La Terra fotografata dallo Spazio
«Nella mia camera, guardavo l’immagine del nostro pianeta sopra la testa. Chissà quando era stata scattata. Potevo benissimo esserci anch’io in quella foto, ma non ne avrei mai avuto la certezza»

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Avrò avuto otto anni.
Mio padre tornò a casa da un viaggio di lavoro con un poster arrotolato che era alto quasi quanto lui. Lo stendemmo insieme sul pavimento e poi lo appendemmo sulla parete proprio sopra il mio letto. La cartina del mondo. No anzi: una grandissima foto satellitare – forse l’insieme di molte foto satellitari – che riproduceva la Terra. La testa sfumata e gialla dell’Africa, l’immensa estensione dell’Asia, il violetto dell’Himalaya, le isole sparse come coriandoli nel Pacifico e tutte le increspature e le gibbosità che formavano il quadro astratto degli oceani, con quel punto indicibile e seghettato come il dorso di un drago, la fossa delle Marianne, che sapevo essere il punto più profondo del globo. Così profondo da essere vicino al cuore della terra, pensavo. Ho trascorso tutta la mia infanzia e adolescenza con il mondo sopra la testa.
In rosso erano segnate le rotte degli aerei che lo collegavano tutto intero, ogni città, ogni angolo, ogni sud con ogni nord, o quasi. E tutte le volte che lo guardavo perdendomi nei più piccoli dettagli – nelle coste frastagliate, nelle isole che quasi non si vedevano – coltivavo un pensiero vasto e leggero: la sensazione di essere piccola come un corpuscolo impalpabile e, per questo, di poter essere ovunque.
Quell’immagine colorata e sgargiante in forma di cartina era una promessa di movimento in ogni possibile direzione. Era essere in un punto, ma anche in ogni altro sul quale si posava lo sguardo e si acuiva lo spirito di osservazione. Ci avete mai pensato che il Sud America è una testa di donna con lo chignon? Che l’Australia è un delfino?
«For here
Am I sitting in a tin can
Far above the world
Planet Earth is blue
And there’s nothing I can do».
Space Oddity di David Bowie dice un’ovvietà piena di meraviglia, ma nel 1969 non era un’ovvietà, perché la terra dalla Luna era stata vista da poco nel celeberrimo scatto Earthrise (1968) che fece il giro del mondo. Sì, era per la maggior parte blu la terra accanto al mio letto, un blu sovrastante più del cielo. Per Pier Paolo Pasolini “la terra vista dalla luna” era un anelito. Ci ha intitolato un film (terzo episodio delle Streghe, film collettivo del 1967), anche se poi la luna c’entra pochissimo con Ciancicato Miao, suo figlio Basciù e le loro disavventure di baraccati. C’entra forse più il guardare dall’alto di un regista.
Quella sensazione che avevo da bambina e che aveva anche Major Tom di Bowie, l’ho ritrovata in un libro che ho letto da poco. Si intitola Orbital, l’ha scritto Samantha Harvey. Chie è in orbita intorno alla Terra insieme ad altri cinque astronauti di oggi, in una grande H di metallo. Staranno nove mesi intorno alla Terra, nove mesi a osservarla a bocca aperta per poi tornare giù al pianeta paziente. Chie è giapponese e mentre è lassù perde sua madre, sopravvissuta alla bomba atomica, lei che – quando c’era stato l’allunaggio, quasi sessant’anni prima – l’aveva additato alla figlia come l’impresa massima del desiderio umano, della convinzione incoercibile: se hai la Luna puoi fare tutto, ma soprattutto finalmente hai la Terra. Finalmente la puoi guardare in faccia. È un libro sulla meraviglia e la meraviglia implica sempre una distanza, perché è un’illuminazione improvvisa, è il vedere tutto sotto una nuova luce, da un’altra prospettiva.
«La Terra, da qui, è un paradiso. Trabocca di colori, un’esplosione di colori pieni di speranza. Quando siamo su quel pianeta guardiamo in alto e pensiamo che il paradiso sia altrove, ma ecco cosa pensano gli astronauti e i cosmonauti, a volte: forse tutti noi che siamo nati su quel pianeta siamo già morti e ci troviamo nell’aldilà».
Non è neanche un romanzo, piuttosto un libro filosofico in forma di narrazione spaziale. Scattate più fotografie che potete, dicono agli astronauti: e loro lo fanno, lo farebbero comunque, hanno una vista privilegiata e carica d’ansia sulla magnificenza di quel crescendo che mette in crisi qualsiasi forma di ateismo, la rivoluzione copernicana, l’antropocentrismo. La Terra vista dallo Spazio racconta la sconcertante enormità della nostra insignificanza, che tuttavia assomiglia a una tumultuosa offerta di pace. Vedersi da fuori e vedersi da dentro sono due movimenti complementari dei personaggi, ma anche di tutti noi: quando ci riusciamo, quando ci radichiamo negli insegnamenti della meditazione e della consapevolezza.
A Michael Collins gli avevano detto di no. Tu resta, gli avevano detto. E lui era rimasto sull’Apollo 11. Non che avesse altra scelta, tanto più che era il pilota del modulo di comando. Neil Armstrong e Buzz Aldrin dopo la cena liofilizzata gli diedero una pacca sulla spalla e poi si diressero verso il modulo lunare. La Luna era lì a un passo in mezzo al nero. Lo Spazio è una pantera, pensava forse Collins. Eccolo, il modulo lì davanti con i suoi compagni a bordo: piccolo giocattolo dentro l’immenso e dietro il grigio carsico della Luna; ma, in fondo, il magnetismo blu della Terra comparsa in quel momento!
La Terra è blu come un’arancia, scriveva il poeta surrealista Paul Éluard nel 1929, senza che ci fosse stata ancora nessuna foto del pianeta. Una mezza arancia meravigliosa, avrebbe risposto Collins davanti a quella visione inaspettata. La meraviglia implica una distanza, quella dalla Luna, ma anche un ribaltamento dello sguardo. Il 28 luglio 1969 alle 21:25, pensateci, Michael Collins è l’unico essere umano assente in quella fotografia. Però come in un paradosso, in quella foto sono tutti invisibili. Armstrong e Aldrin sono nel modulo lunare e quel pianeta blu potrebbe benissimo essere disabitato, a vederlo a quella distanza. La prova incontrovertibile della vita nella fotografia è invece il fotografo stesso. Il suo sguardo, il suo dito sul pulsante di scatto.
Guardarci tutti, contenerci tutti dall’alto. Un amico mi racconta di un libro che non ho letto, ne ho trovato solo una versione in francese. Si intitola Habitus, lo ha scritto James Flint una ventina di anni fa. È la storia intricatissima di vari personaggi: Jennifer figlia di una donna violentata in manicomio, Judd maniaco del gioco e Joel genio matematico. Sopra di loro però c’è la cagnolina Laika in orbita intorno alla Terra: li tiene d’occhio, non si perde nei meandri intrecciati dei loro destini, anzi, li abbraccia con un unico sguardo.
Nella mia camera, guardavo l’immagine della Terra sopra la testa. Chissà quando era stata scattata. Potevo benissimo esserci anch’io in quella foto, ma non ne avrei mai avuto la certezza.
Le prime fotografie della Terra dallo Spazio hanno avuto un impatto rivoluzionario; non solo quando sono state scattate, ma anche nella loro diffusione successiva. È nata un’autocoscienza planetaria: abbiamo iniziato a oggettivizzarci. Abbiamo sperimentato il perturbante, perché quell’immagine conservava – e conserva – una matrice familiare e nello stesso tempo aliena. Con lo sguardo da fuori abbiamo compreso con i sensi e interiorizzato, attraverso le emozioni, il fatto che il nostro pianeta è un’eccezione cosmica. Solo, bellissimo, fragile e precario.
Certo, comunque Collins non fu il primo. William Anders, occhi azzurri, aria da attore, nel dicembre 1968 era a bordo dell’Apollo 8, la prima missione con equipaggio a raggiungere e orbitare attorno alla Luna. Anders era ben attento a ciò che succedeva là fuori. La Luna copriva qualsiasi visuale, almeno fino a quando l’Apollo 8 non lasciò l’orbita e fu testimone – per la prima volta nella storia umana – di una Earthrise: il sorgere della Terra. Il Lunar Orbiter 1 della NASA aveva scattato la prima immagine del sorgere della Terra dalle vicinanze della Luna il 23 agosto 1966, ma quella volta a bordo non c’era nessuno. Venite, venite, cazzo! Anders vide la Terra emergere da dietro l’orizzonte lunare e chiamò gli altri. C’era bisogno di una pellicola a colori, subito! Ce l’aveva Lovell, che gliela portò fluttuando senza peso nella navicella spaziale. Eccola, l’Earthrise, che in seguito fu scelta dalla rivista Life come una delle foto del secolo. La meraviglia, si diceva. Certo, perché la vera scoperta dell’esplorazione spaziale era diventata la Terra (la Luna da quel momento aveva perso il suo fascino). La Terra che riusciamo a vedere grazie al progresso di cui siamo stati capaci, in questa forma di grandezza che è anche una forma di ridimensionamento, di umiltà, di senso dell’esistenza.
– Leggi anche: La storia della foto scattata dall’Apollo 8
La figlia di Pietro, l’astronauta italiano immaginato da Harvey, chiede al padre se il progresso sia bello. Certo che è bello, ma non quando si realizza, non quando bisogna stabilire se il suo frutto sia buono o meno: è bello nel suo slancio verso il futuro, nel suo contenere desiderio.
«Una persona non è bella perché è buona, è bella perché è viva, come un bambino. Viva e curiosa e inquieta. Le persone sono belle perché hanno quella luce negli occhi».
Il progresso è vivo, è una sensazione, un miscuglio di avventura ed espansione.
Come viva è la meraviglia che non si esaurisce. E allora, di nuovo nello Spazio: un’altra missione, l’ultima che porterà l’uomo sulla Luna. Ma questa volta gli astronauti Schmitt, Cernan ed Evans lo sanno fin da subito che cosa li aspetta. Partono, ma stavolta sono tutti e tre muniti di macchina fotografica a colori, infilata nella tuta, nascosta ma a portata di mano. Non c’è neanche bisogno di aspettare troppo: dopo cinque ore dal lancio è possibile vedere la Terra nella sua totalità, illuminata dalla luce del giorno; l’Africa ben visibile, l’Antartide come un neon. E insieme ecco l’effetto di scie bianche e spiraliformi che ne fanno una sfera di marmo: Blue Marble si chiama questa foto. Famosissima, riprodotta infinite volte. Eppure, nessuno dei tre astronauti saprebbe dire chi l’ha scattata. Non hanno fatto altro da quando hanno lasciato l’orbita terrestre, come turisti, come ragazzini ansiosi di immortalare l’unicità irripetibile di quel momento. Dal 1972, Blue Marble ha colonizzato per sempre il nostro immaginario: se dobbiamo pensare alla Terra, la pensiamo così. Un’unica distesa di vita.
Gli intellettuali guardandola ne avevano capito la portata simbolica. Non si poteva che pensare a un mondo unico e dunque all’insensatezza dei conflitti, delle divisioni ideologiche. Gli astronauti di Orbital, invece, in un momento storico diverso, vedono inscritta nel globo l’avidità. Sì, perché forse quello di Harvey – che per questo libro ha vinto il Booker Prize 2024 – è l’appello a un ecologismo più consapevole e radicale, o più semplicemente agli argini che i pensieri dell’umanità dovrebbero avere.
L’idea di One World che si era fatta avanti l’indomani delle foto delle missioni Apollo assegnava implicitamente all’umanità il compito di costruire un mondo emancipato dai pregiudizi etnico-nazionalistici, dai confini, dalle barriere culturali e religiose. Le foto veicolavano idee etiche e filosofiche, ma nei decenni la mercificazione di questo stesso discorso le ha condannate a un inevitabile scadimento.
Basta pensare a Elon Musk che con SpaceX ha portato in orbita una Tesla Roadster: un pupazzo alla guida, vista Blue Marble; oppure a Jeff Bezos e al suo Blue Origin, che trasforma la visione della Terra in un panorama per facoltosi astro-turisti. Samantha Harvey invece si appella a quella coscienza filosofica che i bambini hanno istintiva e che forse avevo anche io nella mia cameretta. La sensazione – anzi, la certezza – che le nostre vite siano banali ed epocali allo stesso tempo. La Terra la possiamo vedere dall’alto, come se fossimo delle divinità, dopo aver raggiunto l’apice delle nostre conquiste scientifiche e tecnologiche; per poi capire, però, che anche quelle scoperte sono delle nullità. Proprio questo è il punto: capirlo è la più grande conquista di ogni vita. E la vita è sempre ovunque. La meraviglia di cui abbiamo bisogno è una questione di distanza, e di ineffabile consapevolezza.