Le critiche alle regole di Associated Press sul linguaggio inclusivo

Un tweet dell'agenzia di stampa che invitava a non usare “etichette” per definire vari gruppi di persone è stato contestato, frainteso e deriso

Giovedì in Francia, ma non solo, si è discusso parecchio del contenuto di un tweet dell’agenzia internazionale Associated Press, considerata tra le più affidabili al mondo. Il tweet è stato pubblicato dall’account Twitter dell’Associated Press Stylebookil manuale di stile utilizzato dai giornalisti dell’agenzia, che stabilisce regole e criteri sull’uso della lingua inglese e che è spesso definito come una specie di “Bibbia” per i professionisti e le professioniste dell’informazione di mezzo mondo.

I consigli di stile di AP sono generalmente rivolti ai suoi giornalisti e alle sue giornaliste, ma sono seguiti volontariamente anche da persone che lavorano in altri media, e godono in generale di una certa considerazione. Il consiglio che ha provocato il dibattito più recente suggeriva di non riferirsi a determinati gruppi di persone identificandole genericamente con una loro caratteristica, dando cioè loro una “etichetta” che rischia di far coincidere la loro identità con quella stessa caratteristica. Invece che «i malati di mente», AP ha suggerito dunque di usare «persone con problemi di salute mentale».

«Raccomandiamo di evitare etichette generiche e spesso disumanizzanti come “i” poveri, i malati di mente, i francesi, i disabili, i laureati. Piuttosto, usiamo espressioni come “persone con problemi di salute mentale”»

La buona pratica editoriale suggerita da AP, e adottata sempre di più dai giornali internazionali, ha però provocato commenti sarcastici e molte polemiche per la scelta di inserire nell’elenco degli esempi anche «i francesi».

Negli Stati Uniti diversi giornalisti hanno criticato il tweet e consigliato sarcasticamente di usare al posto di «i francesi» l’espressione «persone in una situazione di francesità», «persone di esperienza francese» o «francesi assegnati alla nascita» (quindi in alcuni casi prendendo in giro in generale alcune formule usate dal linguaggio inclusivo, come «sesso assegnato alla nascita»). Ben Collins, della NBC, ha suggerito di usare «persona che ha fatto esperienza di un croque monsieur», un tipico panino francese.

Alcune critiche sono state fatte però al consiglio che AP ha dato in generale, e cioè evitare le formule con l’articolo determinativo prima di un aggettivo usato come sostantivo, per non attribuire a un gruppo di persone delle etichette («i poveri», in uno dei casi citati dall’agenzia). Il fumettista Pete Woods ha scritto per esempio: «Aren’t you THE Associated Press?» («Non sei tu LA Associated Press?»), non capendo o fingendo di non capire, però, il senso della regola che vorrebbe introdurre AP e confondendo il diverso valore che assume il “the” quando è usato normalmente come articolo e quando invece, come articolo, si accompagna a un aggettivo che viene usato come un sostantivo.

Molte di queste critiche sono arrivate poi da persone che avevano già posizioni non favorevoli all’uso di un linguaggio inclusivo. Il sito di estrema destra Breitbart News ha parlato di «polizia del linguaggio» e altri ancora hanno accusato AP di voler assecondare “l’ideologia woke”, espressione oggi usata molto spesso con toni dispregiativi e dall’estrema destra per indicare quell’insieme di rivendicazioni che pongono l’attenzione sulle diseguaglianze e sulle discriminazioni.

Della questione ne hanno scritto anche in Francia. Alcuni giornali, tra cui Le Monde, si sono chiesti perché scegliere proprio «i francesi» come esempio, e la risposta è stata che trovare un paese che non si sarebbe offeso, come la Francia, «non sembrava essere una cosa facile». I francesi, ha scritto Le Monde, sono in un certo senso abituati a non essere particolarmente apprezzati dagli americani. Durante l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti nel 2003, racconta Le Monde, i “cattivi” di un film, originariamente spagnoli, furono trasformati in francesi. E George W. Bush, durante le presidenziali del 2004, “accusò” il suo oppositore democratico John Kerry di «sembrare un francese». Ma giovedì 26 gennaio, quando AP ha pubblicato il suo tweet, conclude Le Monde «“i francesi” si sono fatti una bella risata».

Il tweet è stato poi commentato da alcuni esponenti dell’estrema destra francese, come l’ex candidato alla presidenza Eric Zemmour che, rimarcando le proprie politiche identitarie, ha risposto a AP: «Noi siamo i francesi».

Un commento sarcastico è arrivato anche dall’ambasciata francese negli Stati Uniti che ha mostrato una foto del proprio profilo Twitter con l’etichetta originaria che dice «organizzazione del governo francese» mentre viene sostituita con una nuova etichetta:  «Ambasciata della francesità negli Stati Uniti». Il testo del tweet dice: «Pensiamo di essere questo adesso…»

La portavoce di AP Lauren Easton, in una mail a Le Monde, ha spiegato semplicemente che «il riferimento ai “francesi” così come il riferimento ai “laureati”, è un tentativo di mostrare che le etichette non dovrebbero essere usate per nessuno, siano esse tradizionalmente stereotipate come positive, negative o neutre». La scelta dell’elenco intendeva dunque mostrare la diversità delle categorie a cui il suggerimento di AP può essere applicato. E sebbene possa sembrare strano, gli esempi sulle popolazioni vengono usati da chi si occupa di linguaggio inclusivo.

Infine, dopo le molte critiche, AP ha comunque cancellato il tweet spiegando che il riferimento ai francesi era inappropriato.

Per rendere inclusivo o più ampio il linguaggio, nel tempo sono state proposte diverse soluzioni, che tentano di risolvere alcune criticità che le lingue, in alcuni loro automatismi, possono presentare.

Per quanto riguarda il genere, nella lingua italiana (che è una lingua che non ha il neutro ma che ha il genere grammaticale) è stato proposto di usare il simbolo fonetico ə, detto schwa, come desinenza finale al posto del plurale maschile sovraesteso (cioè l’uso del maschile come neutro per indicare anche persone che maschi non sono: “alunni”, per indicare alunni e alunne, per dire). Ma si possono usare anche strumenti che sono già a disposizione e di uso frequente nella lingua stessa: si può rendere più simmetrico il sistema tra maschile e femminile nominando uno accanto all’altro almeno entrambi i generi (“tutti e tutte”), si può evitare di usare il maschile nei nomi delle professioni quando sono riferite a una donna (“sindaca” e non “sindaco”). Oppure si possono sostituire alcune espressioni con altre equivalenti, ma più ampie: “uomo” con “essere umano”, “i cittadini” con “la cittadinanza”, “libri per bambini” con “libri per l’infanzia”, “gli ateniesi” con “popolo ateniese”.

Quest’ultimo consiglio, quello cioè di evitare di usare sempre e unicamente il maschile come neutro parlando di popoli, era già stato dato nel 1987 da Alma Sabatini nelle sue Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, un manuale ancora oggi molto utile e semplice che la linguista aveva scritto per la presidenza del Consiglio dei ministri.

Il linguaggio inclusivo non ha comunque a che fare solo con il genere. La Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità (CRPD), un trattato internazionale contro le discriminazioni firmato nel 2006, aveva ad esempio adottato l’espressione “persone con disabilità” al posto della parola “disabili”: perché mette al primo posto la persona e solo successivamente, come caratteristica, la disabilità.

Uno degli obiettivi del linguaggio inclusivo proposto ora da AP è dunque quello di non identificare le persone con una singola loro caratteristica, che può essere fisica, religiosa, di condizione o di identità di genere. Ad esempio, al posto di “donna velata”, una riconosciuta associazione di giornaliste francesi che si è molto occupata di linguaggio inclusivo, Prenons la Une, suggerisce di usare l’espressione “donna musulmana che indossa il velo” “donna che indossa il velo”, o di utilizzare “persone migranti” al posto di “migranti”. Lo stesso principio vale anche per l’uso, corretto, di “persona transgender” al posto di “un/una transgender”.

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