Draghi ha cambiato le cose con la Cina

Ha riportato l'Italia nell'ambito delle alleanze tradizionali, dopo che il governo Conte era andato un po' troppo vicino al regime cinese

Il presidente del Consiglio Mario Draghi al summit della NATO a Bruxelles lo scorso giugno (AP Photo/Patrick Semansky, Pool)
Il presidente del Consiglio Mario Draghi al summit della NATO a Bruxelles lo scorso giugno (AP Photo/Patrick Semansky, Pool)
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Da qualche anno le relazioni tra l’Occidente e la Cina sono diventate uno degli elementi più importanti della politica estera mondiale. Seppure con varie posizioni a seconda dei governi, l’Occidente ha individuato nella Cina un “avversario strategico” e ha avviato una rivalutazione complessiva dei rapporti in senso più competitivo e assertivo, anche se aperto alla cooperazione in numerosi campi.

Ma mentre buona parte dei paesi occidentali si è adattata a questo nuovo stato di cose, l’atteggiamento dell’Italia è stato spesso incerto e ondivago: sotto il primo governo di Giuseppe Conte, in particolare, l’Italia aveva assunto una posizione di vicinanza esplicita alla Cina inedita per l’Europa occidentale, che aveva preoccupato gli alleati, soprattutto dopo che era stata il primo e unico paese del G7 a firmare il “memorandum d’intesa” dell’iniziativa “Belt and Road”, cioè l’ampio progetto cinese che prevede grandi investimenti su infrastrutture in tutto il mondo (spesso chiamato anche “nuova via della seta”). Il “memorandum d’intesa” era un documento di valore in gran parte simbolico che però segnalava l’adesione dell’Italia a un grande progetto di espansione dell’influenza della Cina nel mondo.

Questa posizione filocinese è stata modificata in parte verso la fine del secondo governo Conte, e più decisamente con l’arrivo del governo Draghi: secondo molti osservatori, pur senza fare annunci espliciti, negli ultimi mesi Draghi ha reso evidente con diverse decisioni sia diplomatiche sia di politica economica che l’Italia è tornata ad allinearsi alle posizioni del resto dell’Europa occidentale: «convintamente atlantista ed europeista», come ha detto lui stesso nel discorso d’insediamento alle Camere.

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Conte
I rapporti con la Cina diventarono un elemento controverso della politica estera italiana con l’avvento del primo governo Conte, sostenuto da Movimento 5 Stelle e Lega, due partiti populisti entrambi con poca esperienza in politica estera e non allineati alle alleanze tradizionali dell’Italia. Il leader della Lega, Matteo Salvini, espresse ammirazione nei confronti dell’autocrate russo Vladimir Putin, mentre il garante del M5S, Beppe Grillo, sul suo blog pubblicò più volte interventi secondo cui l’Italia avrebbe dovuto allentare i legami storici con l’Occidente per cogliere le opportunità economiche e politiche offerte dalla Cina.

La figura più importante in questa circostanza fu Michele Geraci, un esperto di Cina che ha insegnato Finanza in diverse università cinesi e che fu nominato sottosegretario allo Sviluppo economico con delega al commercio internazionale – in pratica, la persona che deve coordinare le attività di promozione e sviluppo del commercio italiano nel mondo. Geraci, nominato come indipendente e inizialmente entrato nel governo su spinta della Lega, in poco tempo si avvicinò al M5S, si circondò di altri esperti di Cina (scelta non convenzionale: di solito un funzionario si circonda di persone esperte in campi diversi dal proprio) e concentrò la gran parte delle risorse del suo ufficio sulla promozione dei commerci con la sola Cina.

Teoricamente, l’obiettivo del primo governo Conte era quello di trasformare l’Italia in un ponte tra Occidente e Cina, senza rinnegare le alleanze storiche ma mettendosi in una posizione privilegiata per approfittare dell’enorme potenziale del mercato cinese. Nella pratica, però, questa politica si tradusse in una serie di atti di ossequio nei confronti della Cina che preoccuparono molto gli Stati Uniti e gli altri paesi dell’Unione Europea.

Il principale di questi atti fu proprio la firma del memorandum sulla “Belt and Road Initiative”, il grande progetto infrastrutturale annunciato dal presidente cinese Xi Jinping nel 2013, che prevede l’investimento di centinaia di miliardi di dollari in vari paesi con l’obiettivo esplicito di rafforzare le infrastrutture commerciali nel mondo, e con quello implicito di espandere l’influenza della Cina su numerosi paesi tra Africa, Asia ed Europa.

L’Italia, fin da prima del governo Conte, aveva accolto abbastanza calorosamente il progetto cinese (Paolo Gentiloni, da presidente del Consiglio, nel 2017 fu l’unico leader di un paese del G7 a partecipare al Belt and Road Forum, il grande evento internazionale legato al progetto, e in generale diversi governi italiani del passato, tra cui quelli di Romano Prodi e di Massimo D’Alema, ebbero rapporti eccellenti con la Cina), ma come gli altri paesi europei aveva cercato di tenere separata la parte delle opportunità commerciali e quella dell’influenza politica.

Con il governo Conte questa distinzione venne in gran parte meno, e il problema divenne evidente nel marzo del 2019, quando il ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio, durante una visita molto coreografata di Xi Jinping in Italia, firmò il memorandum d’intesa sulla Belt and Road Initiative. Il documento non aveva un valore legale, né costituiva un accordo economico che impegnava le due parti qualche modo: aveva soprattutto un valore politico e simbolico, che segnalava per la prima volta l’adesione di un paese del G7 al grande progetto cinese.

L’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte con il presidente cinese Xi Jinping al G20 di Osaka, in Giappone, nel 2019 (ANSA/Filippo Attili/Ufficio Stampa Palazzo Chigi)

In quel periodo, l’Italia prese altre decisioni che furono percepite come favorevoli alla Cina: tra le altre cose, si disse contraria a un meccanismo di controllo degli investimenti cinesi da approvare a livello di Unione Europea, fu molto ambigua nella reazione alla repressione cinese contro le proteste per la democrazia a Hong Kong e andò molto vicina a votare il candidato della Cina alla guida dell’Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale (WIPO), contro il parere di tutti gli alleati.

Ma fu soprattutto la decisione di firmare il memorandum sulla Belt and Road a essere criticata. La firma ebbe alcune conseguenze a livello diplomatico (in quegli anni il governo non fu invitato a diverse riunioni tra leader europei in cui si parlava di Cina) e soprattutto gravi conseguenze a livello di rapporti internazionali, perché gli alleati storici cominciarono a considerare l’Italia come sempre meno affidabile: come scrisse Politico, gli alleati consideravano l’Italia come «l’anello debole della catena» nello scontro di potere con la Cina.

A due anni di distanza, inoltre, il memorandum non ha portato praticamente nessun beneficio economico: Di Maio e Geraci avevano promesso che con l’adesione alla Belt and Road le opportunità commerciali per l’Italia sarebbero aumentate, ma nel 2020 la bilancia commerciale tra Cina e Italia, cioè la differenza tra i beni comprati dall’Italia e quelli comprati dalla Cina, si è aggravata, e il valore dei beni cinesi importati è aumentato.

Giovanni Andornino, docente di Relazioni internazionali dell’Asia orientale all’Università di Torino e vicepresidente del centro studi Torino World Affairs Institute, ritiene che la firma del memorandum sia stato un «passo falso strategico». Operazioni come l’accordo sulla Belt and Road Initiative «richiedono forti presupposti politici e segnali credibili e coerenti nel tempo ad alleati e partner». Questo è un problema per un paese ad alta volatilità parlamentare come l’Italia: «Priva com’è di solide agende bipartisan anche sulle grandi questioni internazionali, l’Italia non è oggi nelle condizioni di valorizzare in modo coerente operazioni di questo tipo, nonostante l’eccezionale professionalità del suo corpo diplomatico».

Ivan Scalfarotto, politico di Italia Viva e sottosegretario al ministero dell’Interno, che nei governi di Matteo Renzi e di Paolo Gentiloni era stato sottosegretario allo Sviluppo economico (la carica che poi sarebbe stata presa da Geraci con l’arrivo del governo Conte) è molto più duro. Per lui la firma del memorandum è stata «il più grave errore di politica estera dell’Italia probabilmente negli ultimi 30 anni, del quale abbiamo pagato le conseguenze per lungo tempo».

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Draghi
L’atteggiamento vicino alla Cina del governo Conte, e in particolare del Movimento 5 Stelle, cominciò a mutare con la nascita del Conte II. Geraci non fu riconfermato come sottosegretario e soprattutto Di Maio, che nel frattempo era diventato ministro degli Esteri, cominciò ad assumere posizioni sempre più in linea con la tradizione atlantista e filo occidentale della politica estera italiana, criticando anche la Cina su argomenti come la repressione delle proteste a Hong Kong, cosa che fino a un anno prima aveva evitato di fare.

La vera svolta è arrivata con il governo Draghi, che fin dall’inizio del suo mandato ha messo in chiaro che l’Italia sarebbe tornata all’atlantismo e all’europeismo di sempre – anzi, probabilmente con qualche elemento di competizione in più. Draghi l’ha fatto tramite alcuni gesti diplomatici: per esempio, al G7 del mese scorso ha sostenuto con convinzione le politiche degli Stati Uniti per contrastare l’avanzata dell’influenza cinese, compreso un piano infrastrutturale esplicitamente in concorrenza con la Belt and Road.

Come ha notato il Financial Times, la discontinuità più importante Draghi l’ha probabilmente segnata con alcune decisioni poco appariscenti di politica economica. La più importante è stata la decisione presa a marzo di bloccare (tramite un meccanismo chiamato “Golden Power”, che in pratica dà al governo il potere di intervenire su acquisizioni in settori strategici) l’acquisizione da parte di una compagnia cinese di LPE, una piccola azienda del milanese con una settantina di dipendenti che è attiva nell’importantissimo settore dei microprocessori. I microchip ormai da alcuni anni sono al centro di un’importante competizione tecnologica tra Occidente e Cina, e la decisione di Draghi di intervenire su questo settore è stata vista come un segnale importante del fatto che l’Italia ha abbandonato del tutto la posizione di ossequio nei confronti della Cina.

Ci sono state altre mosse simili: ad aprile il governo, assieme a quello francese, ha avuto un ruolo nel bloccare l’acquisizione dell’azienda produttrice di veicoli industriali Iveco a un gruppo cinese. E, come fatto da altri governi europei, ha usato il Golden power per imporre condizioni molto severe all’utilizzo di componenti prodotti dall’azienda cinese Huawei nella costruzione della rete 5G.

Questo non significa tuttavia che l’Italia abbia assunto una posizione belligerante, anzi. I rapporti con la Cina rimangono buoni, ma il governo ha recuperato la distinzione tra rapporti commerciali e rapporti politici che si era persa con il primo governo Conte. «Come ha detto il segretario di Stato americano Anthony Blinken, la Cina per alcune cose è un avversario sistemico, per altre un rivale e per altre ancora un partner importante», dice Scalfarotto.

«Il governo Draghi si è riallineato ai rapporti tradizionali nell’ambito delle alleanze occidentali, e questo segna una notevole discontinuità con il governo Conte», dice Mario Boselli, presidente della Fondazione Italia Cina, un’associazione che ha l’obiettivo di facilitare le attività commerciali italiane in Cina. «In ambito commerciale, invece, i rapporti non hanno mai smesso di essere molto positivi».