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  • Domenica 19 novembre 2023

Storia del “giornalismo embedded”

Andare in zone di guerra insieme a uno degli eserciti coinvolti è una pratica che esiste da moltissimo tempo, ma che fu codificata per la prima volta vent'anni fa

Soldati israeliani a Gaza (AP Photo/Ohad Zwigenberg)
Soldati israeliani a Gaza (AP Photo/Ohad Zwigenberg)
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Per quasi un mese nessun giornalista internazionale è potuto entrare nella Striscia di Gaza, in seguito alla chiusura da parte di Israele di tutte le frontiere: le testimonianze dall’interno arrivavano solo dai giornalisti palestinesi. Dal 4 novembre l’esercito israeliano ha iniziato a permettere l’ingresso a Gaza di alcuni giornalisti embedded, cioè al seguito dei militari israeliani. Sono state brevi visite, durate alcune ore, a bordo di mezzi blindati dell’esercito: i primi sono stati i giornalisti israeliani, poi quelli di alcuni media statunitensi, l’11 novembre è entrato nella Striscia anche l’inviato di Repubblica Fabio Tonacci.

Forme, regole e definizione del giornalismo embedded furono codificate nel 2003, con la guerra in Iraq, nonostante le relazioni fra forze armate e stampa esistessero sin dalla Prima guerra mondiale.

Negli ultimi trent’anni andare embedded è stato spesso l’unico modo per i giornalisti di vedere il fronte di guerra, o comunque le battaglie in situazioni in cui l’accesso a quei territori era bloccato o implicava grossi rischi. Il giornalismo embedded è però anche una pratica che ha diversi limiti: per esempio restringe la libertà di azione dei giornalisti e può condizionare il loro racconto dei fatti, visto che presuppone che il giornalista guardi le cose che stanno succedendo insieme a una delle parti coinvolte in quella guerra.

Il giornalismo di guerra moderno, con il racconto quotidiano delle notizie dal fronte accompagnate da fotografie e immagini televisive, trovò la sua forma più completa durante la guerra del Vietnam, dalla seconda metà degli anni Sessanta.

Allora la stampa non era embedded e godeva di una libertà di azione pressoché totale: durante il conflitto fra il Vietnam del Nord comunista e il Sud appoggiato dall’esercito degli Stati Uniti i giornalisti ebbero un accesso senza restrizioni alla zone di guerra. George Esper, ex corrispondente di guerra di Associated Press, raccontò: «Se avevi energie e coraggio potevi andare ovunque tu volessi. E lo abbiamo fatto: su canoe, a piedi, in macchina, in elicottero, in aereo. Mi ricordo di aver chiesto passaggi dalle zone di combattimento del nord fino a Saigon per spedire i miei articoli. Andavo su e giù sulle piste degli aerei militari chiedendo ai piloti: “Mi porti a Saigon?”».

Peter Arnett, allora giornalista di AP e in seguito di CNN, in marcia con le truppe vietnamite nel 1965 (AP Photo)

Se durante le guerre mondiali il giornalismo di guerra era stato al servizio “del bene della nazione” (come si diceva in quegli anni), in Vietnam prese forma una copertura degli eventi diversa, più investigativa e più attenta a raccontare le atrocità della guerra e gli effetti delle violenze sulla popolazione civile e sugli stessi soldati.

L’accesso totale per i giornalisti, che arrivarono a essere anche 400, portò a una rappresentazione più fedele e quindi critica dell’esercito. Allo stesso tempo fare quel lavoro era pericoloso: morirono 68 giornalisti prima del ritiro delle truppe statunitensi, nel 1973.

In seguito esponenti militari e del governo statunitense indicarono proprio la copertura dei media fra i fattori che portarono alla sconfitta dell’esercito americano e dei suoi alleati: sostennero che raccontare così estesamente quello che stava succedendo avesse condizionato il morale dei soldati e fatto mancare l’appoggio dell’opinione pubblica americana verso l’intervento degli Stati Uniti in guerra. Fu anche per questo che nelle guerre successive l’esercito statunitense decise di restringere notevolmente l’accesso dei giornalisti alle zone di guerra, ufficialmente per ragioni di sicurezza.

Soldati iracheni si arrendono a truppe saudite nel 1991 (AP Photo/Laurent Rebours, File)

Durante la Prima guerra del Golfo del 1991, quando una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti rispose all’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, i giornalisti furono concentrati nelle basi militari in Arabia Saudita, lontani dal fronte e informati solo attraverso briefing quotidiani dell’esercito: venivano organizzati dei cosiddetti “pool” di giornalisti, che a rotazione venivano scortati dai militari americani in zone di combattimento, e che poi avrebbero dovuto condividere le informazioni con i loro colleghi.

Il risultato fu una copertura della guerra ridottissima, in cui si videro praticamente solo le immagini selezionate dall’esercito americano, quasi sempre riprese notturne di missili e contraerea, che all’epoca davano al conflitto un aspetto da “guerre stellari”.

Nel 2001 gli Stati Uniti annunciarono l‘invasione dell’Afghanistan governato dai talebani, in reazione agli attentati dell’11 settembre compiuti da al Qaida a Washington e New York (il regime talebano era accusato di ospitare basi e uomini di al Qaida sul suo territorio). Nei primi anni di quella guerra la copertura dei media statunitensi fu molto influenzata dal grande sostegno di cui godeva l’intervento militare, ma l’accesso dei giornalisti alle zone di guerra continuò a essere molto limitato, se non nullo.

Due anni dopo, quando George W. Bush decise di intervenire anche in Iraq con l’obiettivo di destituire l’allora presidente Saddam Hussein, il sostegno popolare non era più unanime e le pressioni di televisioni e giornali per raccontare più estesamente la guerra divennero consistenti. Fu così introdotto il concetto di giornalista embedded: 775 fra giornalisti, operatori e fotografi viaggiarono al seguito dei soldati americani, dopo aver sostenuto un addestramento e aver firmato un contratto in cui garantivano di non condividere informazioni che avrebbero potuto mettere a rischio la missione. In almeno un paio di occasioni giornalisti che più o meno volontariamente violarono questo “patto” furono espulsi dall’Iraq.

Il nuovo modello fu subito molto dibattuto: era un innegabile passo avanti nel racconto della guerra rispetto alle ultime esperienze, visto che giornalisti e fotografi al seguito delle truppe potevano effettivamente raccontare ciò a cui assistevano. Allo stesso tempo però quei racconti erano influenzati dalla vicinanza dei giornalisti all’esercito e condizionati dal fatto che in fin dei conti fossero i vertici militari a decidere cosa i media potessero vedere.

Il rischio, come scrisse tempo fa Patrick Cockburn sull’Independent, era quello di essere portati «nel posto sbagliato al momento sbagliato», mentre altrove stava succedendo qualcosa di più importante. Un altro rischio sottolineato nel tempo da diversi osservatori era quello di concentrarsi in maniera eccessiva sulle questioni militari, lasciando da parte sia il contesto politico che la situazione della popolazione locale.

La giornalista Kathy Gannon e la fotografa Anja Niedringhaus embedded con l’esercito pachistano vicino al confine afghano nel 2012: la fotografa fu uccisa in Afghanistan due anni dopo, Gannon fu ferita (AP Photo)

Nonostante i dubbi e i dibattiti, nelle guerre che vennero dopo si continuò a procedere così, con diversi gradi di libertà e autonomia concessi ai giornalisti a seconda delle situazioni e con differenze anche sostanziali: un conto era essere embedded in Afghanistan con l’esercito americano, un altro con i ribelli siriani durante la guerra civile combattuta in Siria.

Sempre più spesso però divenne necessario per i giornalisti accreditarsi ufficialmente presso una delle parti in guerra per svolgere il lavoro dal fronte, soprattutto per ragioni di sicurezza: i giornalisti da tempo hanno smesso di essere “intoccabili” e sono invece diventati in molte occasioni obiettivi, perché considerati parte integrante delle forze “nemiche”. Muoversi autonomamente in certi contesti può essere molto pericoloso o impossibile, operare con la protezione di forze armate diventa una necessità.

– Leggi anche: I reporter di guerra stanno tornando centrali

Esistono ovviamente numerose e diverse eccezioni, alcune raccontate recentemente in occasione della guerra in Ucraina, che per la sua collocazione geografica è molto accessibile a molti giornalisti anche freelance (non dipendenti di un’azienda dei media).

Oggi in Ucraina per lavorare come giornalisti di guerra è necessario accreditarsi presso l’esercito ucraino: ottenuti i documenti necessari, ci si può muovere autonomamente all’interno delle aree considerate “sicure” dalle autorità militari, mentre per avvicinarsi alle zone di combattimento è necessario accordarsi sempre con l’esercito. Sul fronte opposto, quello russo, le uniche testimonianze internazionali sono di giornalisti embedded con l’esercito, e quindi soggetti a censura e alla propaganda.

Nel caso della guerra fra Hamas e Israele, il blocco totale della Striscia di Gaza ha reso le visite organizzate dall’esercito israeliano l’unico accesso possibile a Gaza per i giornalisti internazionali. I giornalisti che vi hanno partecipato hanno raccontato che la condizione imposta dall’esercito era di poter controllare i testi e il materiale raccolto (video e foto) prima della pubblicazione. La CNN ha scritto: «La rete ha acconsentito a questi termini per garantire una finestra, seppur ristretta, sulle operazioni militari di Israele a Gaza». In seguito il New York Times si è opposto a sottoporre preventivamente i testi degli articoli alle autorità militari israeliane e ha ottenuto di non farlo. Le stesse condizioni sono state concesse poi al Washington Post.

Altri giornalisti, fra cui molti esponenti di media arabi e di Al Jazeera, sono stati particolarmente critici su questa iniziativa, definendola «non giornalismo, ma propaganda».

Stampa e politici israeliani hanno invece accusato alcuni dei giornalisti palestinesi presenti nelle prime ore degli attacchi di Hamas del 7 ottobre di essere «embedded con Hamas», di aver conosciuto in anticipo l’operazione e di essere per questo complici delle uccisioni di civili.