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  • Giovedì 12 dicembre 2024

Cosa c’è di problematico nei Mondiali di calcio in Arabia Saudita

Tante cose che la FIFA ha scelto di ignorare, dalle condizioni di lavoro dei migranti che costruiranno le infrastrutture ai molti diritti negati nel paese

I festeggiamenti a Riyad dopo l'assegnazione dei Mondiali 2034 all'Arabia Saudita (Christophe Viseux/Getty Images for Saudi Arabian Football Federation)
I festeggiamenti a Riyad dopo l'assegnazione dei Mondiali 2034 all'Arabia Saudita (Christophe Viseux/Getty Images for Saudi Arabian Football Federation)
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Mercoledì 11 dicembre l’organizzazione dei Mondiali maschili di calcio del 2034 è stata assegnata ufficialmente all’Arabia Saudita. Era una decisione ampiamente attesa, perché l’Arabia era l’unico paese rimasto: la sua candidatura è stata fortemente indirizzata, per non dire pilotata, dalle assegnazioni precedenti decise dal congresso della FIFA, la federazione internazionale del calcio. I Mondiali del 2026 si terranno infatti tra Canada, Stati Uniti e Messico, mentre quelli del 2030 sono appena stati assegnati a Spagna, Portogallo e Marocco, con le prime tre partite che si giocheranno però in Argentina, Paraguay e Uruguay per celebrare i cent’anni dalla prima Coppa del Mondo, giocata in Uruguay nel 1930.

Le regole della FIFA stabiliscono che, dopo che un paese ha organizzato i Mondiali, nessun altro paese della stessa federazione continentale possa organizzare il torneo per le due successive edizioni: per il 2034 erano di fatto escluse le federazioni nordamericana, centroamericana e sudamericana, quella europea e quella africana; rimanevano quindi solo quella asiatica e quella oceanica. Prima l’Indonesia e poi l’Australia, gli altri paesi candidati, si erano già ritirati negli anni scorsi, lasciando quindi l’Arabia Saudita come unica possibilità.

L’assegnazione all’Arabia Saudita è stata molto incoraggiata dalla FIFA e dal suo presidente Gianni Infantino, che hanno dato alla candidatura un voto di 4,2 su 5, il più alto mai registrato, ma sta ricevendo grosse critiche da più parti, e in modo più formale e organizzato da varie associazioni e organizzazioni impegnate nella tutela dei diritti umani, civili e ambientali. Le preoccupazioni principali, riportate da vari media e giornali in questi giorni, riguardano le condizioni dei lavoratori, per la quasi totalità migranti, che dovranno costruire – e in alcuni casi hanno già iniziato a costruire – le imponenti infrastrutture previste (stadi, trasporti, hotel); le forti discriminazioni che esistono nel paese verso le persone LGBT+ e le donne, l’impatto ambientale dell’evento e soprattutto di chi lo finanzia.

Il presidente della FIFA Gianni Infantino seduto tra il principe saudita Mohammed bin Salman e il presidente russo Vladimir Putin, ai Mondiali del 2018 in Russia (Pool/Getty Images)

L’Arabia Saudita è un regime autoritario nel quale, nonostante alcune recenti aperture e riforme più che altro di facciata, le libertà delle persone (soprattutto delle minoranze e delle donne) sono fortemente limitate e il dissenso viene represso. Una delle strategie attuate dal principe ereditario e primo ministro saudita Mohammed bin Salman per tentare di cambiare l’immagine del paese soprattutto all’estero è stata quella di investire tantissimi soldi nello sport. È una pratica comune a regimi autoritari odierni e del passato che oggi viene definita sportswashing: nel 2018 i Mondiali si giocarono in Russia e nel 2022 in Qatar, entrambi paesi con regimi autoritari, ma accadde lo stesso con i Mondiali del 1934 organizzati dall’Italia durante il Fascismo e con le Olimpiadi del 1936 organizzate dal regime nazista in Germania.

Lo scorso anno il quotidiano britannico Guardian scrisse che il fondo sovrano saudita (gestito dal governo e spesso citato con l’acronimo inglese PIF, Public investment fund) tra il 2021 e il 2023 aveva speso quasi 6 miliardi di euro nello sport. I Mondiali del 2034, secondo le prime stime, potrebbero costare oltre 200 miliardi di euro, ma il ritorno economico e di immagine li rende apparentemente convenienti in ogni caso per l’Arabia Saudita.

Di recente in Arabia ci sono state grosse spese nel calcio, con l’arrivo di molti calciatori dai principali campionati europei a quello arabo, tra cui Cristiano Ronaldo, Neymar e Karim Benzema; si sono disputate lì partite di tornei di altri paesi, come la Supercoppa italiana e quella spagnola. Sono stati fatti investimenti nella Formula 1 (dal 2021 si tiene un Gran Premio a Gedda), nel golf (dove l’Arabia Saudita è riuscita addirittura a creare un circuito alternativo a quello mondiale), nel tennis (con le WTA Finals e il Six Kings Slam) e nella boxe.

Cristiano Ronaldo, 39 anni, mentre assiste a un incontro di boxe in Arabia Saudita nel dicembre del 2023 (Richard Pelham/Getty Images)

Per i Mondiali del 2034, la faccenda più seria e urgente riguarda le condizioni dei lavoratori che contribuiranno all’organizzazione. Mercoledì Amnesty International, la più famosa ong che si occupa di difesa dei diritti umani, ha pubblicato un comunicato sottoscritto da 21 organizzazioni e intitolato L’assegnazione dei Mondiali del 2034 all’Arabia Saudita mette a rischio delle vite e svela quanto siano vuoti gli impegni della FIFA sui diritti umani. Nel comunicato, il responsabile dei diritti del lavoro e dello sport di Amnesty International Steve Cockburn diceva che, sulla base di prove evidenti, «la FIFA sa che i lavoratori saranno sfruttati e moriranno se non ci saranno riforme strutturali in Arabia Saudita, e tuttavia ha scelto di andare avanti nonostante tutto, rischiando di assumersi una pesante responsabilità per molte violazioni dei diritti umani che ci saranno».

Un report della ong Human Rights Watch uscito la settimana scorsa ha evidenziato che «i lavoratori migranti stanno fronteggiando abusi diffusi in tutti i settori occupazionali e le regioni. Le autorità saudite sistematicamente non riescono a proteggerli e a porre rimedio a questi abusi». Il report, fondato sulle testimonianze di 156 lavoratori o familiari di persone che lavorano in Arabia Saudita in vari settori (costruzioni, turismo, servizi di cura privati, logistica), dà per certo che ci saranno gravi violazioni dei diritti dei lavoratori nell’organizzazione di quella che l’Arabia nelle comunicazioni ufficiali ha definito «la più grande Coppa del Mondo di sempre».

In Arabia Saudita ci sono 13,4 milioni di lavoratori migranti: sono circa un terzo della popolazione del paese e vengono principalmente da paesi asiatici e africani poveri. Spesso sono costretti ad accettare condizioni pessime e retribuzioni quasi inesistenti perché legati ai loro datori di lavoro dalla controversa kafala, un istituto legislativo di alcuni paesi mediorientali che dà ai datori di lavoro il potere di decidere sul permesso di soggiorno degli impiegati e che spesso si trasforma quindi in un ricatto. Una recente inchiesta del Daily Mail (un tabloid inglese che sulle notizie sportive è considerato più affidabile rispetto ad altri ambiti) ha raccontato che alcune persone impiegate nei cantieri degli stadi già in costruzione lavorano di fatto gratis per i primi due anni e in seguito vengono pagate meno di 3 euro l’ora, pur facendo estenuanti turni di dieci ore in un clima caldissimo (la temperatura può arrivare anche a 45 gradi).

Anche il Guardian, che fu il primo giornale a rivelare che per i Mondiali in Qatar erano morti oltre 6mila migranti, la maggior parte dei quali nella costruzione degli stadi, ha riportato abusi e violazioni dei diritti dei lavoratori in Arabia Saudita. Il paese negli ultimi anni si è impegnato in cosiddetti “giga-progetti”, cioè nella creazione e costruzione di futuristiche e gigantesche infrastrutture, la più grandiosa e utopistica delle quali è una città lunga 170 chilometri che viene chiamata The Line e probabilmente non verrà mai completata. Per i Mondiali, l’Arabia ha detto di voler sistemare 4 stadi già esistenti e di volerne costruire 11 nuovi, uno dei quali proprio dentro The Line. Nonostante le testimonianze e gli avvertimenti di media e ong, nel suo report di valutazione della candidatura la FIFA ha valutato come «medio» il rischio che i diritti umani non vengano rispettati.

In Arabia Saudita i diritti di diverse minoranze sono negati. La libera espressione della sessualità delle persone omosessuali e trans è illegale, e può essere addirittura punita con la morte (nel paese infatti è ancora prevista la pena di morte e dall’inizio del 2024 sono già state eseguite oltre 300 condanne). Nel 2023 l’ente nazionale per il turismo ha aggiornato la sua risposta alla domanda «le persone LGBT possono venire a visitare l’Arabia Saudita?», stabilendo che «tutti sono benvenuti in Arabia Saudita e ai visitatori non viene chiesto di rivelare tali dati personali». Tuttavia non sono mai state date rassicurazioni ufficiali sul fatto che le persone LGBT+ provenienti dall’estero non verrebbero arrestate nel caso di particolari comportamenti e questo sta generando e genererà grosse preoccupazioni per tifosi e appassionati che vorranno andare a vedere le partite dei Mondiali.

Sui diritti delle donne ci sono stati alcuni piccoli progressi negli ultimi anni, ma nella cultura e nelle leggi del paese rimane un forte orientamento patriarcale e maschilista: nel Global Gender Gap 2024, il report annuale che misura le disparità di genere, l’Arabia Saudita è 126esima su 146 paesi esaminati. Le uniche persone legate al calcio che si sono esposte contro la crescente influenza dell’Arabia Saudita nello sport (oltre alla federazione norvegese, l’unica a non votare per l’assegnazione dei Mondiali del 2030 e del 2034) sono state un centinaio di calciatrici, attraverso una lettera scritta due mesi fa al presidente della FIFA Gianni Infantino.

L’oggetto della lettera non erano in particolare i Mondiali del 2034 ma il grosso accordo di sponsorizzazione sottoscritto in aprile tra la federazione calcistica mondiale e Saudi Aramco, la compagnia petrolifera statale saudita (un’altra testimonianza dei rapporti molto stretti tra FIFA e Arabia). L’accordo veniva definito «un dito medio al calcio femminile» ed evidenziava varie questioni controverse legate a come l’Arabia Saudita tratta le donne e le persone LGBT+. «L’annuncio da parte della FIFA di Saudi Aramco come suo partner principale ci ha riportate così indietro che è difficile accettarlo appieno», si leggeva nella lettera. Dopo l’avvenuta assegnazione della Coppa del Mondo del 2034, Infantino ha detto che alla FIFA sono consapevoli delle criticità e che sono sicuri che il paese ospitante se ne occuperà.

La questione di Aramco si lega a quella più grossa della sostenibilità ambientale, un altro punto critico dei Mondiali del 2034. Molto spesso questi grandi eventi hanno un impatto ambientale considerevole, principalmente perché vengono costruite molte nuove infrastrutture (che in diversi casi poi non vengono più utilizzate una volta finita la manifestazione) e perché arrivano e si muovono milioni di persone, la maggior parte delle quali in aereo. Per i Mondiali del 2034 però c’è in più il fatto che il grosso dei soldi che l’Arabia Saudita investirà nell’organizzazione arrivano dal petrolio, uno dei principali combustibili fossili responsabili della crisi climatica.

L’Arabia Saudita è il secondo paese produttore di petrolio al mondo (dopo gli Stati Uniti) e soprattutto basa buona parte della sua economia sul petrolio, che è responsabile di circa il 42 per cento del PIL e del 90 per cento dei guadagni delle esportazioni. La FIFA però ha indicato addirittura come «basso» il rischio per l’ambiente posto dalla candidatura dell’Arabia Saudita (e da quella per i Mondiali del 2030, che pure si terranno in tre continenti), una scelta definita «ridicola» dall’organizzazione Fossil Free Football, che si occupa di sostenibilità ambientale nel calcio.

Il fondatore Frank Huisingh ha detto che i Mondiali del 2034 «saranno estremamente inquinanti, con la costruzione di 11 nuovi stadi e moltissimi viaggi aerei. Ma soprattutto daranno un megafono a un paese che cerca disperatamente di usare il calcio per rallentare la transizione dai combustibili fossili e vendere quanto più petrolio possibile il più a lungo possibile».