Al Jazeera non è una cosa sola
Per il governo israeliano la televisione qatariota è una «rete terrorista», per altri è un modello di giornalismo: certamente è da sempre controversa, anche per le differenze rilevanti tra le sue edizioni in arabo e in inglese
di Valerio Clari
La rete televisiva del Qatar Al Jazeera è uno dei più importanti network di informazione al mondo e uno dei pochi media internazionali rimasti operativi nella Striscia di Gaza, invasa ormai da mesi dall’esercito israeliano. Da quando è nata nel 1996 è stata al centro di numerose polemiche internazionali, accusata di fare da “megafono” alle ambizioni politiche degli emiri del Qatar, dei movimenti islamisti e talvolta di quelli terroristi. Allo stesso tempo ha guadagnato negli anni un’enorme credibilità e influenza, successi di pubblico e considerazione, confermati da alcuni premi internazionali per gli alti standard giornalistici. La rete è stata indicata come prima espressione di un punto di vista libero da condizionamenti occidentali, ma anche accusata di estrema partigianeria e di raccontare la realtà partendo da visioni parziali e pregiudiziali.
Al Jazeera, che dalla sua fondazione si presenta con lo slogan «la voce di chi non ha voce», è insomma una rete televisiva fortemente controversa.
È apertamente finanziata dal governo del Qatar, stato non democratico, ricco e influente nel complesso contesto mediorientale. Si occupa spesso e con maggiore frequenza di altri media internazionali di temi particolarmente divisivi, come il conflitto israelo-palestinese. Soprattutto, Al Jazeera non è un’entità unica: ha sia un canale in lingua araba che uno in inglese (i due maggiori), che hanno dirigenze, giornalisti, uffici e programmi diversi. Pur affermando di seguire la stessa linea editoriale, usano toni e approcci anche molto differenti. A volte, su temi particolarmente sensibili, cambiano anche terminologia e definizioni per parlare di una stessa notizia.
Una legge approvata la scorsa settimana dal parlamento israeliano prevede la chiusura dei media ritenuti un pericolo per la sicurezza del paese, e ha come primo obiettivo proprio Al Jazeera. Il governo israeliano la accusa di essere uno strumento di propaganda della causa palestinese e anche del gruppo radicale islamista Hamas, contro cui Israele sta combattendo da sei mesi una guerra nella Striscia di Gaza. Non è la prima volta che Israele minaccia di bloccare le trasmissioni di Al Jazeera sul suo territorio, e Israele non sarebbe il primo paese a prendere decisioni simili: Arabia Saudita, Egitto e Giordania (fra gli altri) lo hanno fatto in passato, per motivi politici.
Al Jazeera ha oggi più di 3.000 dipendenti, provenienti da quasi un centinaio di paesi: è disponibile in 150 paesi e dichiara in modo vago di raggiungere «più di 430 milioni di case». La sua sede centrale è a Doha, in Qatar, ma ha uffici e redazioni, più o meno grandi, in 70 città nel mondo. Per un certo periodo ha avuto quattro diverse sedi operative: oltre a Doha i programmi venivano prodotti a Londra (canale in inglese), Washington (il canale statunitense, durato dal 2013 al 2016) e Kuala Lumpur (in Malesia, la sede asiatica). Da alcuni anni ha ricentralizzato la produzione a Doha, i palazzi di Al Jazeera Arabic e Al Jazeera English sono vicini ma indipendenti. Ex dipendenti di Al Jazeera contattati dal Post, che preferiscono rimanere anonimi, dicono che i contatti fra le due entità sono pressoché nulli. Organizzazioni, catene gerarchiche ma anche spazi fisici sono separati, e non c’è alcuna interazione quotidiana.
Al Jazeera nasce come canale in lingua araba all news, cioè che trasmette solo telegiornali e programmi d’informazione: il nome in arabo significa “isola o penisola” e richiama la penisola arabica e quella qatariota. Nel 1996 l’allora emiro del Qatar Hamad bin Khalifa Al Thani finanziò con 500 milioni di dollari le operazioni dei primi cinque anni, sfruttando il canale satellitare lasciato libero dalla repentina chiusura di BBC Arabic: il canale britannico in arabo era stato lanciato nel 1994 in collaborazione con una società di proprietà del regno dell’Arabia Saudita e venne chiuso un anno e mezzo dopo per ingerenze proprio del governo saudita. Al Jazeera assunse anche molti dei giornalisti del canale della BBC, ereditando in gran parte il codice etico e lo standard giornalistico elevato della rispettata televisione pubblica britannica.
Ebbe un primo momento di grande notorietà e rilevanza internazionale dopo gli attacchi del gruppo terroristico al Qaida dell’11 settembre 2001: nei mesi e negli anni successivi mandò in onda registrazioni esclusive di Osama bin Laden, il fondatore di al Qaida, e di altri appartenenti all’organizzazione terroristica, diventando un punto di riferimento nell’area anche per i media occidentali. Era il periodo precedente allo sviluppo dei social network e per alcuni anni Al Jazeera fu praticamente l’unica fonte credibile a occuparsi con costanza di certe zone del mondo.
Al Jazeera coprì poi approfonditamente prima la guerra in Afghanistan (2001), poi l’invasione statunitense dell’Iraq (2003): fu fortemente critica dell’intera operazione, pur definendo apertamente il leader iracheno Saddam Hussein “dittatore”, un fatto non scontato per una televisione mediorientale. Il presidente degli Stati Uniti George W. Bush, in carica dal 2001 al 2009, la accusò di fare «odiosa propaganda». I rapporti con la sua amministrazione furono particolarmente tesi.
Un secondo momento di svolta per la televisione qatariota, che nel 2006 lanciò il suo canale in lingua inglese, furono le cosiddette “primavere arabe”, le proteste e manifestazioni contro la corruzione e a favore della democrazia che si svilupparono a partire dal 2011 in quasi tutto il mondo arabo, e che fra le altre cose avrebbero dato origine alla guerra civile in Siria e alla caduta del regime di Muammar Gheddafi in Libia. In quegli anni si parlò di “effetto Al Jazeera”, per sottolineare l’importanza del suo ruolo, insieme a quello dei social network, nel racconto dei movimenti di protesta: molti lo ritennero centrale e capace di alimentarli seppure indirettamente, a partire dalla Tunisia (il primo stato coinvolto nelle primavere arabe). Alcuni regimi autocratici bloccarono le trasmissioni della rete nei propri paesi.
Soprattutto in Egitto, allora e negli anni seguenti, Al Jazeera sostenne in modo piuttosto palese i Fratelli Musulmani, un movimento islamico radicale fondato nel 1928 in Egitto, molto influente nei paesi arabi e considerato da alcuni paesi un’organizzazione terroristica. Dopo la deposizione del presidente Mohamed Morsi da parte dall’esercito guidato da Abdel Fattah al Sisi, le sedi di Al Jazeera nel paese furono chiuse e tre suoi giornalisti processati e condannati per aver “diffuso false notizie”. Nei mesi delle primavere arabe il traffico sul sito di Al Jazeera crebbe del 2.500 per cento e anche l’approccio dell’amministrazione statunitense verso il canale cambiò radicalmente. L’allora segretaria di Stato Hillary Clinton disse che Al Jazeera faceva «vero giornalismo, che bisogna seguire e che sta cambiando il modo di pensare delle gente».
Negli anni seguenti arrivarono nei confronti di Al Jazeera altri divieti ad operare in Iraq, Giordania, Bahrein e Arabia Saudita, risultato della contrapposizione fra quest’ultima e il Qatar che portò a una lunga crisi diplomatica nel 2017: l’Arabia Saudita e i suoi alleati di fatto interruppero ogni relazione politica ed economica col Qatar, considerato troppo vicino all’Iran e accusato di sostenere il terrorismo.
Nei territori palestinesi (Striscia di Gaza e Cisgiordania) aprì le prime redazioni negli anni della Seconda Intifada, un lungo periodo di proteste violente cominciate il 28 settembre del 2000 e durate fino al 2005, in cui morirono circa un migliaio di israeliani e quattromila palestinesi, in attacchi terroristici e scontri violenti tra israeliani e palestinesi. Da allora si è fortemente radicata sul territorio, organizzando una consistente rete di corrispondenti, operatori e collaboratori che vivono nella Striscia di Gaza. Dopo il 7 ottobre del 2023, giorno del violento attacco di Hamas in territorio israeliano da cui è iniziata la guerra in corso, questo le ha permesso di trasmettere e avere notizie da Gaza, nonostante l’ingresso ai giornalisti stranieri sia stato bloccato dall’esercito israeliano sin dalle ore subito successive agli attacchi di Hamas. Nell’attuale conflitto è uno dei pochi media a raccontare con costanza e con testimonianze dirette le sofferenze dei civili nella Striscia.
Hugh Miles è un giornalista esperto di Medio Oriente, fondatore di Arab Digest e autore del libro Al-Jazeera: How Arab TV News Challenged the world
(Al Jazeera: Come le notizie della TV araba hanno sfidato il mondo). Secondo lui «nei territori palestinesi Al Jazeera ha fornito un’unica e fortissima nuova prospettiva, che era assente in precedenza e che anche adesso nessun altro fornisce, quella dei palestinesi». Nella guerra in corso, dice Miles, Al Jazeera «svolge l’opera di umanizzare i palestinesi e le loro morti», dando informazioni quotidiane su quello che lui definisce «il genocidio in atto». Sarebbe questo, a suo parere, «il motivo chiaro per cui il governo israeliano vuole chiuderla».
Il governo israeliano definì Al Jazeera uno «strumento di Hamas» una prima volta nel 2008, poi di nuovo nel 2017. In quell’anno Ayoub Kara, ministro della Comunicazione del governo di Benyamin Netanyahu, ampliò la definizione: «Principale strumento dello Stato islamico, di Hamas, di Hezbollah e dell’Iran». La scorsa settimana, dopo l’approvazione della legge che punta a farla chiudere, il primo ministro Netanyahu l’ha definita «il canale televisivo terroristico Al Jazeera». I partiti della maggioranza e parte della stampa israeliana accusano singoli giornalisti e l’intera organizzazione di essere stati al corrente in anticipo degli attacchi del 7 ottobre, e in alcuni casi di avervi partecipato. Non sono però mai state fornite prove definitive a sostegno di queste accuse.
Più in generale molti in Israele ritengono che il racconto della guerra della televisione qatariota sia condizionato fortemente dalla visione di Hamas. Viene imputato ad Al Jazeera di trasmettere integralmente le dichiarazioni dei portavoce dell’organizzazione radicale, di riprendere acriticamente i suoi comunicati, di trattare Hamas come un legittimo interlocutore politico. La rete ha più volte risposto a queste critiche ribadendo che identico trattamento (comunicati, dichiarazioni, interviste) è garantito anche agli esponenti dell’esercito israeliano. Non è scontato, nell’ambiente televisivo dell’area, tanto che nei primi anni di Al Jazeera molti osservatori occidentali sostennero che la televisione fosse la prima del mondo arabo non solo a ospitare politici e militari israeliani, ma anche a mandare in onda mappe in cui venivano definite Israele, la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, rinunciando alla più politica dicitura di “Palestina” con la sua definizione geografica.
Anche la verifica delle notizie viene criticata da Israele: è successo recentemente per la denuncia di presunti stupri che i militari israeliani avrebbero commesso all’ospedale al Shifa di Gaza. La notizia era stata riferita da Al Jazeera e poi si era rivelata falsa. A testimonianza delle accuse di vicinanza acritica con Hamas viene invece fatto spesso l’esempio della liberazione di Samir Kuntar, nel 2008: quasi 30 anni prima, sedicenne, aveva rapito e ucciso una donna e sua figlia di 4 anni, causando la morte anche dell’altra figlia di 2. Quando fu liberato in uno scambio di prigionieri con Hezbollah, Al Jazeera Arabic organizzò in onda una festa per il suo compleanno, con grafiche che lo ritraevano come un guerrigliero eroe. L’azienda disse poi di aver licenziato i responsabili di quella trasmissione.
Secondo il sito di news Axios, a ottobre, nelle prime fasi della guerra, il segretario di stato statunitense Antony Blinken avrebbe chiesto al governo del Qatar di «abbassare il volume» di Al Jazeera, cioè di moderare i toni della sua copertura mediatica, perché la riteneva «piena di incitamenti anti-israeliani». Secondo Axios fu proprio Blinken a raccontarlo a un gruppo di rappresentanti delle comunità ebree statunitensi.
Parte dell’opinione pubblica israeliana ha però accolto negativamente la nuova legge che può portare alla chiusura di Al Jazeera, in parte perché potrebbe essere utilizzata anche per altri media, costituendo un pericoloso precedente nella limitazione della libertà di stampa, in parte anche perché si ritiene che la televisione sia comunque una voce importante da preservare, nonché l’unica vera testimone di ciò che sta accadendo nella Striscia.
Mohamed Sidi, responsabile della comunicazione di Al Jazeera Media Network, dice: «I nostri contenuti parlano per noi, così come i riconoscimenti internazionali che riceviamo». Il canale in inglese da 7 anni vince consecutivamente il premio di Miglior broadcaster al New York Festivals TV & Film Awards. I dipendenti della rete raccontano di una redazione giovane, multiculturale, con giornalisti provenienti da stati, continenti e culture diverse, con un’ampia rappresentanza di minoranze e di lavoratori dal cosiddetto “sud del mondo”. Dicono che la religione musulmana non è mai stata un fattore discriminante per lavorare ad Al Jazeera English e che soprattutto nei primi anni ai giovani vennero garantite opportunità di crescita e lavoro che i canali tradizionali non avrebbero offerto.
Quest’immagine, che ha portato anche ad altri esperimenti di successo come Al Jazeera Balkans e la redazione AJ+ per i contenuti social, è fortemente distante da quella di una «Fox News sotto steroidi, che flirta con l’esaltazione della violenza», come descrisse Al Jazeera Arabic all’Economist Hussein Ibish, del think tank Arab Gulf States Institute. L’edizione in lingua araba in ogni caso è decisamente diversa da quella in lingua inglese, per approccio, terminologia e tipo di pubblico, composto prevalentemente da uomini musulmani sunniti (uno dei due principali rami dell’Islam). Quaranta giorni dopo l’inizio della guerra il quotidiano francese Le Monde seguì le trasmissioni del canale per una giornata: insieme alle immagini esclusive al centro dei bombardamenti israeliani, notò l’uso di una terminologia se non problematica, almeno molto parziale: i morti erano definiti «martiri», l’esercito israeliano «armata del paese occupante», i miliziani di Hamas «gruppi di resistenza».
Dice sempre Sidi: «Le reti in arabo e in inglese hanno diversi corrispondenti e giornalisti, ma le stesse linee editoriali e gli stessi standard: quello che cambia è il pubblico di riferimento, per cui possono variare gli argomenti trattati». Le due reti non hanno programmi in comune, alcuni dei programmi non in diretta della produzione in inglese (soprattutto longform e documentari) sono riproposti tradotti in arabo, ma non viceversa. Uno studio del 2020 dell’Università della Navarra (Spagna) su 2400 articoli pubblicati online dalle edizioni inglese e araba del sito di Al Jazeera rilevò che solo l’8 per cento di questi era sovrapponibile.
Miles di Arab Digest ritiene che non esista una possibile oggettività a cui poter aspirare o fare riferimento: «Ogni televisione ha una visione soggettiva, influenzata dai suoi finanziatori e soprattutto dal suo pubblico». In questo Al Jazeera non sarebbe differente dagli altri canali, compresi quelli occidentali: «Ha ovviamente delle direttive a livello lessicale, ha dei limiti che non può oltrepassare, difficilmente si occuperà di argomenti sensibili per il Qatar come il bigottismo della sua famiglia regnante, ma questo non significa che il suo giornalismo non sia valido».
Miles sottolinea come il canale rappresenti un punto di vista «arabo, musulmano e sunnita» e come simpatizzi apertamente per la causa palestinese, per il Qatar, per i Fratelli Musulmani e per Hamas, in un panorama mediatico in cui però è «l’unica a farlo», mentre sono molti i media che sostengono le posizioni israeliane, compresa Al Arabiya, rete saudita nata nel 2003 anche per contrastare l’influenza di quella qatariota. In questo, dice ancora, è rimasta dalla fondazione a oggi coerente con sé stessa: «Solo durante gli anni delle primavere arabe, e in particolare riguardo all’Egitto, fece una campagna attiva e piuttosto chiara per i Fratelli Musulmani, abbandonando il consueto maggiore equilibrio. La cosa finì col danneggiarne l’immagine».
Al Jazeera continua a essere finanziata dal governo del Qatar e guidata da una logica non prevalentemente commerciale: non ha bisogno di chiudere in pareggio i bilanci e ha ampi fondi che ne sostengono il lavoro. Rispondendo al Washington Examiner ha sostenuto di operare in totale indipendenza editoriale e ha paragonato il suo finanziamento pubblico a quello della britannica BBC: le sostanziali differenze nell’applicazione dei principi democratici fra Regno Unito e Qatar rendono però il parallelo discutibile e complesso.
Dopo le dichiarazioni di Netanyahu Al Jazeera ha pubblicato un comunicato in cui le definiva «bugie che mettono in pericolo la sicurezza dei nostri giornalisti nel mondo». Durante l’attuale guerra fra Israele e Hamas alcuni dei suoi giornalisti e cameraman sono stati uccisi in attacchi israeliani, che la rete ha denunciato come «deliberati». Già nel 2022 la nota giornalista palestinese e statunitense Shireen Abu Akleh era stata uccisa durante un’operazione militare israeliana in Cisgiordania, in circostanze mai completamente chiarite.
– Leggi anche: Wael Dahdouh non ha mai smesso di raccontare la guerra