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  • Martedì 7 ottobre 2025

Che cosa ha ottenuto Israele in due anni di guerra

Ha cambiato il Medio Oriente, ma non ha ottenuto la «vittoria totale» promessa da Netanyahu e non è mai stato così isolato

Una commemorazione del 7 ottobre 2023 nel luogo in cui si tenne il Nova Festival, attaccato da Hamas
Una commemorazione del 7 ottobre 2023 nel luogo in cui si tenne il Nova Festival, attaccato da Hamas (Chris McGrath/Getty Images)
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A due anni dall’attacco di Hamas del 7 ottobre del 2023 Israele ha cambiato il Medio Oriente. Ha iniziato una guerra nella Striscia di Gaza in cui ha ucciso 66 mila persone, di cui l’80 per cento civili, e ha distrutto o danneggiato il 90 per cento degli edifici. È stato credibilmente accusato di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità. Ha anche avviato operazioni militari contro praticamente tutti i suoi vicini: Libano, Iran, Siria, Yemen, Qatar.

Alcune di queste operazioni sono stati grossi successi e hanno consentito a Israele di distruggere o indebolire i suoi nemici. Ma non è davvero possibile dire, al momento, che abbia raggiunto gli obiettivi che si era dato dopo il 7 ottobre. Non è nemmeno chiaro se la distruzione di Gaza e gli attacchi contro vari paesi del Medio Oriente abbiano reso Israele più sicuro, come sostiene il primo ministro Benjamin Netanyahu.

Gaza
Dopo l’attacco del 7 ottobre, in cui Hamas ha ucciso più di 1.100 persone, Netanyahu ha sempre definito l’obiettivo della guerra a Gaza con due parole: «vittoria totale». Netanyahu intende due risultati separati.

Il primo è molto chiaro: riportare indietro gli ostaggi israeliani catturati da Hamas e da altri gruppi radicali palestinesi il 7 ottobre. Dei 251 ostaggi israeliani, 148 sono tornati vivi in Israele, quasi tutti grazie a scambi di prigionieri con Hamas. Israele ritiene che Hamas abbia ancora 20 ostaggi vivi, e che tutti gli altri siano morti: i loro cadaveri sono stati in parte restituiti e in parte sono ancora a Gaza. Negli ultimi giorni è in discussione una proposta di cessate il fuoco presentata dal presidente americano Donald Trump, che potrebbe portare alla liberazione di tutti gli ostaggi e alla restituzione dei corpi rimasti.

L’altro elemento della «vittoria totale» promessa da Netanyahu è più nebuloso e sfuggente. Il primo ministro israeliano ha spesso parlato di «distruggere Hamas» e di fare in modo che attacchi come quello del 7 ottobre non si ripetano mai più. Né Netanyahu, né altri membri del suo governo o dell’establishment di sicurezza israeliano hanno mai spiegato però cosa significhi «distruggere Hamas»: uccidere tutti i suoi membri? Tutta la sua leadership? Toglierle il controllo della Striscia di Gaza?

In due anni Hamas è stato indebolito pesantemente. Di fatto tutti i suoi leader sono stati uccisi, sia nella Striscia di Gaza sia all’estero. Allo stesso modo Israele ha ucciso migliaia di miliziani, ha indebolito il controllo territoriale del gruppo e la sua infrastruttura di governo. Oltre ai membri combattenti di Hamas, Israele ha ucciso poliziotti, funzionari e altre persone che lavoravano per il gruppo e che prima della guerra garantivano il mantenimento del suo potere.

Un bombardamento israeliano a Gaza, 7 ottobre 2025

Un bombardamento israeliano a Gaza, 7 ottobre 2025 (Amir Levy/Getty Images)

Hamas non è mai stato così debole, ma al tempo stesso non è stato completamente distrutto. Non è possibile dire quanti miliziani siano ancora vivi e quanti siano stati reclutati in questi due anni, ma si parla comunque di migliaia di persone. Il gruppo riesce ancora a fare azioni di guerriglia contro l’esercito israeliano. E come ha spiegato un recente report del centro studi ACLED (Armed Conflict Location and Event Data Project, che si occupa di analisi dei conflitti), continua a mantenere un parziale controllo del territorio attraverso canali informali, benché Israele abbia occupato militarmente il 75 per cento della Striscia.

Quindi Israele ha raggiunto il suo obiettivo contro Hamas? Bisogna distinguere tre piani: quello dei militari, quello di Netanyahu e quello degli estremisti religiosi rappresentati anche dentro il governo.

I militari sostengono che l’esercito israeliano abbia ormai da mesi fatto tutto quello che era possibile fare contro Hamas. Lo ha detto, secondo fonti credibili nei media israeliani, lo stesso ministro della Difesa Yoav Gallant poco prima di dimettersi lo scorso novembre: «Non c’è più niente da fare a Gaza. Gli obiettivi più importanti sono stati raggiunti. Temo che stiamo rimanendo lì [a Gaza] soltanto perché vogliamo farlo».

Lo stesso sostengono da tempo molti ex esponenti dell’establishment di sicurezza e di intelligence di Israele. Ad agosto un ampio gruppo di leader in pensione dell’esercito, del Mossad (i servizi segreti esterni), dello Shin Bet (i servizi interni) e di altre agenzie ha pubblicato un messaggio indirizzato al governo in cui sosteneva che la guerra a Gaza fosse ormai «futile», perché proseguiva anche se «sono già stati ottenuti tutti gli obiettivi militari». L’idea dell’establishment della difesa è che non sia ormai più possibile indebolire Hamas con mezzi militari, e che per proseguire (per esempio ottenere un disarmo totale del gruppo) sia più saggio fare uso della diplomazia, dell’intelligence o di altri mezzi.

Il piano militare va però separato da quello del primo ministro Benjamin Netanyahu, che nella guerra a Gaza ha interessi che vanno oltre le operazioni sul campo. Portare avanti la guerra è la condizione imposta finora al primo ministro dai suoi alleati estremisti per non far cadere il governo e mantenere Netanyahu al potere. È ormai un’idea comunemente accettata che Netanyahu in più di un’occasione abbia prolungato la guerra per preservare il proprio potere politico e per evitare i processi per corruzione a cui andrebbe incontro se smettesse di essere primo ministro.

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C’è infine il piano degli estremisti, cioè dei fondamentalisti religiosi ebraici e di ultradestra che sostengono il governo Netanyahu. Per loro l’obiettivo non è politico o militare, ma messianico: vedono nella guerra un’occasione perfetta per conquistare la Striscia di Gaza, occuparla e scacciarne la popolazione palestinese. Il loro obiettivo finale è creare un “Grande Israele”, che comprenda Gaza, tutta la Cisgiordania e perfino parte della Siria.

La destra finora ha spinto Netanyahu a rifiutare qualunque proposta di pace, ed è contraria anche a quella fatta da Trump la scorsa settimana. Sta anche portando avanti piani di occupazione militare violenta e di costruzione di nuove colonie in Cisgiordania.

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Il Medio Oriente
Portare la guerra fuori da Gaza è stata probabilmente l’operazione di maggior successo del governo di Netanyahu, che ha visto nel conflitto un’occasione storica per colpire l’“asse della resistenza” dell’Iran, cioè la rete di alleati che il più grande nemico di Israele si era costruito nel corso dei decenni. Questa rete comprendeva la milizia libanese Hezbollah, Hamas, gli Houthi in Yemen e il regime siriano di Bashar al Assad.

Nel settembre del 2024 l’intelligence israeliana ha fatto esplodere simultaneamente migliaia di cercapersone e di walkie-talkie in dotazione ai membri di Hezbollah, in un’operazione sotto copertura per molti versi eccezionale: migliaia di miliziani sono stati feriti o mutilati. Ha poi avviato una campagna di bombardamenti mirati sul Libano che ha ucciso la leadership del gruppo, e ha invaso il sud del paese, dove Hezbollah aveva le sue basi.

Hezbollah ne è uscita distrutta, militarmente abbattuta e politicamente molto debole, anche se negli ultimi mesi sta provando a riorganizzarsi.

Netanyahu mostra i nemici di Israele all'Assemblea generale dell'ONU, 26 settembre 2025

Netanyahu mostra i nemici di Israele all’Assemblea generale dell’ONU, 26 settembre 2025 (AP Photo/Richard Drew)

L’indebolimento di Hezbollah è stato un fattore importante nel crollo del regime del dittatore Bashar al Assad in Siria. Israele non ha avuto un ruolo diretto nell’offensiva dei gruppi armati che in undici giorni a dicembre hanno rovesciato il regime. Ma fino a quel momento Hezbollah e l’Iran erano sempre stati i garanti militari e politici di Assad. Con uno indebolito e l’altro distratto, Assad è rimasto senza difese.

Israele ha poi trascorso gran parte del 2025 in una campagna contro l’Iran, il suo principale nemico regionale, che è culminata a giugno nella “guerra dei dodici giorni”: una serie di bombardamenti contro la capitale iraniana Teheran e contro i siti del programma nucleare iraniano, a cui hanno partecipato anche gli Stati Uniti. C’è un certo scetticismo sul fatto che, come ha sostenuto Trump, il programma nucleare iraniano sia stato distrutto. È innegabile però che l’Iran sia stato indebolito.

Israele inoltre bombarda periodicamente gli Houthi in Yemen; e a settembre ha bombardato un edificio a Doha, in Qatar, dove si trovavano dei negoziatori di Hamas, benché il Qatar abbia sempre avuto un ruolo neutrale nel conflitto.

Israele ha effettivamente indebolito i suoi avversari, ma bombardare mezzo Medio Oriente ha anche allungato la lista dei suoi nemici.

Dentro a Israele
Due anni di guerra hanno fatto emergere in Israele forti dubbi sull’operato del governo e hanno in parte logorato l’esercito e la popolazione. Oggi le manifestazioni di protesta provenienti da ambienti militari nei confronti di Netanyahu sono numerose, Israele fa fatica a trovare riservisti e sempre più persone si rifiutano di arruolarsi nell’esercito.

A livello di società, ormai da mesi l’opinione pubblica israeliana chiede la fine della guerra. La statistica più notevole, forse, riguarda il fatto che nel 2024 circa 83 mila israeliani sono emigrati dal paese. È il 50 per cento in più rispetto all’anno precedente.

Proteste pro Palestina a Roma, 3 ottobre 2025

Proteste pro Palestina a Roma, 3 ottobre 2025 (AP Photo/Alessandra Tarantino)

Fuori da Israele
La distruzione di Gaza e il modo senza controllo in cui Israele ha bombardato i suoi vicini hanno isolato il paese a livelli che non si vedevano da decenni.

Sul piano diplomatico, numerosi paesi occidentali hanno riconosciuto lo stato di Palestina, una mossa simbolica ma importante che sarebbe stata impensabile due anni fa. Anche i più fedeli alleati di Israele, come gli Stati Uniti, hanno spesso mostrato segni di impazienza nei confronti di Netanyahu. Sul piano dell’opinione pubblica, la popolarità di Israele è ai minimi.

È possibile che dopo un’eventuale fine della guerra, forse con un differente governo, Israele riuscirà a recuperare la fiducia e la popolarità perdute. Ma è anche possibile che sul lungo periodo la ferocia e l’aggressività mostrate da Israele rimangano un problema per la sua leadership. In questi due anni Israele si è imposto come la principale e unica potenza militare del Medio Oriente. Non è detto che in futuro gli altri paesi della regione vorranno accettare questa situazione.

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