I volontari italiani che soccorrono i migranti nei boschi bulgari
Fanno parte di un collettivo della provincia di Vicenza: intervengono come possono per aiutare chi si perde e per bloccare i respingimenti illegali della Bulgaria
di Valerio Clari

Il confine fra Bulgaria e Turchia è lungo 240 chilometri ed è uno dei confini esterni dell’Unione Europea, di cui la Bulgaria è membro dal 2007. Passa da lì una frequentata rotta di migranti, soprattutto da quando il passaggio dalla Turchia alla Grecia è diventato complesso da percorrere, se non impossibile. È anche una frontiera molto presidiata, dove le forze di polizia bulgare attuano frequenti e violenti respingimenti, una pratica illegale che consiste nel rimandare i migranti all’esterno dei propri confini senza permettere loro di presentare una richiesta d’asilo. È una frontiera pericolosa, circondata da fitte ed enormi foreste, dove alcuni dei migranti muoiono per le conseguenze di viaggi sfiancanti.
Su quella frontiera le ong strutturate che assistono i migranti sono poche, ma ci sono alcuni volontari, per lo più italiani, che da mesi provano ad aiutare chi è in difficoltà nei boschi. Operano fra molte difficoltà, che sembrano destinate ad aumentare, visto che quel tratto di confine diventerà ancora più militarizzato dopo l’ingresso della Bulgaria nell’area Schengen, la zona di libera circolazione di merci e persone che coinvolge quasi tutti i paesi dell’Unione Europea.
Nei giorni scorsi il governo austriaco ha infatti annunciato che avrebbe tolto il proprio veto per l’inclusione completa di Romania e Bulgaria nell’area Schengen. I ministri dell’Interno dei paesi dell’Unione Europea hanno votato giovedì e i due paesi entreranno nell’area di libera circolazione dal 1° gennaio 2025. Da marzo i controlli erano già stati aboliti per il traffico aereo e marittimo, ma rimanevano per quello via terra.
L’Austria temeva infatti che dal confine fra la Turchia e la Bulgaria potesse passare un gran numero di migranti: l’accordo raggiunto prevede che vengano impiegati 100 poliziotti provenienti da Austria, Romania e Ungheria sul confine bulgaro-turco e che la Bulgaria aumenti di 1200 unità gli agenti in servizio. Con l’“Operazione Terra” dal 2022 Frontex, agenzia di frontiera dell’UE, aveva già finanziato nuovi strumenti di controllo sul confine, che nella quasi totalità dei 240 chilometri prevede strutture fisse come muri e soprattutto reti alte tre metri con filo spinato, costruite a partire dal 2014.

Agenti di Frontex lungo il confine turco-bulgaro, ad aprile 2024 (Soeren Stache/dpa)
Collettivo Rotte Balcaniche è un gruppo di attivisti e volontari di Schio, in provincia di Vicenza, che dal 2018 porta aiuti e prova ad assistere i migranti che attraversano i Balcani su diverse rotte che coinvolgono i paesi dell’ex Jugoslavia.
Giovanni Marenda è uno dei membri del Collettivo: «Abbiamo iniziato in Bosnia e poi abbiamo seguito gli sviluppi della rotta balcanica, che negli anni è cambiata [la rotta balcanica è la via che prendono i migranti attraverso i Balcani per risalire dalla Turchia e arrivare ai paesi dell’Unione Europea, ndr]. In Serbia sentivamo molti racconti della violenza della polizia bulgara, dell’utilizzo dei cani, di respingimenti». Il Collettivo ha valutato che ci fosse un «vuoto a livello di organizzazioni e di persone che aiutassero» e quindi ha iniziato a programmare e realizzare interventi in Bulgaria, finanziati con raccolte fondi e con l’aiuto di altre associazioni.
La loro base operativa è attualmente ad Harmanli, una città da circa 18mila abitanti nella provincia di Haskovo, nel sud della Bulgaria, a 270 chilometri da Sofia e a 50 dal confine. Lì c’è uno dei più grandi campi profughi del paese, aperto dal 2013 e che può ospitare un migliaio di persone. Le condizioni di vita all’interno sono ciclicamente denunciate come problematiche: riscaldamento e cibo sono scarsi, l’igiene precaria, l’assistenza medica assente. I volontari del collettivo provano a rispondere a queste esigenze con aiuti, assistenza medica e psicologica, momenti di socialità.

Il campo di Harmanli nel 2022 (Hristo Rusev/Getty Images)
Dall’estate del 2023 a queste attività se n’è aggiunta una più complessa ma importante, che viene chiamata «safe line» e che consiste nel dare appoggio ai migranti in difficoltà e in pericolo di vita nelle foreste sui due lati del confine.
La rotta fra Turchia e Bulgaria prevede infatti un passaggio in una fitta area boschiva del parco naturale di Strandzha, fra Sredets e Malko Tarnovo, nella zona più orientale del confine: i migranti devono camminare per 4-6 giorni, fra boschi e montagne, coprendo distanze anche superiori ai 100 chilometri. A volte vengono abbandonati dai trafficanti all’inizio di questa traversata, che compiono senza acqua e cibo sufficienti, orientandosi con i segnali GPS e con sommarie indicazioni.
Alcune ong operanti in Bulgaria, come Mission Wings e Voice in Bulgaria avevano attivato una linea telefonica da chiamare in caso di emergenza. Raccoglievano segnalazioni e chiedevano assistenza medica alle autorità, ma raramente ottenevano interventi, se non della polizia di frontiera. Il Collettivo ha quindi deciso di organizzare delle squadre per andare direttamente a cercare le persone migranti smarrite nella foresta, provando a salvarle. I primi interventi sono cominciati per cercare amici o parenti di migranti presenti nel campo che chiedevano aiuto, poi sono diventati più strutturati.
Francesco Cibati è uno di questi volontari e ha partecipato all’ultima missione, durata quattro mesi dallo scorso giugno: «Di fatto quello che facciamo è un po’ il corrispettivo dei salvataggi in mare compiuti da ong molto più strutturate e finanziate nel Mediterraneo. È un’opera gigantesca, ma svolta da persone non professionali, molto giovani, armate soprattutto della propria volontà».

Le recinzioni con filo spinato al confine (Francesco Cibati)
Raccontano che, quando arriva la chiamata, un gruppo di volontari parte dal campo di Harmanli verso le coordinate fornite. Raggiunta la zona, le ricerche vengono effettuate a piedi, spesso per molte ore: i volontari hanno torce, zaini con acqua, integratori, bevande e barrette energetiche, coperte termiche, una borsa di primo soccorso. Durante la scorsa estate erano accompagnati anche da un team medico di volontari di Bologna, ma non è sempre così.
Succede che trovino persone disidratate, sfinite, affamate, sotto shock, ferite o infortunate. Alcuni migranti hanno anche raccontato che per sostenere le fatiche del viaggio e non sentire la fame, la sete e il sonno c’è chi ricorre (spesso su invito dei trafficanti) al captagon, un composto derivato da amfetamina e caffeina che era largamente prodotto e commercializzato dal regime di Bashar al Assad in Siria: passato l’effetto, i migranti non arrivati a destinazione, e che quindi non possono ricevere cure mediche, hanno un crollo fisico particolarmente pericoloso. I volontari con cui ha parlato il Post hanno raccolto queste storie, ma non le hanno potute verificare.
Dice Marenda: «Negli ultimi mesi il numero telefonico è rimasto sempre attivo e le chiamate soprattutto d’estate sono diventate più frequenti. Con l’aiuto di No Name Kitchen abbiamo realizzato almeno un’ottantina di queste operazioni di ricerca e salvataggio, per più di 300 persone. Purtroppo abbiamo trovato anche sei persone morte». Quando ricevono una chiamata, i volontari del Collettivo e di No Name Kitchen (un’associazione spagnola) chiamano anche il 112, numero unico di emergenza bulgaro, chiedendo assistenza medica: arriva quasi sempre la polizia di frontiera.

Un soccorso notturno (Francesco Cibati)
Le forze di sicurezza bulgare da un paio d’anni hanno iniziato anche a tenere il conto di quelli che definiscono «ritorni volontari verso il paese d’ingresso iniziale»: nei primi nove mesi del 2024 erano 36.663 i migranti che – dicono – spontaneamente avrebbero deciso di tornare indietro. In realtà si tratta sempre di respingimenti, e varie ong, ma anche agenti di Frontex, hanno denunciato metodi violenti, spari, migranti inseguiti dai cani, spogliati di tutto, privati dei telefoni, maltrattati e riportati con la forza oltre il confine turco. Qui, sempre all’interno della foresta e in pessime condizioni psicofisiche, rischiano ancora di più la vita.
L’intervento dei volontari ha anche l’effetto di rendere questi respingimenti illegali più complessi o impossibili. Dice Marenda: «Quando riusciamo ad arrivare prima della polizia, raccogliamo prove del fatto che siamo lì con queste persone in territorio bulgaro, e a causa della nostra presenza e testimonianza non possono più respingerli forzatamente».

Sullo sfondo le reti metalliche che separano Bulgaria e Turchia (AP Photo/Hristo Rusev)
Per questo i rapporti fra forze di sicurezza bulgare e volontari sono stati piuttosto tesi negli ultimi tempi. Il Collettivo ha denunciato almeno tre fermi e arresti, intimidazioni e uso di metodi violenti: alcuni attivisti a ottobre sono stati detenuti per una notte fra perquisizioni, umiliazioni e condizioni igieniche pessime. Non sono poi seguite azioni legali della giustizia bulgara.
Dice Cibati: «Noi siamo tranquilli perché procediamo all’interno della legalità e seguiamo una serie di regole per evitare di essere accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Non siamo un’associazione riconosciuta in Bulgaria» ma sono sostenuti da Mission Wings. Per evitare accuse legali non accompagnano o trasportano i migranti, anche se in difficoltà.
Durante i mesi invernali i tentativi di attraversare il confine sono più rari, perché le condizioni climatiche sono proibitive, e il Collettivo non ha persone e mezzi sufficienti per garantire una presenza tutto l’anno. Alcuni volontari torneranno in Bulgaria a fine anno, e poi nella prossima primavera/estate. Il futuro di quella rotta e quel confine dipenderà dalle ulteriori misure di controllo che verranno decise dalla Bulgaria e dall’Unione Europea, ma anche dalla situazione in Siria. Circa la metà dei migranti che tentavano l’attraversamento erano siriani e dopo la fine del regime le persone che lasceranno il paese potrebbero essere molte meno.



