Fabio Ridolfi ha scelto la morte con la sedazione profonda

Benché avesse i requisiti per accedere al suicidio assistito, dopo i ritardi e l'ostruzionismo dell'azienda sanitaria marchigiana

Un fermo immagine del video appello di Fabio Ridolfi, 18 maggio 2022 (ANSA/YOUTUBE)
Un fermo immagine del video appello di Fabio Ridolfi, 18 maggio 2022 (ANSA/YOUTUBE)
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Fabio Ridolfi, un uomo di 46 anni da 18 immobilizzato a causa di una patologia irreversibile, ha deciso con un messaggio reso pubblico di morire tramite la sedazione profonda e continua, pratica prevista dalla legge sul testamento biologico del 2017. Ridolfi aveva chiesto all’Azienda sanitaria delle Marche di poter accedere al suicidio assistito, in base alla sentenza del 2019 della Corte Costituzionale sul caso di Fabiano Antoniani, più noto come dj Fabo, ma benché sia stato stabilito che Ridolfi abbia i requisiti per accedere legalmente al suicidio assistito, non è mai stato indicato un parere sul farmaco e sulle relative modalità della sua somministrazione.

Fabio Ridolfi è nato il 5 di marzo del 1976 a Chieri, in provincia di Torino, e da piccolo si è trasferito con la famiglia nelle Marche. Nel 2004, poco prima di compiere 28 anni, durante una cena ebbe un malore improvviso che gli provocò dapprima una perdita immediata dell’equilibrio, poi l’intorpidimento di tutto il lato sinistro del corpo. Gli fu diagnosticata una tetraparesi da rottura dell’arteria basilare, una patologia irreversibile che lo ha portato da lì in poi a essere immobilizzato a letto, senza poter muovere nessuna parte del corpo se non gli occhi, con cui comunica grazie a un puntatore oculare. Nonostante i vari tentativi di riabilitazione non è migliorato e ha rinunciato anche alla fisioterapia.

Con il sostegno dell’associazione Luca Coscioni, lo scorso 10 gennaio Ridolfi aveva inviato una richiesta all’Azienda sanitaria Unica Regionale delle Marche (ASUR) chiedendo una verifica delle proprie condizioni per poter poi accedere al suicidio medicalmente assistito nel rispetto della sentenza della Corte costituzionale secondo la quale chi aiuta una persona a suicidarsi non è punibile a patto che siano rispettate alcune condizioni: che il paziente sia «tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale», che sia «affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili» e che sia «pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».

L’Azienda sanitaria marchigiana, a fine febbraio, aveva verificato queste condizioni inviando poi il 15 marzo la propria relazione medica al Comitato Etico, un organismo indipendente formato da medici e psicologi che ha la responsabilità di garantire la tutela dei diritti dei pazienti. Il Comitato aveva emesso il proprio parere l’8 aprile: nel documento finale, si dice che Ridolfi rientra nei parametri stabiliti dalla Consulta per potere accedere al suicidio assistito.

Nonostante i ripetuti solleciti, la comunicazione con l’esito era però arrivata 40 giorni dopo, a metà maggio, e dopo un nuovo appello di Ridolfi. Ed era comunque incompleta perché non diceva nulla sulle modalità di attuazione e sul farmaco da usare affinché la volontà e a quel punto il diritto di Ridolfi potessero essere rispettati.

A fine maggio, Ridolfi aveva diffidato l’Azienda sanitaria delle Marche a effettuare in tempi brevissimi le dovute verifiche sul farmaco da utilizzare. L’Azienda, però, non ha mai risposto alla diffida. Decorsi i termini, tramite i suoi legali Ridolfi avrebbe potuto procedere con un’azione penale per omissione di atti d’ufficio.

Il 6 giugno, Ridolfi ha invece scelto di non proseguire nella battaglia legale, ma di accedere alla sedazione profonda e continua: «Da due mesi la mia sofferenza è stata riconosciuta come insopportabile. Ho tutte le condizioni per essere aiutato a morire. Ma lo Stato mi ignora. A questo punto scelgo la sedazione profonda e continua anche se prolunga lo strazio per chi mi vuole bene», ha fatto sapere.

L’accesso alla sedazione profonda e continua prevede che la persona coinvolta revochi il consenso ai trattamenti di idratazione e nutrizione artificiali. Dopodiché si procede con la sedazione e vengono staccati i trattamenti di sostegno vitale, cosa consentita in Italia dalla legge 219 del 2017. Tendenzialmente questa procedura avviene a casa o in un hospice, con l’assistenza di un medico: nel caso di Ridolfi, dicono dall’associazione Coscioni, si sta ancora decidendo come procedere.

La differenza sostanziale tra la sedazione profonda e continua e il suicidio assistito sono i tempi: con quest’ultimo la morte è immediata, mentre con la sedazione profonda e continua il percorso che porta alla morte può durare anche diversi giorni.

«Ogni giorno che passa per Fabio è un giorno di sofferenza in più, per questo ha deciso di non voler più aspettare e di procedere con la sedazione profonda e con la sospensione dei trattamenti di sostegno vitale. È da oltre due mesi che aspetta e l’ASUR continua a ignorare la sua richiesta, dopo aver tenuto per 40 giorni in un cassetto un parere che affermava la presenza dei requisiti per accedere legalmente al suicidio assistito. Non possiamo non notare anche il silenzio assoluto della politica nazionale, impegnata nell’insabbiamento al Senato del testo di legge sull’aiuto al suicidio, dopo che la Corte costituzionale ha impedito al popolo di esprimersi sul referendum», ha scritto in un comunicato stampa l’associazione Coscioni.

L’autorizzazione concessa dall’Azienda sanitaria marchigiana è possibile grazie a una sentenza della Corte Costituzionale che nel settembre del 2019 si era espressa sul caso di Marco Cappato, il politico e attivista dell’associazione Luca Coscioni che era stato accusato – in base all’articolo 580 del codice penale – di avere aiutato a suicidarsi Fabiano Antoniani, più noto come dj Fabo, rimasto paralizzato e cieco dopo un incidente.

La Corte aveva stabilito che, a determinate condizioni, l’assistenza al suicidio non fosse punibile; e che la pratica di assistenza al suicidio non è equiparabile all’istigazione al suicidio (equiparazione che fa invece l’articolo 580 del codice penale). La sentenza non interveniva direttamente sul diritto al suicidio assistito, quindi, ma su chi sceglie di aiutare coloro che hanno deciso di morire. Indirettamente, però, la sentenza ammetteva il suicidio assistito in condizioni molto circoscritte, e chiamava in causa su questo tema il Servizio sanitario nazionale. Spetta quindi alle strutture sanitarie pubbliche verificare le condizioni in cui è ammesso il suicidio assistito.

Va precisato che il suicidio assistito non equivale all’eutanasia: nel suicidio assistito, infatti, il farmaco necessario a uccidersi viene assunto in modo autonomo dalla persona malata. Nell’eutanasia, invece, il medico ha un ruolo fondamentale: nell’eutanasia attiva somministra il farmaco, in quella passiva sospende le cure o spegne i macchinari che tengono in vita la persona. In Italia non ci sono leggi che regolamentino l’eutanasia attiva e il suicidio assistito, ma solo la sentenza della Corte Costituzionale sul caso Cappato. L’eutanasia passiva, invece, dal 2017 è regolata dalla legge sul testamento biologico.

L’eutanasia attiva era alla base della proposta di un referendum che è stato però giudicato inammissibile dalla Corte Costituzionale. Proponeva di abrogare una parte dell’articolo 579 del codice penale, quello che punisce l’omicidio del consenziente: in questo modo sarebbe stata permessa l’eutanasia attiva, che avviene quando il medico somministra il farmaco necessario a morire, e che è attualmente illegale in Italia.