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  • Mercoledì 10 febbraio 2021

Le inondazioni nell’Himalaya non sono solo disastri naturali

C’entrano il riscaldamento globale e la costruzione di infrastrutture, come sembra dimostrare il disastro di domenica in India

I resti della diga della centrale idroelettrica Tapovan nell'Uttarakhand, in India, il 9 febbraio 2021 (AP Photo/Rishabh R. Jain, La Presse)
I resti della diga della centrale idroelettrica Tapovan nell'Uttarakhand, in India, il 9 febbraio 2021 (AP Photo/Rishabh R. Jain, La Presse)

Domenica 7 febbraio, nelle montagne dell’Uttarakhand, stato nel nord dell’India, una grande inondazione ha distrutto due centrali idroelettriche in costruzione e le loro dighe: molte case sono state danneggiate, 32 persone sono morte e più di 170 sono ancora disperse. L’inondazione è avvenuta lungo due fiumi che nascono dai ghiacciai dell’Himalaya, che oltre a essere la più alta catena montuosa del pianeta, è una delle regioni della Terra dove si vedono maggiormente gli effetti del riscaldamento globale. Proprio per questo molti scienziati hanno sconsigliato la costruzione di dighe e altre grandi infrastrutture nelle sue valli: il governo indiano però ha deciso di fare altrimenti.

Questa decisione, così come il cambiamento climatico, potrebbe avere avuto un ruolo nel disastro di domenica.

L’inondazione nell’Uttarakhand
La mattina di domenica, intorno alle 10 ora locale, un’enorme quantità d’acqua e fango è scesa lungo il corso del Rishi Ganga, un fiume che nasce dai ghiacciai del massiccio del Nanda Devi, e ha distrutto una diga e il cantiere per la costruzione di una centrale idroelettrica all’altezza del villaggio di Reni. Poi l’acqua e il fango sono scesi più a valle, arrivando fino al Dhauli Ganga, un altro fiume di cui il Rishi Ganga è affluente: lì hanno distrutto una seconda diga e una seconda centrale idroelettrica in costruzione.

Non è ancora del tutto chiaro come si sia originata l’inondazione. Inizialmente il governo dell’Uttarakhand aveva detto che l’inondazione era stata causata dal distaccamento di un pezzo di uno dei ghiacciai a monte del Rishi Ganga, che tutti insieme coprono un’area di circa 690 chilometri quadrati. Si era anche ipotizzato che l’acqua dell’inondazione provenisse da un lago proglaciale creato dal parziale scioglimento di uno di questi ghiacciai. Invece, secondo un gruppo di scienziati di varie parti del mondo che hanno discusso dell’inondazione su Twitter, tutto sarebbe cominciato con una frana: nelle fotografie satellitari precedenti all’inondazione non si vedono laghi proglaciali, ma nel corso degli ultimi cinque mesi si nota la formazione di una fessura sul fianco di una montagna.

https://twitter.com/pyjeo/status/1358876221615075330

Secondo la ricostruzione di Dave Petley, esperto di frane dell’Università di Sheffield, è probabile che un blocco di roccia e ghiaccio sia caduto e che nel suo percorso verso valle si sia trascinato dietro altro ghiaccio e detriti causati da una frana del 2016. Scendendo verso il villaggio di Reni, il ghiaccio si sarebbe fuso per il calore generato dalla frana, che avrebbe così causato l’inondazione lungo il fiume.

Anche le abbondanti nevicate di inizio febbraio possono aver contribuito. La stagione delle valanghe nell’Himalaya è tra marzo e aprile, il periodo in cui normalmente si scioglie la neve caduta durante l’inverno. Molti scienziati però pensano che il cambiamento climatico stia causando, tra le altre cose, un’anticipazione della stagione delle valanghe. Secondo i dati dell’India Meteorological Department, l’agenzia governativa indiana che si occupa di meteorologia e sismologia, nell’Uttarakhand il gennaio del 2021 è stato il più caldo degli ultimi sessant’anni.

Cosa c’entra il riscaldamento globale
La Geological Survey of India (GSI), l’agenzia federale indiana che si occupa di studi geologici, ha detto che farà delle indagini sul campo per ricostruire con certezza le cause dell’inondazione. È ancora presto per affermare che l’inondazione sia stata causata dal riscaldamento globale, ma è probabile che l’instabilità idrogeologica sull’Himalaya dovuta allo scioglimento dei ghiacci – la cui accelerazione è una delle principali conseguenze del riscaldamento globale – abbia avuto un ruolo.

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In particolare, se l’ipotesi di Petley sarà confermata, si potrà ricondurre il disastro di domenica all’aumento delle temperature nell’Himalaya negli ultimi anni. Lungo i fianchi delle montagne infatti sono presenti molte fratture nella roccia, dove il ghiaccio fa da collante: «Con l’aumento delle temperature», ha spiegato Petley al New York Times, «questo ghiaccio si scioglie in estate e l’ammasso di rocce si indebolisce perché ciò che lo tiene insieme non c’è più».

Nel 2019 un importante studio realizzato a partire da immagini satellitari scattate per anni ha mostrato che tra il 1975 e il 2000 nell’Himalaya si sono perse circa 4 miliardi di tonnellate di ghiaccio, e poi, tra il 2000 e il 2016, 8 miliardi di tonnellate di ghiaccio in media ogni anno. Questo grande scioglimento ha e avrà delle conseguenze sia globali che locali (l’Himalaya è soprannominato dagli scienziati “Terzo Polo” perché i suoi ghiacciai sono la terza più grande riserva d’acqua dolce della Terra dopo il Polo Nord e il Polo Sud). Secondo la Banca Mondiale, il cambiamento climatico peggiorerà le condizioni di vita di 800 milioni di persone nel sud dell’Asia, e quelle che vivono nella regione himalayana saranno le prime a risentirne.

Sta già succedendo in vari modi. Lo scioglimento dei ghiacciai aumenta la portata dei fiumi della regione, cosa che sul breve termine può far aumentare la produzione di energia idroelettrica e favorire l’agricoltura, ma al tempo stesso, per la sua velocità, rende instabile il terreno. Sul lungo periodo ci sarà carenza d’acqua sulle montagne.

Inoltre la formazione di laghi proglaciali, che da un momento all’altro possono causare il crollo del ghiaccio e delle rocce che li trattengono in alta quota, aumenta il rischio di inondazioni (si stima che tra il 1990 e il 2018 la quantità d’acqua che raccolgono i laghi proglaciali sia raddoppiata e ne sono comparsi anche sull’Everest). Il Centro Internazionale per lo Sviluppo Integrato della Montagna, un’organizzazione intergovernativa che unisce gli otto paesi in cui si estende l’Himalaya, ritiene «criticamente pericolosi» 47 laghi proglaciali in Nepal, Bhutan, India e Pakistan. Nel 2013 un’inondazione causata da uno di questi laghi proprio nell’Uttarakhand causò la morte di più di 5.700 persone.

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Il Nepal finora è il paese più colpito da questi cambiamenti: molte persone hanno già dovuto lasciare le proprie case e trasferirsi ad altitudini più basse perché dove vivevano l’acqua scarseggiava; al tempo stesso le inondazioni sono diventate più frequenti. In Svizzera sono state costruite delle strutture per drenare i laghi proglaciali che mettono a rischio le comunità montane, ma in paesi con meno risorse e con l’aumento del numero di laghi è difficile riuscire a portare avanti progetti simili.

I lavori di soccorso attorno ai resti della diga Tapovan, il 9 febbraio 2021 (AP Photo, La Presse)

Il problema con le dighe e le centrali idroelettriche
La crescente instabilità idrogeologica sull’Himalaya è insomma un problema noto; e lo era in particolare nel bacino dei fiumi Alaknanda e Bhagirathi, di cui fa parte il Rishi Ganga.

Nel 2012 una commissione di esperti incaricata dal governo indiano di dare un parere sulla costruzione di infrastrutture in quell’area aveva sconsigliato la costruzione di dighe su quel fiume. Nel 2014 inoltre una commissione scientifica messa insieme dalla Corte Suprema indiana in seguito alla grande inondazione dell’anno precedente aveva raccomandato di non costruire dighe nelle valli al di sopra dei 2.000 metri, la cosiddetta zona paraglaciale: sono zone da cui i ghiacciai si sono ritirati in tempi relativamente recenti e per questo il suolo è poco stabile. L’altitudine del villaggio di Reni, dove vivono circa 150 persone, è di 3.700 metri. Peraltro l’Uttarakhand è una regione ad alto rischio sismico, e anche per via dei potenziali terremoti la costruzione di grandi infrastrutture deve essere portata avanti con grande cautela.

La costruzione di grandi infrastrutture rischia di rendere ancora più fragili i terreni, per gli scavi e le esplosioni necessarie alla loro realizzazione, la deforestazione indispensabile per fare largo ai cantieri (gli alberi rendono più stabili i terreni scoscesi con le loro radici) e per i detriti creati dai lavori che finiscono per intasare il corso dei fiumi. Quest’ultimo fenomeno aggrava la situazione in caso di inondazioni, perché i fiumi contengono una quantità minore dell’acqua in eccesso.

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Lunedì il primo ministro dell’Uttarakhand, Trivendra Singh Rawat, ha detto che l’inondazione lungo il Rishi Ganga non deve essere considerata «una ragione per costruire una narrazione contro lo sviluppo». Negli anni, però, il governo indiano è andato contro le opinioni degli esperti e le proteste della popolazione locale, che temevano prima di tutto che l’uso di esplosivi nei cantieri avrebbe causato delle frane.

Inoltre, secondo gli abitanti di Reni, il governo non li aveva avvisati dei rischi che correvano e non aveva fatto spostare il villaggio come aveva promesso dopo che, durante i lavori per costruire la centrale idroelettrica, il terreno su cui sorge metà del villaggio si era spostato.

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Acqua fangosa nel corso del fiume Alaknanda, nell’Uttarakhand, il 9 febbraio 2021 (AP Photo/Rishabh R. Jain, La Presse)