Avere una spiaggia costa sempre troppo poco

In Italia i canoni delle concessioni balneari sono aumentati del 25% ma rimangono comunque bassi, almeno fino alla riforma complessiva del settore

stabilimento balneare in spiaggia
(Azat Satlykov/Unsplash)
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Il 30 dicembre il ministero delle Infrastrutture ha aumentato i canoni delle concessioni demaniali marittime del 25,15 per cento: è il primo aumento significativo degli ultimi dieci anni. I canoni sono aumentati per via degli indici dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), uno strumento rappresentativo dei consumi delle famiglie che misura le variazioni nel tempo dei prezzi di beni e servizi in Italia. Ogni anno l’ISTAT utilizza gli indici per misurare l’inflazione: grazie a questo meccanismo, per esempio, nel 2023 l’importo delle pensioni aumenterà del 7,3 per cento. I canoni delle concessioni balneari sono quindi aumentati per effetto dell’aumento dei prezzi dei servizi offerti negli stabilimenti balneari.

Già nel 2022 i canoni erano cresciuti quasi dell’8 per cento, un aumento considerato storico dai gestori delle concessioni balneari. L’anno precedente erano invece diminuiti, così come nel 2020. Il problema alla base di molte delle controversie che riguardano questo settore è che i canoni di partenza sono bassi da decenni e lo rimarranno anche dopo l’aumento di quest’anno. È difficile dare un dato preciso dei costi in base alle superfici perché dipendono da vari fattori, ma per avere un’idea si può dire che nel 2023 il canone demaniale minimo sarà 3.337,5 euro all’anno, mentre fino al 2022 era di 2.698,75.

Naturalmente, canoni così bassi portano allo Stato ricavi contenuti. Secondo un’indagine della Corte dei Conti, nel 2020 lo Stato ha ottenuto 92 milioni di euro per 12.166 concessioni “ad uso turistico”. Nella stessa relazione, la Corte dei Conti segnala che «i canoni attualmente imposti non risultano, in genere, proporzionati ai fatturati conseguiti dai concessionari attraverso l’utilizzo dei beni demaniali dati in concessione, con la conseguenza che gli stessi beni non appaiono, allo stato attuale, adeguatamente valorizzati». In sostanza, gli stabilimenti balneari pagano le concessioni troppo poco rispetto ai loro guadagni.

Nel marzo del 2019, per esempio, l’imprenditore Flavio Briatore disse al Corriere della Sera che lo Stato avrebbe dovuto rivedere gli affitti delle concessioni balneari perché troppo bassi. Il Twiga Beach Club, noto stabilimento balneare a Forte dei Marmi di cui è proprietario, nel 2020 aveva avuto un giro d’affari di quattro milioni di euro a fronte di un canone di concessione da 17.619 euro. «Credo che centomila sarebbe un prezzo giusto», spiegò Briatore. «Io credo che se lo Stato mettesse due omini a controllare le metrature degli stabilimenti balneari e facesse un prezzo equo incasserebbe molti, molti soldi».

Come si può osservare nella mappa che mostra i canoni di concessione di ogni stabilimento balneare, aggiornata al 2020, moltissimi stabilimenti nelle zone d’Italia più turistiche hanno canoni inferiori a mille euro annuali.

Le associazioni che rappresentano i gestori degli stabilimenti balneari non hanno accolto l’aumento del 25 per cento con proteste o critiche. Maurizio Rustignoli, presidente dell’associazione Fiba-Confesercenti, ha detto che i balneari non sono contrari a rivedere i canoni: «Sono bassi, lo riconosciamo. Ma va fatto con un intervento organico e un metodo che preveda la giusta valutazione delle spiagge, classificandole in base alla redditività e dando un valore corretto al metro quadro: così lo Stato valorizzerebbe il proprio bene».

Negli ultimi anni le associazioni hanno spiegato più volte che i canoni bassi sono dovuti all’impostazione delle concessioni scelta dallo Stato decenni fa. A differenza di altri paesi, come la Spagna, chi possiede uno stabilimento balneare ha una serie di obblighi come la pulizia della spiaggia, l’assunzione di bagnini per garantire un servizio di salvataggio per tutte le persone in acqua, la tassa di smaltimento di rifiuti speciali per il materiale che il mare porta in spiaggia. In Spagna, invece, i canoni delle concessioni balneari sono più alti rispetto all’Italia, ma le amministrazioni locali sostengono i costi degli stipendi dei bagnini, a tutti gli effetti dipendenti comunali, e della pulizia delle spiagge.

Al di là dei canoni, la questione più discussa e politicamente complicata riguarda la riforma complessiva del settore e la liberalizzazione delle spiagge chiesta da anni dalla Commissione europea. Per liberalizzare le spiagge, infatti, servirebbero gare internazionali con regole equilibrate, ma finora le concessioni balneari sono sempre state prorogate senza gara. A differenza di molti altri beni pubblici, per cui lo Stato organizza periodicamente gare per la concessione al miglior offerente, le spiagge sono gestite da imprenditori che spesso le hanno ottenute decenni fa.

Lo scorso febbraio il governo Draghi aveva approvato un disegno di legge chiedendo al parlamento una delega per riformare il sistema con una serie di decreti attuativi, compito che di norma spetterebbe proprio al parlamento. La legge prevede che le gare per assegnare le concessioni debbano essere «imparziali» e favorire la partecipazione «delle microimprese e piccole imprese, e di enti del terzo settore». Saranno definiti i «presupposti e i casi per l’eventuale frazionamento in piccoli lotti» e sarà individuato un «numero massimo di concessioni» di cui si può essere titolari.

Nell’approvazione definitiva dello scorso agosto era stata introdotta una scadenza delle attuali concessioni, che rimarranno in vigore al massimo fino al 31 dicembre 2024. Entro quella data i comuni dovranno bandire le gare. Uno dei passaggi importanti consiste nella definizione dei criteri per le gare internazionali, che dovranno essere approvate con un decreto attuativo entro febbraio.

I tempi sono stretti e il governo guidato da Giorgia Meloni ha un problema politico: in campagna elettorale, infatti, la coalizione di destra ha promesso di tutelare le imprese del settore balneare. Non è ancora chiaro come intenda farlo, visto che annullare la riforma appare impossibile per via degli impegni presi con l’Unione Europea. Al momento sembra che il governo stia ignorando il problema, visto che non è stato ancora nominato un ministro competente su questo settore. Un possibile candidato di cui si è parlato nelle ultime settimane è Nello Musumeci, ministro per la Protezione Civile e le Politiche del mare, ma la decisione spetta alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

La mancanza di un riferimento è un problema anche per i balneari, che lamentano l’incertezza dovuta alla scadenza delle concessioni prevista alla fine del 2024. «La discussione sui canoni è sterile: è come se un inquilino di un appartamento si trovasse a discutere sugli importi di un affitto con il contratto scaduto e con la prospettiva di dover uscire di casa il mese successivo», ha detto Fabrizio Licordari, presidente Assobalneari-Federturismo, associazione legata a Confindustria. «La priorità sulla quale dobbiamo puntare l’attenzione oggi è la certezza della durata della concessione, che solo così può garantire un alto livello dell’offerta turistica, dell’occupazione e degli investimenti».