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  • Lunedì 31 dicembre 2018

14 cose grosse successe nel mondo nel 2018

Tra dieci anni, se volessimo raccontare com'è stato il mondo nel 2018, di cosa parleremmo?

Mark Zuckerberg fotografato prima dell'inizio dell'audizione davanti alla Commissione per l'energia e il commercio del Senato statunitense
(BRENDAN SMIALOWSKI/AFP/Getty Images)
Mark Zuckerberg fotografato prima dell'inizio dell'audizione davanti alla Commissione per l'energia e il commercio del Senato statunitense (BRENDAN SMIALOWSKI/AFP/Getty Images)

Scegliere le cose più grandi e importanti successe nel 2018 nel mondo non è facile, perché si finisce facilmente per lasciare fuori qualcosa che è stato rilevante per moltissime persone. Per questo, come lo scorso anno, abbiamo pensato a un criterio non troppo sofisticato: tra dieci anni, se volessimo raccontare com’è stato il mondo nel 2018, di cosa parleremmo?

Il 2018 è stato l’anno del primo governo populista in Europa – quello formato da Lega e M5S in Italia – responsabile tra le altre cose di politiche sempre più dure contro il sistema di accoglienza dei migranti e le ong operanti nel mar Mediterraneo. È stato anche l’anno delle grandi e controverse manovre internazionali di Donald Trump – la guerra commerciale con la Cina, l’uscita dall’accordo sul nucleare iraniano, l’incontro con il dittatore nordcoreano Kim Jong-un, l’annuncio del ritiro dei soldati statunitensi dalla Siria, tra le altre cose – che sono state spesso improvvise e inaspettate, e che hanno provocato conseguenze rilevanti per buona parte del mondo. Infine, è stato l’anno peggiore di Facebook, il più grande social network del mondo, con gli scandali sulle interferenze russe nelle elezioni statunitensi e sulle grosse falle nella gestione dei dati degli utenti.

E poi?

Il primo governo “populista” in Europa
Negli ultimi anni in Europa sono cresciuti diversi movimenti populisti e anti-sistema, sia di destra (come lo UKIP britannico) che di sinistra (come Podemos in Spagna), diventati spesso le principali forze di opposizione o i partner di minoranza nei governi dominati da un partito tradizionale.

In Italia le cose sono andate in un altro modo. Dopo le elezioni del 4 marzo, due partiti “anti-sistema” hanno raggiunto per la prima volta la maggioranza assoluta dei seggi e si sono alleati per formare il primo governo populista in Europa. Il governo Conte, formato dall’alleanza tra Movimento 5 Stelle e Lega, si è insediato il primo giugno sulla base di un lungo, ma in molte parti generico, programma di governo. I suoi primi sei mesi sono stati caratterizzati da un aspro scontro con l’Europa (risolto con un compromesso dell’ultimo minuto), da una stretta sull’accoglienza degli stranieri e da una serie di incomprensioni, gaffe e marce indietro che hanno rivelato l’impreparazione di molti membri del governo e le frizioni all’interno della partnership tra Lega e M5S.

Un murale dello street artist TvBoy che raffigura i vicepresidenti del Consiglio italiani, Luigi Di Maio e Matteo Salvini (MIGUEL MEDINA/AFP/Getty Images)

L’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi
Il 2 ottobre scorso Jamal Khashoggi, giornalista e dissidente saudita e collaboratore del Washington Post, entrò nel consolato saudita a Istanbul, in Turchia, per recuperare alcuni documenti sul suo divorzio, e non ne uscì più. Come hanno scoperto indagini e inchieste successive, Khashoggi fu ucciso da un gruppo di 15 uomini mandati direttamente dal regime saudita e legati al potente principe ereditario Mohammed bin Salman. L’Arabia Saudita, dopo avere negato e cambiato versione diverse volte, ha ammesso l’omicidio.

L’omicidio di Khashoggi ha avuto importanti conseguenze: ha attirato moltissime critiche su Mohammed bin Salman, considerato fino a poco tempo fa un grande riformatore e amico dell’Occidente, e ha spinto diversi paesi europei – ma non l’Italia – a vietare alle proprie aziende la vendita di armi all’Arabia Saudita, spesso impiegate nella disastrosa guerra in Yemen. Non ha però cambiato la posizione del presidente statunitense Donald Trump, che per difendere il suo alleato Mohammed bin Salman è arrivato a mettere in discussione il lavoro della propria intelligence e a dire che qualsiasi cosa fosse successa in quel consolato non avrebbe cambiato la sua politica verso l’Arabia Saudita.

Jamal Khashoggi (MOHAMMED AL-SHAIKH/AFP/Getty Images)

Se in questi due minuti vi siete appassionati all’Arabia Saudita, abbiamo un podcast che fa per voi.

I negoziati per Brexit
Il 2018 in Europa è stato soprattutto l’anno dei negoziati per Brexit, cioè l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, per cui c’è già una data: il 29 marzo 2019. Negli ultimi mesi è successo un po’ di tutto. Dopo lunghi e complicati colloqui tra negoziatori europei e britannici, a novembre la prima ministra britannica Theresa May ha annunciato l’approvazione di una bozza di accordo su Brexit: chi pensava che fosse questa la parte più dura dell’intero processo, però, si sbagliava.

Dopo l’annuncio, diversi ministri del governo May si sono dimessi e una parte del Partito Conservatore – quella che vorrebbe una Brexit senza compromessi – si è ribellata chiedendo le dimissioni della sua leader, che però si è salvata in un voto interno che si è tenuto a metà dicembre. Nel frattempo May ha dovuto rimandare la votazione della bozza di accordo nel Parlamento britannico, perché non avrebbe avuto i numeri per approvare il testo, e si è vista costretta a chiedere al Consiglio Europeo di riaprire i negoziati soprattutto sul backstop (l’accordo temporaneo che sarà in vigore fra la fine del periodo di transizione e il futuro accordo commerciale, se verrà trovato), ricevendo risposta negativa. Insomma, il Regno Unito su Brexit si trova in un limbo. Per saperne qualcosa di più bisognerà aspettare la terza settimana di gennaio, quando il Parlamento britannico si ritroverà per votare la bozza dell’accordo.

La prima ministra britannica Theresa May parla con il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk a Bruxelles (AP Photo/Francisco Seco)

Le politiche contro i migranti, di nuovo
Nel 2018 diversi paesi europei hanno adottato nuove politiche contro i migranti (Danimarca e Croazia, tra gli altri) e in generale le forze politiche anti-immigrazione sono cresciute un po’ ovunque.

In Italia il nuovo governo Lega-M5S ha fatto due cose grosse contro i migranti: ha cambiato il modo di svolgere i soccorsi nel Mediterraneo, rendendo la vita impossibile alle ong e provocando un netto aumento di morti e dispersi; e ha approvato il decreto sicurezza, che tra le altre cose ha cancellato i permessi di soggiorno umanitari e ha depotenziato il sistema SPRAR, l’accoglienza diffusa gestita dai comuni che prevede diversi percorsi di integrazione. Le nuove politiche italiane, che si sono sommate a quelle del precedente governo guidato da Paolo Gentiloni (PD), non sono state in grado inoltre di risolvere il problema delle terribili torture subite dai migranti nei centri di detenzione libici, e denunciate dall’ONU, dalle ong e da diverse inchieste giornalistiche.

Due migranti nel quartiere Tiburtina di Roma (FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)

Donald Trump contro l’ordine internazionale
Nell’ultimo anno di presidenza, Trump ha scombussolato in modo spesso inatteso e brusco la politica estera statunitense, rifiutando buona parte dei concetti che avevano mosso gli Stati Uniti nel mondo nel corso dell’ultimo secolo: ha mostrato per esempio noncuranza nel cancellare accordi presi in precedenza (vedi il ritiro dall’accordo sul nucleare iraniano) e nel mollare preziosi alleati che facevano affidamento sugli americani (vedi i curdi in Siria dopo l’annuncio del ritiro delle truppe statunitensi); ha usato le sue parole più gentili verso leader autoritari (come il nordcoreano Kim Jong-un e il russo Vladimir Putin), e si è rivolto in modo brusco e minaccioso verso i più antichi e pacifici alleati degli Stati Uniti (Europa e Canada); ha sbugiardato pubblicamente il lavoro della sua stessa intelligence per dare ragione a leader di paesi stranieri con una reputazione molto discutibile (come nel caso della CIA che aveva accusato Mohammed bin Salman di essere il mandante dell’omicidio di Jamal Khashoggi).

Tutto questo è stato definito da qualche giornalista la “dottrina Trump“: un nuovo modo di fare le cose, diverso da quello usato dai presidenti che l’avevano preceduto.

Il presidente statunitense Donald Trump nello Studio Ovale della Casa Bianca, Washington (AP Photo/Evan Vucci)

L’anno terribile di Facebook
Il 2018 è stato un anno terribile per Facebook, probabilmente il più difficile della sua intera storia. Le indagini e le inchieste giornalistiche intorno alle interferenze della Russia nelle elezioni presidenziali statunitensi del 2016 hanno portato a nuove accuse di negligenza contro Facebook. A marzo il caso Cambridge Analytica ha rivelato quanto fosse stata trascurata la privacy degli utenti, con i dati di oltre 50 milioni di persone sfruttati da un’azienda di consulenza legata alla campagna elettorale di Donald Trump.

In un’audizione al Congresso, il CEO di Facebook, Mark Zuckerberg, ha cercato di difendere le attività della sua azienda ripromettendosi di fare meglio sia in termini di privacy sia nel contrasto alle notizie false e alle campagne di influenza, come quelle condotte dalla Russia. Nei mesi successivi altre inchieste hanno però messo in evidenza ulteriori carenze nella tutela dei dati degli iscritti a Facebook, e problemi per altri servizi come WhatsApp e in misura minore Instagram, sempre di proprietà di Facebook. Il social network è stato inoltre accusato di non avere vigilato a sufficienza in alcune aree del mondo, come India, Myanmar e Sri Lanka, dove la circolazione di notizie false ha portato a violenze e uccisioni.

Mark Zuckerberg fotografato prima dell’inizio dell’audizione davanti alla Commissione per l’energia e il commercio del Senato degli Stati Uniti, Washington DC, 10 aprile 2018 (BRENDAN SMIALOWSKI/AFP/Getty Images)

Ascesa e declino delle criptovalute
Il 17 dicembre 2017 i bitcoin raggiungevano il loro massimo storico, con quasi 20mila dollari per unità: oggi viaggiano sotto ai 4mila dollari. In mezzo, il mondo si è accorto di un modo di effettuare transazioni economiche che prima di allora conosceva soltanto una nicchia di esperti, addetti ai lavori e appassionati. La blockchain, cioè il complesso sistema alla base del funzionamento delle criptovalute, è entrata in moltissimi discorsi sul futuro di questo e di quello, spesso a sproposito e spesso senza che chi ne parlava ci avesse davvero capito qualcosa.

Oggi gli esperti concordano sul fatto che l’impennata di valore della fine del 2017 fu dovuta in larga parte a enormi operazioni speculative, e agli investimenti sprovveduti dei molti che si avvicinarono al mercato senza le basilari conoscenze nella finanza e nell’economia. Il sospetto che diverse delle criptovalute più importanti non servissero in realtà a niente, e fossero solo fenomeni speculativi, è stato confermato definitivamente. Ma alcune delle più grandi società di tecnologia del mondo continuano a investire nella ricerca sulla blockchain, a dimostrazione del fatto che non si può – perlomeno non ancora – parlare di “moda passeggera”.

Un centro per l’estrazione dei bitcoin a Virginia Beach (AP Photo/Steve Helber)

La Polonia è sempre più autoritaria
Nell’ultimo anno il partito di governo polacco, Diritto e Giustizia (PiS), ha approvato diverse leggi illiberali, ma soprattutto ha cercato di smantellare lo stato di diritto sottomettendo il potere giudiziario a quello esecutivo: tra le altre cose, si è attribuito il potere di scegliere il presidente della Corte Suprema. Il governo non è riuscito a fare tutto quello che avrebbe voluto e negli ultimi mesi ha fatto qualche passo indietro. In particolare l’intervento della Corte di Giustizia dell’Unione Europea lo ha convinto a sospendere l’applicazione di una controversa legge che avrebbe dovuto abbassare retroattivamente l’età della pensione per i giudici della Corte suprema da 70 a 65 anni, costringendo molti di loro a ritirarsi prima della scadenza del loro mandato, e permettendo al governo di assumerne di fatto il controllo nominandone di nuovi.

Nel 2018 la Polonia è stata, insieme all’Ungheria di Viktor Orbán, il paese europeo che più si è ribellato al modello di democrazia liberale promosso e difeso dall’Unione Europea: su molti temi, per esempio l’immigrazione, i governi polacco e ungherese hanno trovato ampio appoggio anche dalle forze populiste di altri paesi europei, come la Lega in Italia.

L’ex presidente polacco e premio Nobel per la pace Lech Wałęsa, a sinistra, e il leader del partito di governo, Jarosław Kaczyński, al tribunale di Danzica, il 22 novembre 2018 (KRZYSZTOF MYSTKOWSKI/AFP/Getty Images)

Kim Jong-un parla di pace
Gli incontri sulla “denuclearizzazione” tra Corea del Nord e Stati Uniti e i colloqui di pace tra le due Coree sono stati tra gli eventi più raccontati e fotografati dell’anno. Eppure il 2018 non era iniziato per niente bene, con una gara tra Trump e Kim su chi avesse il pulsante per il nucleare più grosso.

Le cose sono cambiate improvvisamente poco prima delle Olimpiadi invernali che si sono tenute a febbraio in Corea del Sud, a cui ha partecipato anche una ristretta delegazione nordcoreana: ci sono state le prime “storiche” strette di mano e i primi annunci di una possibile pace tra le due Coree, ancora formalmente in guerra dal 1950. Ad aprile si sono incontrati al confine Kim Jong-un e il presidente sudcoreano Moon Jae-in, si sono abbracciati e si sono presi per mano, e le foto hanno fatto il giro del mondo. Poi Kim ha incontrato Trump a Singapore e i due hanno firmato un documento finale celebrato da entrambi, ma con dentro poca sostanza. Da allora è passato qualche mese e si può cominciare a fare qualche bilancio: la “denuclearizzazione” della Corea del Nord – il vero obiettivo di Trump – è ancora molto lontana e sembra non essere nemmeno nei piani della Corea del Nord; sul fronte della pace con la Corea del Sud qualcosa si muove, anche se a piccoli passi.

Il presidente sudcoreano Moon Jae-in e sua moglie, Kim Jung-sook, e il dittatore nordcoreano Kim Jong-un e sua moglie, Ri Sol ju, sul monte Paektu in Corea del Nord (Pyongyang Press Corps Pool via AP, File)

I disastri naturali in Indonesia
Lo tsunami provocato dal crollo di parte del fianco del vulcano Anak Krakatoa, tra le isole di Giava e Sumatra, è stato l’ultimo di una lunga serie di gravi incidenti e disastri naturali che hanno colpito l’Indonesia nel 2018.

Ad agosto un terremoto di magnitudo 6.9 ha colpito l’isola di Lombok, una meta molto frequentata anche dai turisti europei, provocando centinaia di morti. A settembre un terremoto di magnitudo 7.5 ha colpito l’area attorno alla città di Palu sull’isola di Sulawesi, nel nord dell’Indonesia, provocando enormi danni. Le successive scosse di assestamento hanno ostacolato i soccorsi e hanno peggiorato la situazione dei sopravvissuti: il bilancio ufficiale dice che sono morte più di 2mila persone, ma potrebbero essere molte di più. L’ultimo grande disastro naturale è successo a dicembre, con il crollo del fianco del vulcano Anak Krakatoa, che ha provocato uno tsunami e che secondo gli esperti potrebbe avere altre conseguenze nel prossimo futuro.

In mezzo a tutti questi disastri naturali ci sono stati gravi incidenti: a luglio sono morte quasi 200 persone nell’affondamento di due traghetti, uno che viaggiava tra le isole di Sulawesi e Selayar, l’altro in un profondo lago vulcanico nell’isola di Sumatra; a ottobre un aereo della Lion Air che viaggiava da Giacarta a Pangkal Pinang è precipitato in mare poco dopo il decollo, uccidendo tutte le persone a bordo, quasi 200.

Una moschea a Kayangan, Lombok, 8 agosto 2018 (SONNY TUMBELAKA/AFP/Getty Images)

La pace tra Etiopia ed Eritrea
Nella città etiope di Zalambessa, al confine con l’Eritrea, ci sono dovunque i segni della guerra che etiopi ed eritrei combatterono tra il 1998 e il 2000. Da qualche tempo, però, le cose sono cambiate: molti soldati se ne sono andati, è stato inaugurato un piccolo bar proprio vicino alla frontiera e soprattutto per la prima volta in 20 anni hanno iniziato a transitare beni e persone da e per la città eritrea di Serha, poco distante da Zalambessa.

Tutto questo è stato reso possibile dal processo di pace iniziato da Etiopia ed Eritrea, che ha fatto parlare di una nuova era politica nel Corno d’Africa con effetti positivi su tutti i paesi della regione, una delle più instabili del continente africano. I protagonisti di questo avvicinamento sono stati il primo ministro etiope Abiy Ahmed, definito «la più grande speranza per il futuro democratico» del suo paese, e il dittatore eritreo Isaias Afewerki, a capo di uno dei paesi più chiusi e autoritari al mondo. I due si sono incontrati a luglio ad Asmara (Eritrea), tra grandi sorrisi e abbracci, e nei mesi successivi hanno deciso di riaprire i confini, le rispettive ambasciate e le rotte aeree tra un paese e l’altro.

Il royal wedding
Il matrimonio dell’anno è stato il cosiddetto “royal wedding” tra l’attrice statunitense Meghan Markle e il principe Harry d’Inghilterra: si è celebrato il 19 maggio nel castello di Windsor, a un’ora di macchina da Buckingham Palace, in una cerimonia privata con 600 ospiti. Come regalo di nozze la Regina li ha nominati duca e duchessa di Sussex.

Del matrimonio tra Markle e il principe Harry si è parlato tanto perché è stato molto particolare: è stato definito contemporaneo, se non all’avanguardia, una cosa inusuale per una delle case reali più conservatrici d’Europa. Del principe Harry si sapeva già quasi tutto, di Meghan Markle un po’ meno. Markle è nata a Los Angeles, figlia di un uomo caucasico e di una donna afroamericana. È divorziata ed è diventata ricca e famosa come modella, e poi recitando in serie tv di successo tra cui CSI: NY, Castle e Suits, nel ruolo di Rachel Zane. Rachel, tra l’altro, è il suo vero nome e non si sa perché preferisca farsi chiamare con il suo secondo nome. Lei e il principe Harry si erano conosciuti a un appuntamento al buio a Londra nel luglio del 2016, e si erano fidanzati ufficialmente il 27 novembre del 2017. Meno di un anno dopo, a ottobre 2018, hanno annunciato di aspettare il loro primo figlio, che nascerà la prossima primavera.

Il matrimonio tra il principe Harry e Meghan Markle (BEN STANSALL/AFP/Getty Images)

La storia dei bambini thailandesi intrappolati dalla grotta
La storia più incredibile del 2018, a mani basse: dodici ragazzini tra gli 11 e i 17 anni rimasti intrappolati in una grotta in Thailandia insieme all’allenatore 25enne della squadra di calcio in cui giocavano. Erano entrati nella grotta per esplorarla, ma erano stati sorpresi da una pioggia torrenziale e avevano dovuto proseguire sempre più in profondità in cerca di un ambiente non allagato. Alla fine si erano ritrovati in un piccolo anfratto, con pochissimo cibo e quasi senza acqua. Dopo nove giorni, erano stati ritrovati tutti in vita dai sommozzatori: ma i problemi erano solo cominciati.

Non si sapeva come tirarli fuori dalla grotta, visto che l’unica via d’uscita era passare attraverso gli stretti tunnel allagati, e nessuno dei ragazzi sapeva nuotare. Per un po’ si considerò seriamente l’ipotesi di aspettare la fine delle stagione delle piogge, mesi dopo. Poi prevalse l’ipotesi di estrarli uno alla volta con delle speciali maschere subacquee, accompagnati da due sommozzatori ciascuno. Fu un’operazione monumentale che durò per tre giorni e coinvolse un migliaio di persone, una delle quali – un sub – morì durante i preparativi. Alla fine tutti furono portati in salvo, sotto gli occhi un po’ commossi di mezzo mondo.

Le immagini dei ragazzini trovati nella grotta, tratte da un video del Tham Luang Rescue Operation Center, 2 luglio 2018 (Tham Luang Rescue Operation Center via AP)

La fine di Angela Merkel in Germania
Dopo 18 anni alla guida dell’Unione Cristiano-Democratica, negli ultimi giorni di ottobre la cancelliera tedesca Angela Merkel ha annunciato di non volersi ricandidare alle elezioni federali del 2021 e di volere lasciare la leadership del partito entro fine anno. L’annuncio ha segnato l’avvio delle ultime fasi di una delle carriere politiche più importanti e rilevanti nella storia recente della Germania e dell’Europa, dove nessun altro leader ha avuto una permanenza così prolungata alla guida di un governo.

Merkel, che ha 64 anni, è stata leader della CDU dal 2000 e cancelliera della Germania dal 2005. Nei suoi anni al governo ha affrontato il difficile periodo della crisi economica, l’arrivo di milioni di migranti e l’affermarsi dei partiti populisti e di estrema destra in alcune regioni tedesche. Il suo impegno politico al governo proseguirà ancora per un paio di anni, mentre spetterà alla neoeletta Annegret Kramp-Karrenbauer riorganizzare la CDU per la prossime elezioni politiche.

La cancelliera tedesca Angela Merkel, al centro, parla al presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il 9 giugno 2018 (Jesco Denzel/Governo federale tedesco via AP)