Genova è troppo vecchia, troppo lenta, troppo isolata

E quindi la più grande preoccupazione dei candidati è attirare giovani e convincere i genovesi a non emigrare

di Isaia Invernizzi

Genova
(Pablo Castagnola/Anzenberger/contrasto)
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Negli uffici di Ericsson non si sono sorpresi più di tanto quando lo scorso aprile l’azienda ha presentato un nuovo piano di licenziamenti: negli ultimi anni ce ne sono stati così tanti – 27, nel senso di 27 diversi piani di licenziamenti – che per i lavoratori non è facile tenere il conto. Se anche questo verrà confermato, altre 16 persone lasceranno la sede del parco scientifico e tecnologico di Genova sulla collina degli Erzelli, nel quartiere di Cornigliano. Qui fino a una decina d’anni fa i dipendenti erano circa 900, oggi sono 380.

Nel novembre del 2006, quando l’ultimo di 40mila container ammassati da anni sulla collina fu rimosso per lasciare spazio ai cantieri di nuovi palazzi e uffici, agli Erzelli le aspirazioni erano molto diverse. C’era più ottimismo. Tra i politici e gli imprenditori genovesi c’era soprattutto la convinzione che lo sviluppo del parco tecnologico avrebbe portato di lì a poco nuovi investimenti e rilanciato l’intera città da tempo in crisi, scoraggiata e per certi versi impotente dopo lo smantellamento delle grandi industrie. Tutto questo non è successo, non ancora almeno.

Diversi studi economici e demografici raccontano Genova come una città “laboratorio”, dove già oggi è possibile osservare derive sociali attese in molte altre città italiane. Su tutte: l’invecchiamento della popolazione, lo spopolamento e l’incapacità di trattenere i giovani.

È una città che come altre ha cercato di superare il trauma della deindustrializzazione affidandosi alla sua storia – il porto – e a una scommessa tutt’altro che prudente – il turismo – premiando molto le rendite e poco lo sviluppo. Continua a essere una città ricca, ma vecchia, isolata e quindi chiusa, ferma nel futuro incerto immaginato nel 1968 da Eugenio Montale quando scriveva che Genova è «sfiduciata perché sa cosa ha perduto, ma ignora qual è il suo domani».

In questa fase così delicata c’è stata comunque una gara non indifferente a candidarsi alle elezioni comunali del 25 e del 26 maggio. Alla fine i candidati sindaci e sindache sono sette, quattro donne e tre uomini. Si contenderanno la vittoria Pietro Piciocchi, del centrodestra, vicesindaco di Marco Bucci prima che quest’ultimo diventasse presidente della Liguria, e Silvia Salis, candidata dal cosiddetto campo largo, anzi sarebbe meglio chiamarlo larghissimo: l’alleanza comprende Partito Democratico, Movimento 5 Stelle, Italia Viva, Azione, Alleanza Verdi e Sinistra.

Gli altri candidati sono Raffaella Gualco della lista civica Genova unita, Antonella Marras di Sinistra alternativa, Cinzia Ronzitti del partito comunista dei lavoratori, Mattia Crucioli della civica Uniti per la costituzione e Francesco Toscano di Democrazia sovrana popolare.

In campagna elettorale hanno tutti ostentato sicurezza, com’è naturale che sia, e qualcuno ha proposto soluzioni più o meno concrete per contrastare l’isolamento, favorire lo sviluppo dell’economia e in questo modo attrarre nuove persone cercando di convincere i giovani a non emigrare. Insomma, tutti vorrebbero dare una svecchiata alla città.

Tuttavia il dibattito è stato quasi sempre relegato alla discussione di problemi modesti e meno di come sarà la città tra dieci o vent’anni. Non dipende solo dal poco coraggio o dall’impreparazione, ma anche dai poteri limitati dei sindaci, che ovunque in Italia hanno meno soldi di quanti ne servirebbero, poche responsabilità sulla programmazione industriale e quasi nessun controllo sul turismo.

A dire il vero un dibattito piuttosto vivace sul futuro della città c’è stato, ma mesi prima che le coalizioni scegliessero i loro candidati. L’ha innescato Maurizio Conti, professore di economia politica all’università di Genova, autore di un libro dal titolo efficace e provocatorio – La Liguria è (ancora) una regione del Nord? – che ha convinto il centrosinistra ad affidargli una parte della stesura del programma elettorale. La risposta alla domanda del titolo si trova nei molti dati analizzati per spiegare come mai si può parlare di declino della regione e della città.

Una veduta del porto di Genova

Una veduta del porto di Genova (Jacopo Raule/Getty Images)

Con il declino c’entra naturalmente la dismissione di molte grandi industrie che fino agli anni Ottanta permisero a Genova di occupare uno dei vertici del “triangolo industriale”, insieme a Milano e Torino.

Per quasi un secolo la presenza dell’industria pesante ha fatto crescere molto la città, in alcuni periodi in modo impetuoso, ma la proprietà statale di quelle aziende – in particolare le acciaierie dell’IRI, poi ILVA – ha poi favorito un altrettanto impetuoso processo di deindustrializzazione. Negli anni Settanta a Genova quasi un terzo degli addetti lavorava nel settore manifatturiero, nel 1991 erano solo il 18 per cento, ora sono circa il 12 per cento.

Quando a partire dagli anni Ottanta lo Stato ha iniziato a liberarsi delle grandi industrie, a Genova quasi nessuno ha preso il loro posto. Una parte del lavoro è stata assorbita da nuove imprese nate intorno al porto per sfruttare i traffici internazionali. Era una scelta logica, perfino scontata. Poco dopo però è arrivata un’idea geniale a cambiare tutti i piani. Il container ha imposto un nuovo standard e rivoluzionato le spedizioni, molto più semplici e veloci. All’improvviso le materie prime o la merce che prima doveva essere lavorata a Genova potevano essere spedite a prezzi bassi così com’era ovunque nel mondo, in posti dove lavorarle costa meno.

Maurizio Conti dice che oggi uno dei problemi più evidenti, uno dei tanti che ha fatto rimanere Genova indietro rispetto a Milano e Torino, è che in Liguria e a Genova ci sono troppe micro imprese, con pochissimi dipendenti. Nel libro lo chiama nanismo. Le ragioni sono tante.

Negli ultimi anni ha inciso la distribuzione dei fondi europei e statali, che in un’abusata espressione giornalistica viene definita “a pioggia”. Pochi soldi a tante imprese. «Anche chi aveva buone potenzialità ha avuto pochi incentivi per fare ricerca e sviluppo: questo ha contribuito a far rimanere le imprese piccole e inefficienti», dice Conti. «Sappiamo che solitamente più le imprese sono vecchie e più sono grandi, perché negli anni crescono e si espandono. A Genova questa correlazione non c’è. Ci sono molte piccole vecchie imprese».

Chiunque vincerà le elezioni non potrà finanziare direttamente la crescita delle aziende: non è il compito dei sindaci, che al massimo possono favorire lo sviluppo in modo indiretto liberando o convertendo spazi, costruendo infrastrutture, spianando la strada (quasi letteralmente) agli investimenti. Lo possono fare attraverso il piano urbanistico, che stabilisce dove-costruire-cosa e così immagina come sarà la città nei prossimi anni. Poi però tocca ai privati investire.

Una delle aree su cui c’è più attenzione è lo stabilimento dell’ex ILVA di Cornigliano, dove ora lavorano 900 persone tra operai e tecnici. Come Taranto, anche Genova aspetta di capire chi comprerà le acciaierie e quanto investirà in Italia. Negli ultimi vent’anni si è andati avanti a cassa integrazione, con scarse prospettive. L’incertezza è stata perfino peggiore della dismissione, perché ha bloccato per anni qualsiasi tipo di riconversione e ha scoraggiato altre aziende a investire.

Gli operai dell'ILVA di Cornigliano durante un corteo nel 2016

Gli operai dell’ILVA di Cornigliano durante un corteo nel 2016 (LaPresse/Luisa Stracci)

Secondo Silvia Salis tutte quelle aree dovranno rimanere «a vocazione industriale», come ha spiegato durante un confronto elettorale organizzato dal Secolo XIX. «Stiamo aspettando il piano industriale per capire che tipo di investimento vogliono fare sulle due linee di produzione genovese e come questo investimento inciderà sulle aree», ha detto Salis per poi aggiungere che anche le aree intorno all’ex ILVA dovranno rimanere industriali, possibilmente di un’industria sostenibile. Ha promesso tra le altre cose una mappatura delle aree industriali dismesse da acquistare e bonificare – se i conti lo permetteranno – per destinarle ad altre attività industriali nel comparto dell’innovazione.

Fino a pochi mesi fa Salis – 39 anni – era la vicepresidente del Coni, collaboratrice di Giovanni Malagò. Prima era stata un’atleta di livello internazionale nel lancio del martello, disciplina che l’ha portata alle Olimpiadi di Pechino e Londra. Ha buoni rapporti con l’ex ministro Andrea Orlando del PD, è apprezzata dal leader di Italia Viva Matteo Renzi e da quello di Azione Carlo Calenda, non è osteggiata dal Movimento 5 Stelle – è già qualcosa, anzi il massimo a cui Salis poteva ambire – e la scorsa settimana ha detto di essersi trovata da subito in sintonia con Alleanza Verdi e Sinistra.

La sensazione è che se l’avesse chiamata il centrodestra avrebbe accettato, dicono diverse persone intervistate per questo articolo. Salis si è imposta come una candidata più moderna rispetto al passato, molto attenta alla comunicazione e al coinvolgimento delle persone.

Pietro Piciocchi invece è già sindaco di Genova senza aver mai vinto le elezioni. Alla fine dello scorso ottobre è subentrato a Marco Bucci, ancora oggi piuttosto ingombrante nonostante sia ormai in regione, tant’è che molte persone si chiedono chi sia il vero candidato. Piciocchi è un avvocato, ha 47 anni e 8 figli, di cui due in affido.

Nei mesi in cui il centrosinistra era alle prese con litigi per la scelta del candidato, nel centrodestra ostentavano unità. Piciocchi non ha dovuto vedersela con nessuno perché molti altri pretendenti si sono spaventati dopo il risultato delle elezioni europee e soprattutto delle regionali, che hanno visto il candidato del centrosinistra Andrea Orlando – sconfitto nel resto della regione – vincere in città con un distacco di otto punti.

“Attrattività” è una delle parole che Piciocchi ha usato più volte in campagna elettorale. Ha puntato molto sul trasporto pubblico, che da oltre un anno a Genova è gratis per le persone con più di 70 anni e con meno di 14. Oltre alla gratuità del trasporto pubblico per alcune fasce della popolazione, Piciocchi ha messo nel programma molte altre eredità del mandato appena concluso, come la metropolitana sopraelevata della Valbisagno, e altre opere già in corso come il cosiddetto terzo valico, cioè la linea ad alta velocità tra Genova e Milano e l’autostrada in galleria tra Genova e Voltri, chiamata Gronda. Sono però quasi tutte di scarsa competenza comunale.

Entrambi i candidati pensano che gli investimenti sulla mobilità insieme alle politiche per il lavoro possano convincere molte persone a non lasciare Genova – i giovani soprattutto – e attirarne altre.

Servono nuovi abitanti e lavoratori per contrastare il calo demografico che va avanti dal 1965: tra il 1981 e il 2021 la città ha perso circa 200mila abitanti e negli ultimi anni la tendenza non si è invertita. Uno dei dati più preoccupanti riguarda l’università: sono più gli studenti genovesi che decidono di spostarsi in altre città di quelli che scelgono l’ateneo ligure. Il risultato di tutto questo è che Genova è la grande città italiana con l’età media più alta: 49,5 anni.

Un sondaggio realizzato dal centro studi dell’associazione culturale “Genova che osa” dice che il 54 per cento dei giovani intervistati pensa che Genova possa soddisfare poco o pochissimo le esigenze lavorative (di cui il 35 per cento risponde “pochissimo”); solo l’8 per cento ritiene che l’offerta lavorativa della città possa soddisfare tanto o tantissimo le sue aspettative.

Bassi livelli di istruzione, lenta progressione delle carriere, imprese piccole e scarsa domanda di competenze avanzate sono le cause principali che secondo Maurizio Conti spiegano come mai Genova non abbia saputo sfruttare l’occasione della rivoluzione digitale, lasciando emigrare molte persone capaci verso altre regioni o l’estero.

C’è stata anche un’illusione che ha contagiato molte altre città italiane, e cioè che il turismo avrebbe rimpiazzato presto i settori in decadenza. I turisti sono arrivati e continuano ad arrivare, tanti, un po’ da tutto il mondo, ma il lavoro nel turismo è povero, precario, quasi per nulla innovativo. «Per carità, un po’ di innovazione c’è anche lì, però con una produttività che resta bassissima i salari non possono crescere per definizione: è un settore a produttività stagnante», continua Conti. «Mettiamo anche che ci sarà un boom turistico in città: dei vantaggi di quel boom si approprierà chi possiede gli alberghi, chi ha le rendite».

Auto attendono di essere imbarcate su un traghetto al porto di Genova

Auto attendono di essere imbarcate su un traghetto al porto di Genova (Emanuele Cremaschi/Getty Images)

Se si stilasse una classifica dei settori con la maggior concentrazione di contratti precari al primo posto ci sarebbe il turismo, al secondo alcuni settori della logistica non solo portuale come la movimentazione delle merci e la grande distribuzione, dice il segretario generale della CGIL Igor Magni. Le imprese di questo settore, comprese quelle a servizio del porto, assumono a tempo indeterminato molto più raramente rispetto al passato. Non manca qualche eccezione, come il comparto della cantieristica navale trascinato dal successo di Fincantieri e in altri settori grandi aziende come Ansaldo Energia e Leonardo.

Tuttavia molte di queste aziende note anche fuori dai confini liguri non sono sempre state in salute. Quasi tutte hanno ricevuto aiuti dallo Stato. Alcune, come Ansaldo Energia, sono state prima privatizzate e poi salvate con centinaia di milioni di euro pubblici per evitare i licenziamenti. «Fosse stato per il mercato, non staremmo qui a parlare. Il mercato ha fallito», dice Magni. «Negli ultimi anni anche a Genova molti politici hanno annunciato un aumento dei posti di lavoro, senza però dire che posti di lavoro sono. Di sicuro non sono posti che aiutano a far crescere la città».

In merito al porto, Magni è convinto che potrà comunque rimanere «un caposaldo» dell’economia genovese nonostante gli anni di crisi. Il porto di Genova, uno dei più importanti in Italia, è appena uscito da un lungo commissariamento e lo scorso anno è stato coinvolto indirettamente nell’inchiesta che portò all’arresto dell’allora presidente della regione Giovanni Toti, dell’ex presidente dell’autorità portuale Paolo Emilio Signorini e di uno degli imprenditori portuali più noti, Aldo Spinelli.

I problemi però non sono finiti con l’accordo per il patteggiamento degli imputati: la nuova diga, una delle opere più costose del PNRR, è già in ritardo e al centro di un’indagine della procura europea. Si sa già che costerà 300 milioni in più del previsto.

Si torna poi alla collina degli Erzelli, al parco scientifico tecnologico su cui erano riposte le speranze di politici e imprenditori. Ha funzionato solo a metà. Hanno trovato sede alcune imprese come Esaote, Siemens e la già citata Ericsson, oltre ad alcuni laboratori dell’istituto italiano di tecnologia (IIT). Lo sviluppo dell’area non è andato veloce come si pensava per via del ritardo decennale dell’università, che solo lo scorso anno ha pubblicato i bandi per la costruzione della nuova facoltà di Ingegneria nel parco scientifico tecnologico. Ora i lavori sono iniziati. Come dimostrano i nuovi licenziamenti di Ericsson, il rischio però è che non ci sia più così tanto tempo per sfruttare lo slancio iniziale e ormai datato delle imprese private, rendendo vano tutto il lavoro fatto finora.

Il porto, l’industria, il turismo, gli Erzelli e in generale il lavoro hanno trovato molto spazio nei programmi elettorali di Salis e Piciocchi. Anche nel resto delle promesse elettorali, dove si legge di cultura, ambiente, servizi sociali, case popolari, infrastrutture e trasporti, ricorre in continuazione il desiderio di tornare a una Genova più giovane e popolosa. Non è certo un obiettivo che si può raggiungere in un mandato, anzi forse nemmeno in due, ma Genova attende almeno un segnale per sfruttare quel «potenziale inespresso» che i candidati promettono di liberare.