Le misure economiche del governo Meloni sono di destra?

Alcune sì, ma altre contraddicono platealmente alcuni dei principi che ispirano di solito i conservatori

di Mariasole Lisciandro

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti (ANSA/Riccardo Antimiani)
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti (ANSA/Riccardo Antimiani)
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Il governo di Giorgia Meloni ha promosso alcune iniziative economiche discusse e controverse, sia per i loro effetti sia perché talvolta sono sembrate distanti dalla classica ideologia conservatrice e di destra che caratterizza la maggioranza negli altri campi dell’azione politica, dai diritti all’immigrazione. Le ultime sono state una tassa sugli “extraprofitti” delle banche, il monitoraggio dei prezzi della benzina e il calmiere ai prezzi dei voli per le isole, misure dai tratti dirigisti – caratterizzate cioè da un forte intervento dello Stato – e talvolta vicine alle istanze della sinistra. In più si è dimostrato restio a promuovere la concorrenza – un caposaldo delle teorie economiche liberiste, e quindi associate tradizionalmente alla destra – in settori che ne avrebbero notoriamente bisogno, come quelli dei taxi e degli stabilimenti balneari.

Ci sono state diverse iniziative più coerenti con un orientamento economico di destra, come la sostanziale abolizione del reddito di cittadinanza, ma il governo Meloni le ha alternate a misure che in molti hanno definito “populiste”, servite a richiamare la sua dimensione più sociale, come nel caso della tassa sugli “extraprofitti” delle banche che nelle intenzioni doveva servire ad aiutare chi è in difficoltà col pagamento del mutuo. È stato insomma un approccio misto, che si è scostato dalla storica diffidenza dei governi di destra a un eccessivo intervento dello stato in economia, a cui preferiscono normalmente il libero mercato.

«Bisogna innanzitutto definire cos’è di destra e cos’è di sinistra, e aggiungerei anche cos’è populista» dice Stefano Feltri, giornalista e conduttore dal 17 di settembre del programma Le parole dell’economia su Radio 3. Per come vengono normalmente intesi questi termini nella politica italiana, «l’approccio di sinistra è redistributivo verso il basso, ossia prende risorse da qualcuno che ne ha di più per darle a chi ne ha meno». Una classica misura di sinistra è per esempio aumentare le imposte a chi ha redditi alti per finanziare una riduzione per quelle di chi ha redditi più bassi.

Per la definizione tipica della destra, che si applica soprattutto agli Stati Uniti, vale proprio il contrario, ossia «toglie a chi ha di meno per dare a chi ha di più». È una definizione che però, secondo Feltri, vale meno per l’Italia, dove storicamente «è di destra privilegiare gli interessi di alcuni gruppi specifici a danno dell’interesse generale». E poi ci sono le misure populiste, che «sono prive di razionalità economica e vengono applicate a prescindere dal loro effetto redistributivo, ma all’esclusivo scopo di segnalare un posizionamento del governo».

Secondo Feltri quasi tutte le misure del governo Meloni sono di destra, perché difendono gli interessi di una o di un’altra categoria, o populiste. «L’unica misura che si stacca drasticamente è l’intervento sul superbonus, che invece ha un’ottica di sinistra». Il superbonus è l’agevolazione fiscale introdotta dal governo di Giuseppe Conte nel 2020 per gli interventi di ristrutturazione che migliorano l’efficienza energetica di case e condomini. Era considerato una misura che avvantaggiava soprattutto i più ricchi, e il governo Meloni l’ha molto cambiato e da ottobre non potrà più essere richiesto.

«A me le misure del governo Meloni sembrano più che altro confuse, casuali e senza coerenza» dice invece Chiara Saraceno, sociologa ed esperta di povertà e di politiche per la famiglia. «Nella pratica favoriscono i più ricchi, come nel caso della tassazione di favore al 15 per cento per gli autonomi sotto gli 85 mila euro, e mentre il governo sostiene di voler tutelare i più deboli allo stesso tempo toglie loro il reddito di cittadinanza. Cercano di fare delle cose accattivanti per i redditi bassi, ma nella pratica sono più che altro simboliche». È il caso, ad esempio, della carta per gli acquisti dei beni di prima necessità riservata alle famiglie a basso reddito, una iniziativa una tantum tra quelle che hanno sostituito il reddito di cittadinanza.

Alcuni commentatori ed economisti hanno definito l’approccio del governo Meloni all’economia come “tecnopopulista”, sostenendo che in alcuni casi il governo Meloni si sia rivelato pragmatico nelle questioni più ampie e rilevanti, mentre abbia avuto un atteggiamento populista per quanto riguarda i temi più cari all’elettorato e a volte anche di scarsa rilevanza pratica.

«Non sono molto d’accordo con l’etichetta», dice Feltri, «perché indica il tecnocrate che cerca di costruirsi un consenso popolare ribaltando la sua immagine e di mostrarsi non come una persona che lavora per le élite, ma una che lavora per il popolo contro le élite della politica». Secondo Feltri a questo governo manca l’aspetto tecnico: «semplicemente non ha sfasciato il bilancio e questo è bastato a farlo sembrare prudente». C’è però un’ambivalenza di fondo, ossia uno scarto tra il tipo di politiche che il governo fa e che reputa effettivamente realizzabili e quelle che invece presenta all’elettorato.

Questa ambivalenza si è vista per esempio nel primo grande provvedimento economico che il governo si è trovato ad approvare poco dopo il suo insediamento, ossia la legge di bilancio. È la legge che contiene tutte le misure economiche aggiuntive o che modificano quanto in vigore fino a quel momento che il governo vuole introdurre per l’anno successivo: un provvedimento che dice molto dell’identità di un governo perché è l’occasione in cui si vedono le sue priorità di politica economica. Il governo Meloni doveva districarsi tra più vincoli: quello di dimostrarsi responsabile sul fronte dei conti pubblici per guadagnare la fiducia degli investitori internazionali; quello di dover continuare a finanziare le costosissime misure per attenuare gli effetti della crisi energetica e dell’inflazione su famiglie e imprese; e infine quello di dover dare il segnale ai suoi elettori di rispettare le promesse della campagna elettorale.

Il risultato è stato una legge di bilancio disomogenea e che coniuga l’atteggiamento pragmatico con quello populista: era in continuità con quella precedente del governo di Mario Draghi per quanto riguarda le misure sull’energia; non spericolata sul fronte del debito pubblico, per rassicurare gli investitori internazionali sulla serietà del governo; e conteneva comunque qualche intervento che richiamava alcune delle grosse e costose promesse della campagna elettorale, come la flat tax (ossia la tassa sui redditi al 15 per cento) per tutti e l’abolizione della legge Fornero sulle pensioni.

Nonostante la scelta di continuità, la legge di bilancio aveva però una chiara impronta conservatrice e di destra: ha ampliato la platea degli autonomi che possono usare la flat tax; ha finanziato una nuova quota per abbassare l’età pensionabile senza però affrontare l’annoso problema di una riforma più strutturale del sistema previdenziale; ha tentato di togliere l’obbligo per gli esercenti di accettare pagamenti elettronici (cioè con carta, bancomat o app) per importi sotto i 60 euro, ma alla fine ci ha rinunciato; e ha aumentato il tetto all’uso del denaro contante, ossia la soglia oltre la quale sono proibite le transazioni in contanti, da 2 mila a 5 mila euro.

La questione dell’aumento del tetto ai contanti è stata particolarmente emblematica. Nonostante un atteggiamento generalmente prudente sui conti pubblici, che era l’aspetto su cui gli osservatori erano più attenti, è stato introdotto un provvedimento che notoriamente agevola ogni anno la sottrazione di svariati miliardi allo stato tramite l’evasione fiscale e le attività criminali.

Tra gli interventi più identitari della legge di bilancio c’è anche quello sul reddito di cittadinanza, una misura tradizionalmente di sinistra che il governo Meloni ha sostituito con altre forme di sussidi più blandi. I partiti di maggioranza sono storicamente molto critici verso questo provvedimento (anche la Lega, nonostante fosse al governo quando è stato introdotto): nella loro narrazione per i percettori del sussidio non c’erano veri incentivi a trovarsi un lavoro e il reddito di cittadinanza sarebbe stato una sorta di concorrente dei lavori più modesti. «Nel tempo c’è stata una criminalizzazione forte dei poveri» dice Saraceno.

– Leggi anche: Cosa ci dice la legge di bilancio sul governo Meloni

Col passare dei mesi però il governo ha preso altre decisioni che hanno fatto molto discutere, soprattutto perché erano piuttosto lontane da una classica visione liberista e di destra dell’economia. Secondo molti queste misure erano più vicine, quantomeno nell’idea e nello spirito, proprio all’ideologia della destra sociale, e quindi a quel tipo di statalismo e protezionismo che ha una tradizione in Fratelli d’Italia e che si rivolge «all’equivalente italiano degli elettori di Trump», dice Feltri: ossia con idee di destra, svantaggiati in termini di reddito, arrabbiati per le proprie condizioni di vita e in cerca di risposte nuove e radicali. La destra sociale di Meloni, nella sua tradizione, «si rivolge a queste persone e alle loro legittime ragioni».

«Mi sembra che in generale nelle politiche economiche sia prevalsa di più la storica posizione di Forza Italia e della Lega che quella tradizionale della destra sociale, da cui proviene invece Meloni», dice però Saraceno, secondo cui l’attenzione che mostra di avere il governo per i redditi più bassi si esaurisce in pochi provvedimenti concreti e in molti annunci. «Lo dimostra l’atteggiamento del governo verso il salario minimo, che non è certamente la soluzione unica al lavoro povero, ma è quantomeno un pezzetto della soluzione. Lo dimostra anche l’aver completamente ignorato la questione della sanità pubblica, il cui definanziamento costante va a svantaggio soprattutto di chi ha redditi bassi e non può permettersi le strutture private».

Secondo Saraceno un provvedimento annunciato per dare risposte agli elettori della destra sociale potrebbe essere la tassa sugli “extraprofitti” delle banche, cioè quei maggiori guadagni ottenuti dalle banche grazie all’aumento dei tassi di interesse sui mutui e prestiti che si è visto nell’ultimo anno. Questo aumento era stato determinato a sua volta dagli aumenti dei tassi di interesse decisi dalla Banca Centrale Europea per fermare l’inflazione. Nelle intenzioni del governo questa tassa dovrebbe servire a compensare chi è stato danneggiato dall’aumento dei tassi, come per esempio chi ha un mutuo a tasso variabile. Nella pratica ancora si sa poco su quale sarà la destinazione delle risorse, ma i membri del governo continuano a dire genericamente che serviranno ad aiutare le famiglie in difficoltà con il mutuo.

Meloni ha rivendicato con forza questa misura e, spiegandola in un video sui suoi profili social, ha detto di aver deciso di tassare solo i «margini ingiusti» delle banche e di non voler toccare al contrario la parte legittima dei guadagni. Proprio l’uso della parola «ingiusti» ha fatto molto discutere perché non è chiaro quali siano i criteri per definirli in questo modo, e se questa definizione sia davvero rilevante ai fini di legge o piuttosto una valutazione estemporanea del governo.

Secondo Feltri questa tassa non è «né di destra né di sinistra», ma populista: è «priva di ogni logica economica. È stato adottato un provvedimento estemporaneo senza pensare alle conseguenze in termini di credibilità del governo e in termini di conseguenze finali, ossia su chi ricade infine il costo del provvedimento». Feltri dice anche che nella pratica questa misura non servirà a dare una risposta agli elettori della destra sociale, perché nei fatti non si sa dove andranno a finire le risorse raccolte. Avrebbe dato un segnale a quell’elettorato se, per esempio, il governo avesse deciso di intervenire sulle rate dei mutui, bloccandole o riducendole a spese dello stato, con tutte le criticità che ne conseguono.

Il messaggio che ha trasmesso il governo, forse involontariamente, è che in linea di principio si sente libero di tassare in futuro tutti quei profitti che reputa «ingiusti». Oltre a essere un singolare precedente di tassazione arbitraria di un particolare settore che stava andando bene, quello bancario, va contro alcuni dei valori fondanti del liberismo economico, che normalmente premia e incentiva il profitto senza farsi grandi scrupoli sulle sue origini. Un provvedimento simile è stato non a caso introdotto in Spagna dal governo di Pedro Sánchez, uno dei più di sinistra in Europa, e in Italia ha trovato il favore di quasi tutti i partiti di opposizione, come Movimento 5 Stelle, Partito Democratico e Alleanza Verdi e Sinistra.

– Leggi anche: I rischi della tassa sugli “extraprofitti” delle banche

L’altra questione che è indicativa di un approccio del governo all’economia non chiaramente di destra riguarda il mancato incoraggiamento della concorrenza in determinati settori.

Il problema della concorrenza è che «ha costi concentrati e benefici diffusi», dice Feltri, e per questo a livello politico è difficile da promuovere: i risultati anche se vanno a vantaggio di tutti i cittadini si vedono nel lungo periodo, mentre nel breve lo scontento di chi viene danneggiato dalle liberalizzazioni rischia di far perdere consensi.

In Italia ci sono due settori in cui notoriamente è piuttosto difficile favorirla per via dell’influenza sulla politica delle categorie interessate: quello dei taxi, che sono pochissimi e di cui bisognerebbe aumentare le licenze, e quello degli stabilimenti balneari, che secondo le leggi europee (la cosiddetta direttiva Bolkestein) dovrebbero essere periodicamente messi a gara e che invece sono degli stessi proprietari da decenni. La Commissione europea insiste da anni sulla liberalizzazione di questi due settori, dove gli interessi sono molto concentrati e non c’è concorrenza, con notevoli disagi per i clienti.

La difficoltà non è comunque solo del governo di Meloni: sono settori su cui storicamente i governi di qualsiasi schieramento politico hanno avuto notevoli problemi a intervenire. Il governo Draghi aveva in parte avviato le riforme per entrambi i settori, ma con la sua caduta le cose si erano poi fermate: nel caso delle concessioni balneari ne aveva avviato una mappatura, una misura più formale che sostanziale, ma che comunque aveva aperto la discussione; nel caso dei taxi aveva tentato di inserire il principio della liberalizzazione del settore nella legge annuale sulla concorrenza, ma poi ha dovuto rinunciare sia per lo sciopero dei tassisti che è andato avanti per giorni nelle maggiori città italiane sia perché era il periodo in cui stava iniziando la crisi di governo.

I partiti che fanno parte dell’attuale maggioranza di governo si sono sempre posti a difesa degli interessi di questi due settori. Soprattutto Fratelli d’Italia e la Lega sono sempre stati a fianco di balneari e tassisti nelle numerose proteste che facevano quando il governo di turno tentava di liberalizzare i due settori. Per esempio, il leader della Lega Matteo Salvini era in piazza con i tassisti a Roma mentre il governo Draghi (di cui faceva parte il suo partito) tentava di inserire una norma sui taxi nella legge sulla concorrenza.

Ora che sono al governo stanno un po’ tergiversando su questi temi, nonostante ci siano forti pressioni per trovare delle soluzioni. Per quanto riguarda gli stabilimenti balneari, il problema principale da risolvere dovrebbe essere quello di capire come l’Italia debba recepire la cosiddetta direttiva Bolkestein, approvata nel 2006, che impone agli stati membri dell’Unione Europea di liberalizzare le concessioni demaniali, come appunto quelle balneari sulle spiagge. In Italia invece le concessioni balneari vengono prorogate da decenni in modo quasi automatico sempre agli stessi proprietari, peraltro con canoni d’affitto molto bassi.

In realtà il governo sta cercando un modo per non recepire la direttiva Bolkestein, o comunque per aggirarla, ed evitare di aprire le concessioni balneari già esistenti a gare pubbliche: è soprattutto un modo per non scontentare gli attuali proprietari di concessioni balneari, una categoria che da anni si è dimostrata molto influente sulle scelte della politica. Per questo il governo sta cercando di prendere tempo e sta lavorando a una nuova mappatura delle spiagge, che però è già stata fatta dal governo Draghi.

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Anche sulla questione dei taxi il governo è sostanzialmente fermo. Il problema della carenza dei taxi è legato al fatto che le licenze per guidarli sono un numero limitato, e ormai da molti anni i governi non ne immettono di nuove nel mercato per il timore di scontentare la categoria. I tassisti si oppongono alla possibilità di nuove licenze per il timore che un ampliamento dell’offerta comporti per loro una diminuzione dei guadagni e soprattutto una perdita di valore della licenza in loro possesso: solitamente le licenze vengono vendute ai nuovi tassisti da altri tassisti, e sono necessari grandi investimenti proprio per via del numero limitato in circolazione.

Nell’ultimo decreto prima della pausa estiva è stata delegata la decisione di aumentare il numero delle licenze alle città metropolitane, ai capoluoghi di provincia e alle città in cui ha sede un aeroporto internazionale di avviare bandi per concedere nuove licenze di taxi, fino a un massimo del 20 per cento di quelle esistenti a livello locale. È una misura che concretamente delega la maggior parte delle responsabilità sulla questione alle amministrazioni locali, che già negli ultimi mesi hanno subìto molte pressioni dalle associazioni di categoria dei tassisti per non aumentare le licenze.

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