Perché i balneari in Italia sono così influenti

Gli stabilimenti sono meno di settemila ma rappresentano un bacino di voti importante: eppure non è questa l'unica ragione che ostacola una riforma

di Riccardo Congiu

(Cecilia Fabiano/ LaPresse)
(Cecilia Fabiano/ LaPresse)
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In Italia si parla ormai da molti anni di come i governi dovrebbero affrontare la grossa questione delle concessioni pubbliche agli stabilimenti balneari: sono pubbliche, appunto, e come tali dovrebbero essere assegnate con gare aperte e sulla base di criteri trasparenti, dal momento che permettono lo sfruttamento economico di un bene che appartiene a tutti, come le spiagge. Da decenni invece le concessioni vengono prorogate periodicamente in modo quasi automatico agli stessi proprietari, peraltro con canoni d’affitto molto bassi, e la situazione è rimasta la stessa anche dopo che 16 anni fa la Commissione europea aveva chiesto formalmente all’Italia di liberalizzarle. Ogni volta che si è trovato davanti a una decisione da prendere, ogni governo italiano – di qualsiasi parte politica – ha scelto di prorogare la scadenza delle concessioni già esistenti, rinviando il problema ai governi successivi.

Ad ascoltare le parti in causa – gestori degli stabilimenti, associazioni contrarie all’occupazione privata delle spiagge, politici di maggioranza e opposizione, esperti del settore – le ragioni sembrano essere diverse: la volontà di non scontentare un bacino elettorale prezioso, sia a livello nazionale che locale, la difficoltà di intervenire su una materia molto complicata e regolata da leggi obsolete, la mancanza di coordinamento tra i vari livelli istituzionali che hanno responsabilità sul tema. In un paese in cui un governo resta in carica mediamente per poco più di un anno, poi, la proroga è stata spesso la soluzione più immediata per un problema molto scomodo.

Negli ultimi anni però la necessità di intervenire si è fatta sempre più stringente, fino a diventare quasi obbligata per due motivi in particolare: il primo è che nel 2020 la Commissione europea aveva avviato una procedura di infrazione contro l’Italia perché non era ancora intervenuta sulle concessioni; il secondo è una sentenza del novembre del 2021 del Consiglio di Stato, l’organo di secondo grado della giustizia amministrativa italiana, che aveva imposto che le attuali concessioni balneari cessassero in qualsiasi caso il 31 dicembre del 2023. Il governo di Giorgia Meloni però le ha di nuovo prorogate, nonostante tutte queste pressioni, fino alla fine del 2024.

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Secondo una recente rilevazione della società di consulenza Nomisma – da prendere in alcune sue parti con una certa cautela, visto che è stata commissionata dalle associazioni di categoria degli stessi gestori di concessioni balneari – in Italia le concessioni demaniali per “uso turistico e ricreativo”, cioè quelle degli stabilimenti balneari, sono 15.414. Non significa che questo sia anche il numero degli stabilimenti balneari italiani, perché molti di essi occupano lo spazio di due o più concessioni demaniali: lo stesso studio ha stimato che in tutto gli stabilimenti siano 6.592, spesso a gestione familiare, per un totale di circa 60mila persone occupate (almeno quelle regolari).

Negli anni molti si sono chiesti se un bacino potenziale di alcune decine di migliaia di voti possa davvero essere così influente da aver convinto tutti i governi che si sono succeduti a continuare a garantire un privilegio che è invece considerato molto ingiusto da milioni di altre persone. Su questo ci sono opinioni diverse.

Stefano Patuanelli, senatore del Movimento 5 Stelle che all’interno del partito è tra quelli che si occupano da più tempo della questione, sostiene che quelle decine di migliaia di voti siano importanti eccome, per le forze politiche: «Per ogni stabilimento c’è almeno una famiglia a gestirlo, più i dipendenti e molti di quelli che usufruiscono dei servizi. Sono anche molto compatti, quindi di voti ne spostano».

È della stessa opinione il leader dei Verdi e deputato Angelo Bonelli, che conduce da anni una battaglia contro la proroga delle concessioni e in generale contro l’occupazione eccessiva delle spiagge italiane, per ragioni ambientali: «Da quando me ne occupo questa è una lobby che è sempre riuscita a influenzare la politica», dice. Alla formazione del governo Meloni, lo scorso ottobre, Bonelli fu tra i primi a far notare un potenziale conflitto d’interessi per la ministra del Turismo che si sarebbe dovuta occupare del tema, Daniela Santanchè, che in quel momento possedeva una quota del Twiga, assai noto stabilimento balneare di Forte dei Marmi (in Toscana). La società del Twiga aveva anche finanziato la campagna elettorale di Fratelli d’Italia per le elezioni politiche.

Lo stabilimento del Twiga (Silvio Marvisi/FARABOLAFOTO)

A novembre del 2022 Santanchè aveva ceduto le sue quote del Twiga all’imprenditore Flavio Briatore, che ne era già socio, e al suo compagno Dimitri Kunz D’Asburgo. Nonostante questo Meloni ha comunque deciso di togliere a Santanchè le deleghe alla gestione delle concessioni balneari, che secondo la stessa Santanchè dovrebbero passare al ministro delle Politiche del mare, Nello Musumeci (ma non è ancora accaduto). Ad ogni modo Santanchè sta continuando pubblicamente a occuparsene, partecipando per esempio al “tavolo interministeriale” istituito dal governo per affrontare la questione.

Questo tavolo interministeriale dovrà capire tra le altre cose come evitare all’Italia sanzioni pesanti da parte dell’Unione Europea per la procedura d’infrazione aperta sulla questione delle concessioni. La procedura si basa in particolare sulla cosiddetta direttiva Bolkestein, approvata nel 2006, che stabilisce che i governi degli stati membri debbano liberalizzare le concessioni demaniali, cioè aprirle a gare pubbliche a cui possano partecipare anche altri pretendenti, invece che continuare a rinnovare le concessioni già in essere.

I parlamentari della maggioranza che se ne sono occupati con maggiore continuità, come Gian Marco Centinaio e Maurizio Gasparri, rispettivamente di Lega e Forza Italia, sostengono di poter dimostrare che la Bolkestein non sia applicabile alle spiagge italiane: in Italia, dicono, ci sono spiagge in abbondanza, e la direttiva Bolkestein si riferisce solo ad attività per cui «il numero di autorizzazioni disponibili» sia «limitato per via della scarsità delle risorse naturali» (art. 12).

Sostengono quindi che la proroga al 2024 sia necessaria per verificare attraverso una “mappatura” se le risorse naturali siano realmente scarse o meno: «Si scoprirà che su 8mila chilometri di coste italiane ce ne sono 4-5mila che consentirebbero a chiunque di aprire un proprio stabilimento», dice Gasparri (in realtà esiste già una mappatura anche piuttosto recente, del 2021, e per questo chi critica il governo sostiene che sia solo un ennesimo modo per prendere tempo). Sulla base di questa affermazione, secondo Gasparri e altri non sarebbe necessario rimettere a gara le concessioni esistenti, perché ce ne sono prima molte altre inutilizzate da mettere a gara.

Questa opinione è molto contestata. Innanzitutto da un punto di vista strettamente formale: «la direttiva Bolkestein parla di risorsa limitata, e la spiaggia lo è per sua natura, poi certo, è anche questione di interpretazioni giuridiche», dice Alex Giuzio, caporedattore del sito specializzato Mondo Balneare che segue da tempo e da vicino la questione. Poi ci sono ragioni ambientali: «Se si vede la spiaggia come una risorsa sfruttabile esclusivamente economicamente e basta, allora sì: possiamo continuare a occuparle finché non finiscono», dice Danilo Ruggiero, referente della sezione romana dell’associazione Mare Libero, ambientalista e attiva tra le altre cose per la protezione delle spiagge libere.

Ruggiero spiega che circa 3mila chilometri di costa sono attualmente destinati alle concessioni balneari, ma che il resto «non è tutto balneabile»: ci sono molti chilometri di costa rocciosa, tra le osservazioni più banali, e se a questo si uniscono criteri ambientali per mantenere un buon equilibrio tra spiagge libere e private, «allora si vedrà che le risorse non sono scarse, ma scarsissime».

Ruggiero è particolarmente competente per la parte di spiagge del litorale romano di Ostia, noto per essere particolarmente affollato di stabilimenti balneari: «A Ostia c’è un’economia che gira intorno a queste imprese: laddove c’è un forte potere economico, questo condiziona le scelte politiche locali», dice. Le concessioni balneari infatti, anche se rientrano nel demanio dello Stato, sono state affidate in delega alle regioni, che a loro volta le hanno delegate ai comuni, che sono quindi responsabili dei bandi e delle assegnazioni. «Nei comuni ci sono connessioni fra politica ed economia fortissime», dice Ruggiero, sia dal punto di vista del bacino dei voti che dei rapporti personali.

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Paolo Ferrara, consigliere comunale a Roma del Movimento 5 Stelle che ha seguito a lungo la questione delle concessioni a Ostia, dice: «Il litorale a Roma ha 71 concessioni, riconducibili a circa 50 famiglie: c’è un potentato economico che ha un’utenza di 5,7 milioni di persone della città metropolitana». Ferrara sostiene che per verificare l’inconsistenza della tesi secondo cui ci sarebbe un’abbondanza di spiagge basterebbe andare a visitare il «lungomuro» di Ostia, un’espressione ironica coniata tempo fa da Angelo Bonelli per descrivere il lungomare romano, caratterizzato da una barriera quasi senza soluzione di continuità eretta dagli stabilimenti balneari.

Uno stabilimento balneare di Sabaudia, in provincia di Latina (Vincenzo Livieri/LaPresse)

Anche gli stessi balneari sembrano piuttosto consapevoli della loro forza in termini elettorali. Edoardo Moscara, gestore di uno stabilimento e vicepresidente della sezione romana del Sindacato Italiano Balneari (SIB), dice che «per uno stabilimento medio di solito ci lavorano minimo un paio di famiglie, oltre ai dipendenti: 30mila famiglie sono molti voti». Allo stesso tempo però commenta: «Mi viene il dubbio che questo potere di lobby non è che ci sia così tanto: secondo me è una materia talmente ingarbugliata che è difficile uscirne. Nessuno ci vuole mettere mano».

Il punto sollevato da Moscara è quello che sostengono anche molti altri gestori di stabilimenti balneari: cioè che siano loro stessi molto penalizzati dalle proroghe dei governi e che preferirebbero avere un quadro normativo chiaro per capire come muoversi. Diversi gestori di stabilimenti balneari con cui ha parlato il Post si sono detti favorevoli sia a una revisione al rialzo dei canoni di affitto delle concessioni, sia a rimetterle a gara. Anche molti politici, tra cui Patuanelli del M5S, dicono che «non è colpa degli imprenditori se i canoni sono così bassi».

Sono infatti decisioni che risalgono praticamente al Secondo dopoguerra, e le varie proroghe dei governi hanno reso solo più difficile le possibilità di intervento oggi. Alessandro Berton, a capo del sindacato dei balneari Unionmare Veneto, fa notare che la situazione è molto frammentata e cambia da regione a regione: «In Veneto aspettiamo da anni che si stabiliscano i criteri per la liberalizzazione, ci sentiamo molto penalizzati». Nella regione già una legge regionale del 2002 aveva introdotto la possibilità di rimettere a gara le concessioni esistenti: «Avevamo capito che le proroghe non avrebbero retto», dice Berton, «in Veneto ogni singolo comune sul mare ha pienamente contezza delle sue concessioni, non serve una nuova mappatura, se si decide di fare le gare siamo pronti domani».

Dall’altra parte però ci sono anche moltissimi comuni che sarebbero totalmente impreparati, se si dovesse decidere per una liberalizzazione. Il presidente dell’Anci (l’associazione dei comuni italiani), Antonio Decaro, aveva detto in Parlamento già un anno fa che per molti comuni sarebbe stato impossibile rispettare la scadenza del 2023 (e Decaro è del PD, quindi allineato con il resto dell’opposizione su posizioni contrarie alle proroghe). Alex Giuzio di Mondo Balneare fa l’esempio di Cervia, un piccolo comune dell’Emilia-Romagna con un solo funzionario dedicato a quel genere di bandi e 205 stabilimenti balneari, su cui dovrebbe preparare almeno altrettante procedure di gara.

Molti gestori di stabilimenti balneari riconoscono quanto sia difficile la situazione, che soffre anche della presenza di una grossa quota di evasori del pur basso canone di affitto. Per questo chiedono che nel caso si decida di aprire nuove gare pubbliche, queste tengano conto della loro esperienza e degli investimenti che hanno fatto negli anni. In parole povere: chiedono che i bandi siano scritti in modo da favorire chi conosce bene quel tipo di attività imprenditoriale e che, nel caso non vengano riassegnati agli stessi gestori, venga riconosciuto loro un adeguato indennizzo economico per rifonderli delle spese affrontate (per i macchinari per la pulizia, per la costruzione di strutture, eccetera).

Una soluzione ipotizzata, e gradita a diversi gestori di stabilimenti balneari, è creare nuovi bandi che garantiscano una sorta di diritto di prelazione per chi ha già in gestione una concessione demaniale marittima e possa dimostrare di aver regolarmente pagato affitti, tasse e abbia fatto investimenti virtuosi.

Uno dei motivi fondamentali per cui i governi non riescono a riformare il settore è che il ritardo accumulato lo ha reso negli anni colpevole dell’attuale situazione. L’esempio lampante è quello del 2018, quando il primo governo di Giuseppe Conte (sostenuto da Lega e M5S) decise per una contestatissima proroga delle concessioni fino al 2033, che fu poi bloccata dal Consiglio di Stato nel 2021. In quei tre anni molti gestori di concessioni hanno fatto investimenti in ragione della proroga a lungo termine, e avrebbero ragioni per avviare numerosissimi ricorsi a un’eventuale rimessa a gara senza indennizzo.

La destra che oggi è al governo è stata storicamente molto dalla parte dei balneari, soprattutto mentre era all’opposizione, e oggi si trova quasi costretta a prendere una decisione impopolare per un suo elettorato storico: anche per questo sta temporeggiando. Secondo Patuanelli il vero problema è che il governo ha prorogato le concessioni appoggiandosi a legge delega approvata dal precedente governo di Mario Draghi, senza però prorogare «i criteri che servivano a stabilire come andavano scritti i bandi», cioè gli eventuali indennizzi e soluzioni per non scontentare gli attuali gestori di concessioni, contenuti nella stessa legge delega.

«In questo modo dovranno rifare anche i criteri, servirà una nuova legge delega (cioè una legge con cui il parlamento delega il governo a legiferare su una certa materia, che richiede diversi passaggi formali, ndr) e si perderà altro tempo», dice.