Putin non ha perso tempo con la nuova Siria
La Russia ha sostenuto per anni il regime di Assad, bombardando intensamente quegli stessi ribelli che oggi cerca di farsi amici
Lunedì, appena un giorno dopo la fine del regime di Bashar al Assad in Siria, l’ambasciata siriana a Mosca ha cambiato bandiera: da quella rossa, bianca e nera del regime a quella verde, bianca e nera della nuova Siria governata dalle forze antiassadiste. È uno dei segnali del fatto che la Russia, che per decenni è stata la più forte alleata della dinastia degli Assad, ha deciso rapidamente di provare ad adattarsi alla nuova situazione.
Fino a pochi giorni fa la Russia era la principale potenza militare alleata della Siria: aveva il controllo dello spazio aereo, aveva una base navale a Tartous (l’unica base navale russa fuori dai territori dell’ex Unione Sovietica) e la base aerea di Khmeimim fuori Latakia, e garantiva con la sua presenza militare la permanenza al potere del regime di Assad. Ma quando l’avanzata delle forze antiassadiste guidate da Hayat Tahrir al Sham (HTS) ha provocato il crollo completo dell’esercito siriano, la Russia, indebolita e distratta dalla guerra in Ucraina, non è riuscita a sostenerlo, e ha rapidamente adottato una nuova tattica: cercare di gestire i propri interessi trattando con il nuovo governo.
«Il nostro coinvolgimento [in Ucraina] ha avuto un costo», ha detto al New York Times Anton Mardasov, un analista di un centro studi di Mosca. «Il costo è stato la Siria».
La Russia era entrata in guerra in difesa di Assad nel 2015, mentre il regime era in enorme difficoltà e rischiava di non sopravvivere agli attacchi dei ribelli. Assieme al gruppo radicale libanese Hezbollah (che ci mise molte forze di terra) e all’Iran (che ci mise soprattutto consiglieri militari e strategia) la Russia intervenne senza inviare soldati in Siria, ma con una campagna feroce di bombardamenti contro le postazioni dei ribelli e contro moltissimi obiettivi civili: alcune città furono quasi rase al suolo dai bombardamenti russi.
Formalmente il presidente russo Vladimir Putin aveva annunciato che le operazioni militari della Russia sarebbero state contro lo Stato Islamico, il gruppo terroristico che aveva imposto un Califfato tra parte dell’Iraq e l’est della Siria. In realtà Assad, la Russia e i loro alleati colpirono solo sporadicamente lo Stato Islamico, e si concentrarono invece sui ribelli dell’ovest, che venivano sistematicamente chiamati «terroristi» (e che effettivamente avevano ormai infiltrati gruppi jihadisti).
Lo Stato Islamico fu sconfitto definitivamente nel 2019, ma da una coalizione a guida statunitense sostenuta a terra dalle truppe curde.
L’intervento della Russia e degli altri consentì ad Assad di riprendersi il grosso della Siria, al costo di centinaia di migliaia di persone uccise. Nel 2017, quando ormai buona parte dei ribelli era stata sconfitta, Putin tenne un discorso nella base aerea russa di Khmeimim, non lontano da Latakia, in cui disse: «Se i terroristi alzeranno di nuovo la testa, li colpiremo con bombardamenti senza precedenti, come non ne hanno mai visti».
I «terroristi» a cui Putin faceva riferimento nel 2017 erano i ribelli, che ora governano la Siria.
Negli ultimi giorni ci sono stati molti segnali che mostrano come la Russia abbia iniziato ad adattarsi alla nuova situazione. Sabato, mentre i ribelli stavano avanzando ma Assad era ancora al potere, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov diceva: «I terroristi non devono prendere il potere in Siria». Appena un giorno dopo, mentre i ribelli entravano a Damasco, il governo russo aveva già smesso di parlare di «terroristi»: improvvisamente i ribelli erano diventati «opposizione armata».
La Russia ha accolto Assad e la sua famiglia, in fuga dalla Siria, ma ha anche cercato contatti con il nuovo governo del paese. «Abbiamo contatti con tutte le forze politiche attualmente in Siria», ha detto mercoledì la portavoce del ministero degli Esteri russo.
Il fatto che in tutte le ambasciate e i consolati siriani in Russia sia stata cambiata la bandiera da quella del regime a quella dei ribelli – e soprattutto che questo cambiamento sia stato mostrato dalla tv di stato russa – è un altro segnale. Bashar Jaafari, l’ambasciatore siriano a Mosca nominato dal vecchio regime, che per anni nel suo lavoro diplomatico aveva difeso il regime di Assad e negato i suoi crimini anche davanti all’evidenza, negli ultimi giorni ha detto che il sistema degli Assad era «corrotto» e che c’era «bisogno di cambiamento» nel paese. Queste dichiarazioni sono state riprese dalla tv russa.
In generale i media russi, che fino a poco tempo fa sostenevano il regime, ora definiscono Assad come un corrotto che ha portato la Siria alla rovina, e come l’unico responsabile della propria caduta (ovviamente non ci sono responsabilità russe nel discorso della propaganda). Benché Assad si trovi in Russia, Putin non l’ha ancora incontrato, e non è chiaro se abbia intenzione di farlo.
La ragione principale di questo cambio di atteggiamento sta nel fatto che la Russia ha grandi interessi in Siria, in particolare nelle sue basi militari. La base navale di Tartous dà alla Russia accesso al Mediterraneo, in un momento in cui la flotta russa del mar Nero è impegnata in Ucraina e si trova il passaggio verso il Mediterraneo parzialmente impedito dalla Turchia.
La base aerea di Khmeimim si trova geograficamente a metà tra la Russia e alcuni paesi africani in cui sono attivi gruppi di mercenari russi: militari russi sostenuti dal governo operano in Libia, Sudan, Repubblica Centrafricana e Mali, e grazie alla base di Khmeimim gli aerei cargo possono partire dalla Russia, fare rifornimento in Siria e poi dirigersi verso la propria destinazione in Africa.
Non è chiaro cosa succederà adesso: le immagini satellitari mostrano che la Russia non ha evacuato né Tartous né Khmeimim, perché evidentemente spera di trovare un accordo con il nuovo governo siriano. HTS per ora non ha detto se intenda mantenere i diritti di utilizzo delle basi russe che erano stati concessi da Assad. Prima ancora di conquistare Damasco, HTS aveva reso pubblico un comunicato di non belligeranza in cui sosteneva di non avere niente contro la Russia, e che se il paese avesse smesso di sostenere il regime di Assad si sarebbero potute creare delle «relazioni positive».