contenuti assimilabili ad articoli commerciali, è come affittare uno spazio giornalistico a uno stato estero. “Vero – conviene Contu – ma lo facciamo in maniera trasparente”. Sull’entità economica dell’accordo, il direttore non è d’aiuto: “Non la conosco, non credo sia rilevante, forse poche migliaia di euro”.
Il presidente dell’Ansa, Giulio Anselmi (che occupa la stessa carica in capo alla Fieg, federazione degli editori di giornali), conferma le parole di Contu: “È un accordo commerciale che non mina l’autonomia giornalistica della nostra redazione. L’altro giorno infatti abbiamo pubblicato una notizia critica sul Qatar”».


domenica 4 Aprile 2021

Una specie di patteggiamento

Questa settimana Google ha attivato in Italia il progetto Google News Showcase, con cui promuove i contenuti di alcune testate giornalistiche: è il risultato delle trattative internazionali tra Google e le aziende giornalistiche, di cui abbiamo parlato quasi ogni settimana negli scorsi mesi. In Italia i giornali coinvolti lo hanno raccontato celebrandolo ognuno come un proprio successo e come il riconoscimento di un particolare valore da parte di Google. A descrivere più esattamente la natura dell’accordo è uscito invece un più accurato articolo su Domani, martedì scorso.
“Assomiglia molto di più a una complicata manovra di pubbliche relazioni”.


domenica 4 Aprile 2021

Lo strano giornale che è Harper’s

È una testata americana assai illustre, di cui da noi è piuttosto noto il nome – anche perché a volte lo si confonde con il mensile femminile Harper’s Bazaar, nato da una sua costola ma venduto alla grande multinazionale Hearst un secolo fa – ma praticamente ignota ogni altra cosa. Harper’s Magazine è un mensile newyorkese di attualità e cultura nato nel 1850 che ha pubblicato nella sua storia grandi scrittori, autori famosi, reportage che sono nella storia del giornalismo. Da quarant’anni ha degli editori/direttori che lo hanno portato su posizioni molto di sinistra ma anche molto indipendenti, che hanno generato negli anni occasionali ma intense attenzioni e discussioni. Ha fatto di nuovo notizia in tutto il mondo l’anno passato per la pubblicazione dell’articolo di critica contro la “cancel culture” firmato da diversi intellettuali. Nella sua rubrica dedicata ai media sul New York Times, Ben Smith ha raccontato domenica scorsa le diverse anomalie del giornale: tra cui la scelta di far lavorare la redazione negli spazi della redazione malgrado la pandemia.


domenica 4 Aprile 2021

Libero e la violazione della regola

Il criticabile e criticato sistema dei “contributi pubblici diretti” ai giornali ha criteri poco convincenti a giustificare sostegni che superano per diverse testate il milione di euro, e che sono facilmente aggirabili: le “cooperative di giornalisti”, per esempio, sono in alcuni casi una formalità fittizia che nasconde un editore e proprietario del tutto simile a quello di altri quotidiani. E non potendo intervenire sulla qualità dei contenuti – per delicate ragioni legate alla libertà di espressione ed editoriale – la legge che attribuisce i contributi ha stabilito pochissimi vincoli minimi di rispetto civile per le aziende giornalistiche che vengono finanziate. Uno di questi richiede comprensibilmente “l’obbligo per l’impresa di adottare misure idonee a contrastare qualsiasi forma di pubblicità lesiva dell’immagine e del corpo della donna”.
Il movimento “Non una di meno” ha individuato la pubblicazione su Libero di una pubblicità che corrisponde palesemente alla definizione di “pubblicità lesiva dell’immagine e del corpo della donna” e viola quindi la norma, e ha chiesto al Dipartimento per l’Editoria – in rispetto delle prescrizioni della legge – di ritirare il contributo di ben 5.407.119,97 euro (il terzo più ricco) destinato a Libero per il 2019.


domenica 4 Aprile 2021

Non lo fare più

Julian Reichelt, il direttore della Bild – il giornale tedesco scandalistico che è il quotidiano più venduto in Europa – è di nuovo direttore dopo l’autosospensione legata alle indagini interne sulle accuse di abusi del suo ruolo da parte di alcune dipendenti. L’indagine ha individuato comportamenti inadeguati ma non gravi abbastanza da sanzionarlo in qualche modo, e ha parlato di “sbagli fatti” e “confusione tra le vite professionali e private” ma specificando che “a differenza da quanto riportato da alcuni media, non ci sono state molestie sessuali” o abusi di questo genere. Alexandra Würzbach, la direttrice dell’edizione domenicale che aveva sostituito Reichelt durante le scorse settimane, resterà condirettrice a garanzia di maggiori prudenze future.


domenica 28 Marzo 2021

Showcase must go on

Lo sviluppo italiano delle trattative di Google con gli editori di giornali che vi avevamo anticipato tre settimane fa è stato ufficializzato mercoledì: Google ha comunicato i nomi di alcune testate che hanno accettato di essere pagate per l’uso dei propri articoli nel nuovo contenitore di news che si chiama Google News Showcase (che avrà maggiore visibilità sugli smartphone, ma anche su Google News). Un gruppo molto eterogeneo che comprende tra gli altri il Corriere della Sera, Libero, Fanpage, il Sole 24 ore, Varese News, il Foglio e il Fatto. L’accordo è stato anche molto celebrato dalle testate coinvolte, per le quali significa sia un interessante contributo economico (forfettario su tre anni, diverso per ciascuna testata), sia un’occasione di promozione maggiore dei propri contenuti, data la potenza in questo senso della distribuzione di Google. Le uniche possibili controindicazioni, per le testate coinvolte, sono di aver accettato compensi economici che qualcuno ha giudicato invece non soddisfacenti, e di offrire agli utenti di Showcase contenuti che altrove sono destinati solo agli abbonati paganti: perdendo così abbonati potenziali.

Ma le ragioni del progetto, al di là delle sue ricadute, sono poco raccontate in tutti questi articoli: l’operazione è nata come un modo per Google di accontentare le richieste economiche dei giornali in tutto il mondo (che chiedono da tempo e con sempre maggior forza di essere compensati per la citazione da parte di Google dei loro contenuti) scegliendo il modo e i termini per farlo, piuttosto che correre il rischio di esserne obbligata in base a nuove legislazioni su cui non abbia il controllo, e per evitare di legittimare le richieste che riguardino l’uso degli articoli sulle pagine del motore di ricerca e su Google News. Gli accordi prevedono infatti che le testate coinvolte e compensate rinuncino così a ogni diversa pretesa nei confronti di Google, e attenuano così il loro lavoro di lobbying sulle istituzioni legislative.

Il compromesso “ok, ti paghiamo, ma come diciamo noi, e tu smetti di piantare grane” non ha convinto tutti negli altri paesi. In Italia invece tra le testate maggiori mancano solo quelle del gruppo GEDI (l’editore di Repubblica e Stampa, il più grande del paese nei quotidiani), ma è probabile che facciano annunci simili nei prossimi giorni, una volta ottenute condizioni economiche convincenti.

Di tutto questo abbiamo parlato spesso nei mesi scorsi: ricordiamo soltanto la critica maggiore rivolta a questi accordi, che è di privilegiare una retribuzione economica puntuale che non interviene sulle condizioni strutturali di crisi e sulle prospettive future delle aziende giornalistiche, e trascurare il vero danno radicale causato da Google sul loro business, ovvero l’essersi impadronito (insieme a Facebook soprattutto) del mercato pubblicitario generando un crollo del suo valore per i media.


domenica 28 Marzo 2021

Invece i periodici Mondadori

Anche Mondadori ha diffuso i suoi bilanci nel 2020, che confermano come i migliori risultati e le maggiori priorità siano sui libri piuttosto che sull’informazione, in particolare quella di carta (Mondadori è tuttora il maggiore editore di periodici, pubblicando tra gli altri Sorrisi e Canzoni, Chi, Donna Moderna, Grazia):
“nel 2021 il Gruppo Mondadori intende proseguire nell’opera di consolidamento della propria leadership nell’area Libri – sia nel segmento dell’editoria scolastica sia Trade, aumentandone la rilevanza e l’incidenza sul complesso delle attività del Gruppo – e di completamento delle proprie competenze e offerta in ambito digitale […] Nel 2020 il mercato pubblicitario ha registrato un calo complessivo del 15,3%, risentendo pesantemente degli effetti negativi conseguenti all’emergenza sanitaria Covid-19. Tutti i canali hanno registrato nel periodo una contrazione, tra cui il digital -0,8% e periodici -36,6%“.


domenica 28 Marzo 2021

Sistemi loschi

Gli americani chiamano “dark patterns” i meccanismi ingannevoli creati online per indurci a scelte diverse da quelle nei nostri interessi: “scelte di design che rendono molto facile l’ingresso in una situazione e molto difficile uscirne”. Contro i tanti modi con cui i siti più diversi utilizzano “dark patterns” per far sì che gli utenti accettino delle condizioni o fatichino a rifiutarle ci sono campagne da diverso tempo, e questa settimana la California ha approvato una legge per vietarne l’uso e invalidare i consensi ottenuti con questi sistemi.
Tra gli esempi di “dark patterns” elencati dal sito Digiday c’è anche – già – “nei servizi di abbonamento: rendere molto difficile la cancellazione di un servizio o l’individuazione dei link per rifiutarlo”. La California era già intervenuta tre anni fa specificamente su questo.

Come ricorderete, eravamo tornati a parlare ancora la settimana scorsa degli ostacoli all’annullamento degli abbonamenti creati da molti giornali, e abbiamo ricevuto ulteriori segnalazioni questa settimana, che riguardano anche siti esteri: la pratica non è assolutamente solo italiana. E infatti la non profit American Press Institute ha pubblicato lunedì scorso una ricerca dedicata alle scelte dei giornali americani per conservare gli abbonati che tra l’altro dice che “solo il 41% rende facile la disdetta online di un abbonamento”. Il tema di questo uso di “dark patterns” è stato ripreso anche da un articolo sul sito NiemanLab, che si occupa di giornalismo per una fondazione di Harvard.


domenica 21 Marzo 2021

I famigerati tabloid britannici

Disegniamo una piccola mappa, ché noi li chiamiamo così ma sono testate anche molto diverse tra loro, pur condividendo oltre al piccolo formato una scelta di temi e storie mediamente più “larghe”, “popolari” e brevi: in alcuni casi traboccando soprattutto nello scandalistico, nel bellicoso, nel morboso e nel pettegolo, in altri conservando una quota di attenzioni a temi più seri.
I più importanti sono questi (escludendo la freepress Metro) e hanno una diffusione di gran lunga superiore a quella dei quotidiani considerati più seri come il Times, il Guardian, il Daily Telegraph, il Financial Times.
Il Sun è il più grande e importante: ha mezzo secolo ed è pubblicato da News Corp, l’azienda multinazionale di proprietà del famigerato editore Rupert Murdoch (famigerato per potere e spregiudicatezza) e che possiede anche il Times e il Wall Street Journal, tra gli altri. Il Sun stesso è famigerato per l’aggressività dei modi che spesso sconfinano nel criminale e per produrre contenuti sensazionalistici e demagogici: ancora giovedì il New York Times ha rivelato che il Sun ha pagato un losco investigatore per ottenere informazioni personali e riservate su Meghan Markle. Le sue posizioni politiche sono state varie, con orientamenti spesso conservatori ma disposti a sostenere candidati labouristi.

Il Daily Mail è il suo concorrente (sono i due con una diffusione che supera il milione di lettori), con posizioni molto di destra (qui c’è un grafico più ampio sulle posizioni politiche percepite dei giornali inglesi): appartiene alla famiglia che lo fondò più di un secolo fa ed è stato capace di costruire precocemente un enorme seguito anche su internet, grazie soprattutto ai formati del “boxino morboso” molto imitati anche in Italia, che lo rendono uno dei siti di news più letti del mondo. I suoi approcci sono ugualmente pessimi e la sua inaffidabilità banditesca è nota.

Il Daily Mirror si differenzia per essere sempre stato su posizioni più di sinistra nei 120 anni della sua storia. Nel suo curriculum recente c’è una famosa storia di intercettazioni telefoniche illegali sulle linee di personaggi famosi.
Il Daily Express è quello che ha posizioni più di destra, con grande sostegno al partito UKIP e a Brexit, e battaglie contro l’immigrazione. È nota la sua incessante attenzione per ogni evocazione di sospetto sulla storia e sulla morte di Diana Spencer, ancora oggi.
Il Daily Star è dedicato più esplicitamente alle celebrities, allo spettacolo e al gossip: è stato protagonista del peggio della copertura del caso di Madeleine McCann insieme all’Express: entrambi sono stati denunciati dai genitori della bambina scomparsa e condannati a un risarcimento e a una prima pagina di scuse. Ha smesso di pubblicare ragazze in topless a pagina 3 nel 2019 (ci sono ancora ragazze, non in topless). Venerdì aveva una pagina sugli inglesi che non si deodorano le ascelle e varie foto di sederi femminili nei contesti più diversi. Star ed Express sono della stessa società che pubblica il Mirror.
L’Evening Standard ha quasi due secoli ed è diventato una freepress nel 2009: è più specificamente londinese, più “presentabile” degli altri tabloid ed è di proprietà dell’imprenditore russo Alexander Lebedev, uno dei cosiddetti “oligarchi”, ex ufficiale del KGB.


domenica 21 Marzo 2021

Prigionieri

La scelta di alcune testate di trattenere gli abbonati mettendo ostacoli pratici all’annullamento degli abbonamenti (soprattutto richiedendo agli abbonati comunicazioni macchinose del tutto superflue) continua a raccogliere critiche e generare risentimenti: anche se probabilmente in numeri minori rispetto a quelli degli abbonati che permette di trattenere. Questa settimana tra gli altri si è lamentato Jonathan Bazzi, scrittore tra i finalisti del premio Strega dell’anno passato, che avrebbe voluto chiudere l’abbonamento alla Stampa.


domenica 14 Marzo 2021

L’articolo sparito su Coso e Coso

Domenica scorsa il sito del Corriere della Sera ha cancellato senza spiegazioni un articolo che aveva pubblicato poco prima, dedicato a una notizia che è stata ripresa da molte testate internazionali, e che è in effetti una storia.
In breve: alla fine della settimana scorsa, l’account di Instagram che si chiama Diet Pradae che si occupa di critica della moda (con due milioni e mezzo di followers) ha raccontato della causa per diffamazione da parte di Dolce & Gabbana – il brand di moda – a cui si sta opponendo, e che riguarda il modo in cui fu raccontato e rivelato un famigerato incidente di comunicazione dei due fondatori dell’azienda. La storia è raccontata qui.

La parte che interessa a Charlie è quella che riguarda l’anomalo rapporto del giornalismo che si occupa di moda con l’oggetto del proprio lavoro di informazione, ovvero le aziende di moda: sia perché la causa in questione è un nuovo pezzo di una storia di aggressive insofferenze delle aziende di moda nei confronti delle critiche o delle autonomie di giudizio (insofferenze però abituate da speculari disponibilità e indulgenze da parte dell’informazione sulla moda); sia perché a margine di questo caso è successa un’ulteriore cosa che conferma questa anomalia, ovvero che il Corriere della Sera abbia rimosso precipitosamente dal suo sito un articolo che era stato pubblicato per dare brevemente conto della notizia (di cui hanno scritto moltissimi altri siti internazionali, e nessuno italiano tra i più importanti, malgrado la storia riguardi per giunta una grande azienda italiana). Esempio vistoso della limitata autonomia dell’informazione dai propri inserzionisti in tempi difficili.
“E sulla stessa notizia della denuncia contro Diet Prada il sito del Corriere della Sera ha per esempio rapidamente rimosso un sobrio articolo che aveva messo online domenica pomeriggio riprendendo quello di Associated Press (l’articolo è rimasto online qui). Nessuna delle maggiori testate italiane ne ha scritto, e pochissimi anche tra i siti che si occupano di moda”.


domenica 14 Marzo 2021

Micromega tiene duro

Il direttore e fondatore della rivista di cultura e politica Micromega ha annunciato di avere costruito un modo per farne proseguire le uscite dopo che il gruppo Gedi (editore di Repubblica, Stampa ed Espresso, tra gli altri) aveva rinunciato a continuare a pubblicarlo.
“ho costituito “MicroMega edizioni impresa sociale s.r.l.”, che da adesso in poi pubblicherà la rivista. Società non profit: non potrà distribuire utili fra i soci. Tutto sarà reinvestito per allargare le attività di MicroMega.
La testata è stata rilevata a diverse condizioni, tra le quali la proibizione di avere, per anni quattro, anche come soci di minoranza, “società editrici, anche non italiane, ovvero soci di società editrici”.
Perciò, dovremo farcela da soli, diventando editori a partire da zero, con enormi difficoltà che stiamo già sperimentando ogni giorno (anche per il venire meno di economie di scala).
Abbiamo comunque ottenuto che Gedi, a costi contenuti, per tutto il 2021 continui a essere il nostro fornitore tipografico, curando anche distribuzione e abbonamenti. Senza tali accordi avremmo dovuto interrompere la pubblicazione della rivista per almeno sei mesi”.


domenica 7 Marzo 2021

Google come si muove travolge tutto

Ma stavolta si tratta di un’altra cosa, che riguarda internet in generale è di conseguenza anche le news online. Google ha annunciato di voler dismettere la pubblicità personalizzata in base ai nostri percorsi di navigazione: quella basata sui “cookies” che i siti depositano sui nostri computer e che contengono informazioni che vengono lette – tra gli altri – dai sistemi di pubblicazione dei banner e delle inserzioni, per decidere (non sempre con grande efficienza) quali pubblicità mostrarci. Non è chiaro ancora che tipo di meccanismo Google vorrà conservare sui propri browser, ma nei fatti è un grosso cambiamento – motivato con le richieste di rispetto dei propri dati da parte degli utenti – nei funzionamenti della pubblicità online e nel loro business.

La decisione di Google va in una direzione che in teoria dovrebbe essere apprezzata da tutti (quella del rispetto della privacy degli utenti), soprattutto se consideriamo quanto i “cookies” e la loro invasiva indiscrezione fossero demonizzati fino a pochi anni fa, prima che diventassero rapidamente parte della normalità della navigazione online. Ma proprio perché sono diventati “normali”, adesso ci è stato costruito sopra un grande e complesso sistema di business pubblicitario che riguarda tutta la Rete. Una similitudine che si può fare è quella con l’introduzione degli spot pubblicitari che interrompono i programmi in tv, alla fine del secolo scorso. Ci furono scandalo, irritazione e persino un referendum, in Italia: poi ci siamo abituati e ora quelle interruzioni sono una parte importante dei ricavi pubblicitari delle reti televisive, che non ne vorrebbero mai fare a meno.

Per questa ragione – tra gli altri – i grandi editori hanno già iniziato a protestare per questa scelta di Google, contraddicendo le predicazioni contro i cookies e contro le invasioni della privacy che gli stessi editori avevano ospitato fino a pochi anni fa. E lo stesso interesse di Google non è dettato da generosità nei confronti degli utenti come potrebbe sembrare, ma dalla consapevolezza che la propria condizione di potere enorme e prevalente nella gestione della pubblicità online gli permette di dettare le regole e imporre meccanismi diversi su cui avere maggior controllo e di cui essere il primo beneficiario.