Quando c’era Yasser Arafat
Il primo e unico leader palestinese a firmare un accordo di pace con Israele morì 20 anni fa, ma prima aveva già rischiato molte volte
Yasser Arafat, primo e ultimo leader palestinese a firmare un accordo di pace con Israele (gli accordi di Oslo nel 1993), morì 20 anni fa, l’11 novembre del 2004, in un ospedale di Clamart, un sobborgo di Parigi. Fu fondatore di Fatah e il primo presidente dell’Autorità palestinese, istituzione che allora sembrava poter essere la base per la nascita di uno stato palestinese indipendente. Fu anche un politico controverso, per lungo tempo accusato da Israele e Stati Uniti di essere il leader di un’organizzazione terroristica.
Le cause della morte di Arafat rimangono ancora oggi non chiare, nonostante varie inchieste, la riesumazione del cadavere nel 2012 e tre diverse perizie.
Arafat nacque al Cairo, in Egitto, il 24 agosto del 1929, da genitori palestinesi: aveva sei fra fratelli e sorelle e suo padre era un commerciante di tessuti, con buone disponibilità economiche. Negli anni sostenne di essere nato in realtà alcuni giorni prima a Gerusalemme e di avere legami con la famiglia al-Ḥusayni, che ebbe un ruolo nella storia palestinese durante il protettorato britannico. La maggior parte degli storici ritiene però queste due affermazioni non vere.
Al Cairo studiò e si laureò in ingegneria. Fu arrestato nel 1954 perché sostenitore del movimento dei Fratelli Musulmani, e poi fu arruolato nell’esercito e impiegato durante la crisi di Suez (che nel 1956 oppose l’Egitto a Israele). Nel 1957 si trasferì in Kuwait, dove all’interno della comunità palestinese fu fra i fondatori di Fatah.
L’idea principale di Fatah era che la liberazione della Palestina sarebbe arrivata per iniziativa della popolazione palestinese, e non – come opinione comune allora – in seguito alla creazione di un grande stato unitario arabo, che andasse almeno dall’Egitto alla Siria. Un altro principio base di Fatah era la lotta armata, sul modello dei movimenti per l’indipendenza dell’Algeria (dalla Francia). A partire dal 1964 l’organizzazione attuò operazioni militari anche in Israele, portate avanti dai cosiddetti fedayn, guerriglieri. Fatah si ispirava anche a principi socialdemocratici: anche per questo ottenne in seguito l’appoggio di parte della sinistra internazionale.
Nel 1964 fu fondata l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), in cui coesistevano Fatah (con un ruolo preminente), e altri movimenti di liberazione palestinesi, più radicalmente islamici o sostenuti da paesi stranieri, come Siria e Iraq. Arafat ne divenne leader nel 1969.
Dal 1967 al 1970 Fatah ebbe per lo più sede in Giordania, dove crebbe di importanza. Fu attaccata da operazioni di ritorsione israeliane e divenne “scomoda” per il re giordano Hussein, che decise di utilizzare l’esercito contro i membri di Fatah per scacciarli dal territorio: lo scontro militare fra forze giordane e Fatah fu vinto dalle prime, e i fedayn furono costretti a trasferirsi in Libano, che divenne la base principale del movimento fino al 1982.
In Giordania Arafat era già sfuggito ad almeno un paio di tentati omicidi organizzati da Israele e dalla Giordania: questa sua capacità di sopravvivere ai tentativi di ucciderlo divenne negli anni quasi leggendaria. Israele e i nemici interni ci provarono molte altre volte, senza riuscirci: Arafat era molto prudente (si raccontava non dormisse mai due notti di seguito nello stesso letto), molto protetto e in più di una occasione fu molto fortunato. Per tanti anni fu celibe: disse di aver sposato «la causa palestinese». Nel 1990, quando aveva 61 anni, sposò invece la ventisettenne palestinese di religione cristiana Suha Tawil, da cui nel 1995 ebbe l’unica figlia naturale, Zahwa (negli anni precedenti aveva ufficialmente adottato 50 orfani di guerra palestinesi).
Negli anni l’OLP ottenne riconoscimenti internazionali e divenne unica rappresentante riconosciuta come legittima della causa palestinese. Arafat sviluppò rapporti stretti con il leader comunista cubano Fidel Castro, con quello libico Muammar Gheddafi, e anche con il dittatore iracheno Saddam Hussein, che sostenne anche nel 1990 quando l’Iraq invase il Kuwait. L’OLP ebbe anche legami più o meno stretti con Settembre Nero, gruppo terrorista autore di vari attentati, fra cui il massacro dell’Olimpiade di Monaco del 1972, ma Arafat seppe anche accreditarsi come interlocutore credibile presso molti paesi democratici ed europei, compresi l’Italia e la Francia.
In Libano l’OLP accrebbe il suo controllo del territorio. Assieme ad altri gruppi islamici verso la fine degli anni Settanta governava militarmente ormai tutto il sud del paese e la parte ovest della capitale Beirut: gli scontri con Israele furono sempre più frequenti e portarono a due invasioni del Libano da parte dell’esercito israeliano, nel 1978 e nel 1982. Durante la seconda, Israele assediò Beirut, dove Arafat aveva il suo quartier generale, e impose la rimozione dei miliziani dell’OLP come condizione per il ritiro. Arafat spostò quindi la sua base a Tunisi (fino al 1993), dove nel 1985 sfuggì per caso a un altro tentativo di ucciderlo, un bombardamento israeliano.
Dopo l’intifada del 1987, una sollevazione di massa violenta della popolazione contro Israele, l’OLP dichiarò la nascita dell’autoproclamato Stato Palestinese, che fu riconosciuto da 25 paesi, fra cui Unione Sovietica ed Egitto: di pari passo Arafat ripudiò ufficialmente «ogni forma di terrorismo», annunciò un percorso per l’abbandono della lotta armata e riconobbe una risoluzione dell’ONU che ribadiva il «diritto a Israele ad esistere in pace e sicurezza».
Furono i passi preliminari per un processo di pace che portò agli accordi di Oslo del 1993, mediati dagli Stati Uniti: tra le altre cose Israele riconobbe all’OLP il diritto di governare su alcuni dei territori occupati, mentre l’OLP riconobbe il diritto di Israele a esistere e rinunciò formalmente alla lotta armata per la creazione di uno stato palestinese. Rimasero invece incerti lo status giuridico di Gerusalemme, che entrambi i paesi rivendicavano come propria capitale, e il destino degli insediamenti dei coloni israeliani in Cisgiordania. Per quegli accordi Arafat ricevette insieme al primo ministro israeliano Ytzhak Rabin e a Shimon Peres, all’epoca ministro degli Esteri di Rabin, il premio Nobel per la Pace (ottobre 1994).
Negli anni seguenti però crebbe un generale scetticismo sulle reali possibilità di arrivare a una pace stabile. Israele accusò Arafat di sostenere gruppi che continuavano la lotta armata, nel 1995 un religioso ebreo uccise Rabin e nel 1996 il partito di destra Likud vinse le elezioni israeliane. Nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania il governo di Arafat non seppe esercitare una reale autorità sui territori controllati, né creare le strutture di uno stato stabile. Questo finì col favorire la crescita di potere e influenza del movimento radicale Hamas, mentre Arafat perdeva via via centralità nel panorama politico.
Negli ultimi anni Arafat fu accusato di aver accumulato beni personali molto ingenti: media esteri e i servizi israeliani sostennero che almeno parte di un patrimonio da 1 miliardo di dollari fosse frutto di appropriazione di beni pubblici. Le accuse non furono mai provate né ebbero mai seguiti legali e Arafat peraltro visse sempre in modo piuttosto morigerato. È invece ampiamente documentata la corruzione di molti esponenti dell’OLP e del governo dell’Autorità palestinese.
Il fallimento di nuovi negoziati di pace nel 2000 e l’inizio di una nuova intifada portarono di fatto all’estromissione dal potere di Arafat, completata nel 2003 con la nomina di Abu Mazen come nuovo primo ministro dell’Autorità palestinese.
Nel 2004 Israele accusò Arafat di aver sostenuto alcuni attacchi terroristici e l’esercito isolò il complesso presidenziale di Muqataa a Ramallah (Cisgiordania), dove viveva dal 1993. Le sue condizioni di salute non erano buone da tempo, ma in quei giorni peggiorarono: fu trasferito prima in Giordania, poi in Francia per essere curato, per un’influenza e una trombocitopenia (il numero delle piastrine del suo sangue era molto basso). In Francia gli fu diagnosticata una grave patologia al sangue, il 3 novembre entrò in coma, l’11 morì.
Fu sepolto come “martire” a Ramallah e molti esponenti palestinesi (e non solo) accusarono Israele di averlo avvelenato. Nel 2013, dopo la riesumazione del corpo, tre contemporanee indagini furono svolte da team di esperti: quella svizzera arrivò alla conclusione che esisteva «l’83 per cento di possibilità» che fosse stato avvelenato col polonio, quella francese ritenne i livelli di polonio compatibili con una contaminazione proveniente dal terreno e valutò come più probabile la morte naturale, quella russa non rilevò tracce di polonio.