• Italia
  • Venerdì 7 dicembre 2018

Sulla strada per colpa del “decreto sicurezza”

Come il decreto voluto dal ministro Salvini scardina il sistema dell'accoglienza, e con quali preoccupanti conseguenze sulle vite di moltissime persone

di Luca Misculin

(ANSA/ANDREA MEROLA)
(ANSA/ANDREA MEROLA)

«Pensa alle ragazze che verranno messe per strada: diciannove o vent’anni, senza alle spalle nessun percorso di inclusione, senza rifugio. Cosa devono fare queste ragazze per sopravvivere?». Enzo Pilò è molto preoccupato per gli effetti del nuovo decreto sicurezza, voluto dal ministro dell’Interno Matteo Salvini e approvato in via definitiva una settimana fa. Fra i 42 ospiti dei centri di accoglienza che gestisce con la sua cooperativa nella provincia di Taranto, in nove sono protetti dal permesso di soggiorno per motivi umanitari, una forma di protezione molto diffusa della durata di due anni che il nuovo decreto sicurezza ha abolito per ragioni non chiarissime.

Il rischio è che ai nove ospiti di Taranto capiti quello che sta succedendo ad altre persone nella stessa situazione in tutta Italia: e cioè essere espulsi dai centri dove vivevano prima dell’entrata in vigore del decreto e non poter entrare nel circuito di seconda accoglienza, il cosiddetto SPRAR, perché in possesso di un permesso che alla sua scadenza non avrà più valore, salvo alcune eccezioni ancora tutte da capire. È capitato per esempio a Catania e a Crotone, e potrebbe capitare in diversi altri posti d’Italia.

È un problema che può avere conseguenze gravi. Proprio perché rilasciato per motivi “umanitari” a persone che avevano fatto richiesta di asilo – che è difficile da ottenere per i criteri molto stringenti – chi lo possiede è spesso in condizioni di vulnerabilità o malattia, anche se non proviene da paesi in guerra: donne sole o con bambini, adolescenti – anche se per legge tutti i minori stranieri non accompagnati dovrebbero essere ospitati da una struttura – uomini che hanno subito torture o violenze nei paesi di transito come la Libia. I paesi di origine sono soprattutto africani: tra questi Nigeria, Gambia, Senegal, Costa d’Avorio. Fra il 2016 e il 2017 l’Italia aveva garantito la protezione umanitaria a 39.145 persone: più della metà delle 70.533 a cui aveva garantito una qualche forma di protezione. Molti di loro rischiano di finire per strada, in una condizione di estrema vulnerabilità che pone problemi sia a loro sia alle autorità locali.

Fonti del ministero dell’Interno hanno confermato che le espulsioni dai centri siano avvenute e che probabilmente continueranno ad avvenire, ma le attribuiscono in parte all’applicazione delle leggi già in vigore prima del decreto sicurezza e in parte ad alcune misure del decreto che restringono il percorso di seconda accoglienza a chi ha già ottenuto l’asilo. In sintesi, la tesi del ministero è questa: chi ha una protezione umanitaria non merita di essere inserito nei percorsi di integrazione, perché non ha ottenuto né lo status di rifugiato né una protezione simile.

La decisione vera e propria di lasciare fuori da subito i titolari di un permesso umanitario non viene presa direttamente dal ministero, ma dalle prefetture. Sono gli organi dello Stato da cui dipendono i Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) dove vive la maggior parte dei migranti arrivati in Italia. Alcune prefetture stanno espellendo i migranti dai centri – gestiti solitamente da cooperative  o associazioni – perché hanno interpretato in maniera restrittiva il decreto, non è chiaro se su indicazione del ministero stesso. L’idea è che non abbia senso continuare a spendere soldi per ospitare persone che a breve non saranno più regolari e che non potranno continuare il percorso negli SPRAR, i centri che hanno come obiettivo l’integrazione nella società (un punto importante, su cui torneremo fra poco). Altre prefetture hanno preferito prendere tempo, in attesa di indicazioni più precise.

Alla decisione delle varie prefetture sono appese migliaia di persone che sono in Italia regolarmente: grazie al permesso umanitario hanno una carta d’identità, possono stipulare un regolare contratto di lavoro e fino all’altro giorno avevano davanti la possibilità di rimanere qui. Il permesso umanitario dava infatti diritto a entrare nel circuito SPRAR non appena si fosse liberato un posto, e in ultima analisi era convertibile in un permesso di soggiorno definitivo. Sono queste persone, oggi, a rischiare di finire per strada.

Le stesse fonti del ministero hanno descritto le decisioni di alcune prefetture come il risultato di «controlli periodici» sugli ospiti dei CAS – che in teoria secondo le leggi vigenti dovrebbero ospitare solo persone arrivate di recente, e non chi dispone già di un permesso di soggiorno – che non dipendono dal decreto sicurezza. La coincidenza fra l’entrata in vigore del decreto e questi controlli è comunque sospetta, secondo gli addetti ai lavori.

Per il momento, Pilò può stare relativamente sereno. La prefettura di Taranto gli ha assicurato che a meno di indicazioni dal ministero non ha intenzione di espellere dai suoi centri le persone protette dal permesso umanitario. «Il problema è che magari fra due giorni gli arriva una circolare che cambia di nuovo le cose», spiega Pilò. I suoi CAS, comunque, avranno vita breve.

La prima lezione del corso di teatro tenuta al CAS di Pulsano (Taranto), gestito dall’associazione di Pilò (Pagina Facebook Associazione Babele)

Per via di una serie di altre restrizioni contenute nel decreto sicurezza, fra cui quella che abbassa i fondi giornalieri da 35 a 19 euro a persona, Pilò ha scelto di non partecipare al nuovo bando per i CAS. Nelle prossime settimane i suoi due centri, considerati un’eccellenza fra quelli pugliesi, saranno svuotati e chiuderanno. La sua cooperativa sarà costretta a licenziare undici collaboratori. «Tutti ci aspettavamo una stretta, ma quella che è in corso è la demolizione dell’idea stessa di protezione internazionale», racconta. Ad alcune città potrebbe andare persino peggio che a Taranto.

Su al Nord
In un gelido pomeriggio di inizio dicembre, la prefettura di Milano aveva ospitato un tavolo dei soggetti che gestiscono i CAS della provincia di Milano, in tutto una ventina fra associazioni, cooperative e reti di aziende. Ai gestori era stato anticipato che la prefettura aveva individuato 900 ospiti dei CAS milanesi che nei prossimi mesi dovranno uscire dai centri perché in possesso di un permesso umanitario. Fra questi, circa 240 saranno esclusi nelle prossime settimane. «Non sappiamo esattamente cosa voglia dire», racconta l’assessore di Milano alle Politiche sociali, Pierfrancesco Majorino. «Potrebbero intendere anche a gennaio. Sicuramente finiranno per strada centinaia di persone, fra cui donne e bambini». In pieno inverno, peraltro.

Da una settimana a questa parte, il comune di Milano sta cercando di trovare una soluzione temporanea. Una parte delle 240 persone che finiranno fuori dai centri potrebbero presentarsi ai dormitori per i senzatetto che il comune mette a disposizione ogni inverno: quest’anno i posti disponibili sono 2.700, un numero che coincide a grandi linee con i senzatetto che ogni anno usano i dormitori invernali.

«Molti casi non possono essere lasciati per strada», racconta Alberto Sinigallia, presidente della onlus Progetto Arca, che a Milano gestisce diversi centri fra cui due CAS da un centinaio di persone. «Nei nostri centri ci sono ragazze, alcune anche minorenni, vittime di violenze in Libia che sono rimaste incinte e hanno deciso di tenere i figli». Il percorso che si sta cercando di fare con loro è molto delicato, spiega Sinigallia, come quello degli ospiti a cui sono state diagnosticate malattie psichiatriche. Molti di loro hanno il permesso umanitario e rischiano di finire per strada, nonostante abbiano dei problemi «che non possono essere gestiti per strada o nei dormitori comunali».

Un pranzo di Natale organizzato per senzatetto e migranti dalla Comunità di Sant’Egidio di Milano nel 2017 (ANSA)

Majorino ha assicurato che le situazioni più gravi saranno «monitorate», e che «lavoreremo per non lasciare nessuno per strada». Difficilmente però il comune riuscirà a trovare un posto per tutti: per questo motivo ha già coinvolto enti come Croce Rossa, Caritas, Progetto Arca e Casa della Carità, che potrebbero fornire una ospitalità informale in strutture diverse da quelle dell’accoglienza regolare.

Nemmeno il loro aiuto potrebbe essere sufficiente. Diversi operatori temono che Milano, proprio per il suo sistema di accoglienza relativamente efficace e funzionante, possa esercitare un “effetto calamita” e attirare le persone lasciate fuori dai centri di tutta la regione: in assenza di reti di protezione, tutte le persone che si ritrovano per strada tendono a convergere nella città più grande del territorio, dove un pasto caldo e un letto si trovano con maggiore facilità. «Di certo non possiamo accogliere 40mila persone», spiega Majorino.

In mancanza di comunicazioni ufficiali più precise, nessuno sa che cosa aspettarsi e tutte le persone coinvolte condividono lo stesso tono preoccupato su cosa potrebbe succedere nelle prossime settimane.

Un altro punto dolente
Le prefetture sono state messe in una posizione scomoda. In teoria già oggi chi è in possesso di un permesso di soggiorno non può vivere in un CAS, che di norma è riservato alla prima accoglienza. Prima dell’entrata in vigore del decreto, però, questa situazione era tollerata perché i posti negli SPRAR erano molto limitati, circa 30mila in tutto il paese, e le persone con il permesso di soggiorno umanitario venivano lasciate nei CAS in attesa che si liberasse un posto in uno SPRAR. Il decreto sicurezza prevede che le persone che al momento sono protette dal permesso umanitario non possano più accedere al sistema SPRAR, considerato il più virtuoso ed efficace per fare accoglienza, anche nel caso in cui riescano a rimanere in Italia per via di alcune eccezioni previste dal decreto.

Secondo Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, questa limitazione – oltre a lasciare per strade persone che non possono più accedere né ai CAS né agli SPRAR – scardina il sistema dell’accoglienza per come era stato organizzato finora. «Nella norma che era in vigore, la 142 del 2015, il sistema prevedeva un unico meccanismo di accoglienza in Italia, lo SPRAR, al quale tutti i richiedenti asilo dovevano accedere nel minor tempo possibile. I CAS erano strutturati non come alternativa ma come temporanea misura in attesa del reperimento del posto SPRAR. A causa della drammatica mancanza di posti negli SPRAR, si è instaurata una lettura “di fatto” della norma creando due categorie distinte di richiedenti asilo, che avevano trattamenti diversi pur avendo la stessa categoria giuridica: gli inclusi nello SPRAR e gli esclusi».

Il punto, secondo Schiavone, è che lo SPRAR era stato pensato per tutte le persone che chiedevano asilo: quindi anche chi aveva ottenuto un permesso umanitario, che restano persone che hanno bisogno di una tutela.

Lo SPRAR, inoltre, verrà ulteriormente depotenziato, nonostante a settembre Salvini lo avesse definito un «ponte necessario all’inclusione». L’accesso sarà limitato a chi ha già ottenuto o lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria – le due forme di “asilo”, cioè di protezione internazionale, previste in Italia – e non a chi ne fa richiesta, come succedeva fino all’altroieri. Queste misure hanno portato molti a definire il decreto come uno smantellamento del più apprezzato strumento di integrazione dei migranti.

Fonti del ministero sostengono l’opposto: e cioè che in origine il sistema SPRAR fosse stato pensato per integrare solamente le persone con lo status di rifugiato e quelle in possesso di protezione sussidiaria. Il fatto che anche chi era in possesso di una protezione umanitaria accedesse agli SPRAR era «una forzatura» e un potenziale spreco di risorse pubbliche, visto che al contrario dei rifugiati e delle persone con la protezione sussidiaria, chi aveva ottenuto la protezione umanitaria aveva meno possibilità di rimanere in Italia a lungo termine (anche perché il permesso aveva una durata inferiore). Per quanto riguarda le decisioni delle prefetture, la stessa fonte del ministero spiega che sono frutto di «controlli periodici» sullo status degli ospiti dei CAS, e che l’espulsione di quelli già in possesso di un permesso di soggiorno – come quello per motivi umanitari – era già previsto dalla legge.

Dal ministero dell’Interno spiegano anche che il decreto sostituisce il permesso umanitario con una «tipizzazione» che renderà più efficace la gestione dei singoli casi. Formalmente il permesso umanitario sarà sostituito da quattro forme di protezione diverse: il permesso per calamità naturale (valido sei mesi, non convertibile in un permesso definitivo), il permesso per atti di particolare valore civile (valido due anni, convertibile), il permesso per ragioni mediche (valido un anno, non convertibile), il permesso per vittime di violenza domestica (un anno, convertibile) e il permesso per cure mediche eccezionali (un anno rinnovabile ma non convertibile). Nessuno di questi permessi, molto specifici, darà diritto ad accedere agli SPRAR.

Chi oggi ha un permesso umanitario dovrà tornare davanti alla commissione territoriale, l’organo che giudica le richieste di asilo (se è già stato ammesso in uno SPRAR, può rimanerci fino alla scadenza del permesso). Se non potrà tornare nel suo paese, gli verrà garantito un permesso di “protezione speciale” della durata di un anno, non convertibile in un permesso di soggiorno definitivo. A chi è ancora in attesa di una risposta alla propria richiesta di asilo e rientra nel profilo di chi riceveva il permesso umanitario, verrà garantito un permesso speciale di due anni convertibile in un permesso definitivo, ma solo se verranno trovati «gravi motivi» di carattere umanitario. Secondo Schiavone, a entrambe queste categorie andrebbe garantito l’accesso allo SPRAR per il principio generale della non retroattività della legge, cosa che in futuro potrebbe generare diversi ricorsi.

Nessuno ha idea di come si comporteranno le commissioni territoriali con queste nuove categorie. Il timore è che molti di quelli che hanno ottenuto o stavano per ottenere il permesso umanitario finiscano comunque per strada. Non è facile inserire le storie di chi sbarca in Italia in una “scatola” specifica, e il margine per rifiutare la protezione sarà probabilmente ancora più ampio.

Torniamo nelle città
Sinigallia spiega che in città la situazione è “complicata” dal fatto che, a causa della diminuzione degli sbarchi, le commissioni hanno molto più tempo per esaminare le richieste d’asilo: col risultato che le persone che fino a poco tempo fa rimanevano nei CAS o in attesa di una risposta o perché avevano un permesso umanitario ed erano in attesa di un posto negli SPRAR, sono sempre di meno: «Il problema non è stato risolto ma è stato travasato in strada».

Un momento dell’operazione contro alcuni migranti irregolari davanti alla Stazione Centrale di Milano, 26 luglio 2017 (ANSA/ FLAVIO LO SCALZO)

Un altro problema è che queste persone, oltre a non ricevere più accoglienza, non verranno nemmeno rimpatriate, soprattutto per via della difficoltà cronica di effettuare i rimpatri nei paesi dell’Africa centrale, con cui l’Italia ha pochissimi accordi di riammissione. «Il decreto sicurezza ha tutta una sua logica», spiega Sinigallia, «compreso il rimpatrio: se non c’è il rimpatrio, però, diventa completamente illogico». In campagna elettorale, Matteo Salvini aveva dichiarato che i circa 500mila irregolari che attualmente vivono in Italia «vanno allontanati tutti». Nei primi dieci mesi del 2018 i rimpatri però sono stati 5.306, una cifra simile ai rimpatri effettuati nel 2015 (in tutto 5.505).

Matteo Villa, un ricercatore dell’ISPI che si occupa soprattutto di immigrazione, ha stimato che a causa del decreto sicurezza entro il 2020 in Italia potrebbero rimanere 130mila stranieri irregolari, fra persone che perderanno il permesso di soggiorno alla fine del permesso umanitario e altre a cui verrà negata qualsiasi protezione. A detta dei principali esperti di immigrazione e integrazione, la condizione di irregolarità spinge gli stranieri ad affidarsi alla criminalità per sopravvivere.

E quindi?
In alcune città i possessori di permesso umanitario sono già stati espulsi dai centri, per lo più la scorsa settimana. I giornali si sono occupati molto della storia di Yousuf, un uomo ghanese lasciato fuori da un centro di Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone: «Ci hanno detto di prendere tutto, che dovevamo andare via. Io, mia moglie incinta e la nostra bimba. Abbiamo provato a chiedere perché, ma ci hanno detto che è la legge», ha raccontato a Repubblica.

Anche a Catania si parla di circa 170 persone espulse dal centro di Mineo, fra cui diverse donne. «Una parte di queste persone è venuta a bussare alla nostra porta», racconta Emiliano Abramo, che fa parte della Comunità di Sant’Egidio di Catania. «La prima è stata una donna incinta con un altro bambino di anno e mezzo».

Negli ultimi giorni, però, qualcosa sembra essersi fermato: non ci sono più notizie di espulsioni o persone finite per strada. Persino la prefettura di Potenza, una delle prime ad emanare una circolare che di fatto costringeva i CAS ad espellere i propri ospiti con un permesso umanitario, non ha applicato ciò che aveva anticipato. «L’impressione che si è avuta è che le prefetture erano partite molto decise, poi la cosa è stata molto “mediatizzata”, e magari ci sono state delle altre indicazioni dall’alto», spiega Pierfrancesco Majorino.

Molto dipenderà da quante persone verranno effettivamente lasciate per strada nei prossimi giorni, o per decisione della prefettura o perché scadrà il permesso umanitario, e come si comporteranno le commissioni territoriali con le nuove forme introdotte dal decreto. Fonti del ministero dell’Interno non escludono nuove espulsioni dai centri, al termine di altri «controlli fisiologici».