“Mettiamo che io sia un tunisino”

Adriano Sofri e i privilegi che saremmo condannati a perdere, il giorno che arrivasse davvero "l'invasione"

Adriano Sofri su Repubblica scrive di migranti e di immigrazione, e spiega che l’atteggiamento accogliente – dalla criticata definizione “buonista” – in realtà è anche l’atteggiamento più conveniente, se si guarda un po’ più lontano del proprio naso.

Mettiamo che io sia un tunisino di vent’anni su uno spiazzo di Lampedusa. Aspetto di essere imbarcato ma sotto il maestrale il mare urla e biancheggia. La polizia ci ha tolto, uno per uno, le cinture dei calzoni e i lacci delle scarpe. (Dove le metteranno? Ce le restituiranno?).

Perché ce le tolgono? Come potremmo minacciarli con i lacci da scarpa? Forse vogliono impedirci di impiccarci. Ma allora sta per succedere qualcosa di così terribile che vorremo suicidarci? In ogni caso, è davvero umiliante essere spogliati dei lacci e restare coi pantaloni in mano.
Mettiamo che io sia un poliziotto di vent’anni e stia ritirando lacci e cinture a questi tunisini, ragazzi per lo più, che continuano a dire “Italia Italia” e “Libertà libertà”. Mi hanno mandato qua – avrei voluto venirci in vacanza – e da 48 ore stiamo occupandoci, senza dormire e mangiando male, di questi disgraziati che non mangiano e non dormono. Pare che, una volta salpati, li porteremo indietro a loro insaputa in Tunisia. Sarà per questo che gli leviamo cinture e lacci, perché non si impicchino per disperazione. Ma se si immagina che possano farlo, che cos’altro si deve aspettarsi che facciano?

Mettiamo che io sia un abitante di Lampedusa, non so, un pescatore. Non ho niente, davvero, contro questi spiaggiati. Le loro facce mi sono familiari, con tanti di loro ho parlato. So quanti se ne perdono in questo mare di annegati. So che vengono a cercare l’Italia, l’Europa, e l’Europa e l’Italia li fermano qui, a Lampedusa,
e la mia isola diventa una zattera alla deriva che affonda sotto il peso dei suoi naufraghi, e nessuno vuole soccorrerla.

Mettiamo che io sia io. Mi è facile (all’inizio, almeno) mettermi nei panni di un ragazzo tunisino o di un poliziotto in trasferta a Lampedusa. Nei panni miei, mi chiedo costernato come siamo arrivati a questo punto. Dopotutto, sono sì e no due mesi. Si è gridato all’invasione, all’Europa indifferente, e si è lasciato che l’alta marea di persone sommergesse Lampedusa, giorno dietro giorno, fino a devastarne la vita quotidiana, e abbandonando all’indecenza i nuovi arrivati.

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