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  • Giovedì 11 maggio 2023

L’uccisione di Shireen Abu Akleh, un anno dopo

Israele e Palestina si rimpallano la responsabilità, e sembra molto difficile che si arriverà a una verità condivisa sulla sua morte

Un murale dedicato a Shireen Abu Akleh su un muro di Betlemme, in Cisgiordania (AP Photo/ Mahmoud Illean)
Un murale dedicato a Shireen Abu Akleh su un muro di Betlemme, in Cisgiordania (AP Photo/ Mahmoud Illean)
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L’11 maggio di un anno fa la giornalista Shireen Abu Akleh fu uccisa mentre stava seguendo un’operazione dell’esercito israeliano in un campo profughi di Jenin, in Cisgiordania. Morì poco dopo essere stata colpita alla testa da un proiettile. È molto probabile che la giornalista sia stata uccisa da soldati israeliani, ma a un anno dalla sua uccisione le inchieste sono di fatto ferme: le autorità di Israele e Palestina si rimpallano la responsabilità e al momento arrivare a una verità condivisa sembra molto complesso.

Shireen Abu Akleh aveva 51 anni ed era una giornalista molto nota in Medio Oriente: lavorava come corrispondente per Al Jazeera dalla Palestina da 25 anni e si era sempre occupata di raccontare l’occupazione israeliana e le rivolte palestinesi fin dalla seconda intifada, iniziata nel 2000. Era nata a Gerusalemme e viveva tra Gerusalemme e Ramallah, in Cisgiordania, dove era nota per i suoi reportage televisivi. Aveva vissuto negli Stati Uniti dove aveva ottenuto la cittadinanza statunitense per via di una parte della famiglia materna residente nello stato del New Jersey.

Il giorno in cui fu uccisa Abu Akleh si trovava a Jenin, che si trova nel nord della Cisgiordania, per documentare un’operazione militare israeliana volta ad arrestare «sospetti terroristi» palestinesi.

Insieme a lei c’era un altro giornalista palestinese di Al Jazeera, Ali al Samoudi, che fu ferito da un proiettile alla schiena e che in seguito raccontò quello che era successo: «Stavamo andando a riprendere l’operazione militare israeliana quando improvvisamente siamo stati colpiti senza che ci venisse chiesto di smettere di riprendere. Il primo proiettile ha preso me, il secondo Shireen».

Sia Al Samoudi che altri giornalisti presenti a Jenin quel giorno avevano detto di essere stati bersagliati da diversi colpi d’arma da fuoco sparati contro di loro nonostante fossero riconoscibili come giornalisti perché indossavano giacche con la scritta Press (“Stampa”) ed elmetti di protezione. Avevano anche detto che al momento degli spari i giornalisti si trovavano in un posto in cui non c’erano guerriglieri palestinesi, e accusato i soldati israeliani di aver sparato deliberatamente contro di loro.

Inizialmente le autorità israeliane aveva smentito categoricamente ogni coinvolgimento del proprio esercito nell’uccisione di Abu Akleh, e sostenuto che fosse stata uccisa da un proiettile sparato dagli stessi palestinesi verso i soldati israeliani, che avrebbe colpito casualmente la giornalista.

Per questo motivo l’esercito israeliano aveva deciso che la polizia militare, cioè il suo organismo interno che si occupa di presunti reati compiuti dal personale dell’esercito, non avrebbe aperto nessuna indagine penale sulla morte di Abu Akleh. Solo a settembre l’esercito israeliano aveva ammesso per la prima volta la possibilità che Abu Akleh fosse stata uccisa «accidentalmente» da proiettili sparati «contro persone sospettate di essere palestinesi armati, nel corso di uno scontro a fuoco», ma aveva comunque specificato che rimaneva la possibilità che il proiettile fosse stato sparato da un palestinese.

Un’indagine condotta dall’Autorità Nazionale Palestinese, l’organismo politico di governo della Palestina, aveva invece concluso che fossero stati i soldati israeliani ad aver ucciso la giornalista. È stato però finora impossibile avviare un’indagine indipendente, dato che le autorità palestinesi si sono sempre rifiutate di consegnare il proiettile estratto dalla testa della giornalista alle autorità israeliane o a quelle di altri paesi, in modo che queste facessero una perizia, probabilmente per paura di insabbiamenti.

A giugno però Al Jazeera aveva detto di aver ottenuto alcune immagini del proiettile: dopo averle analizzate aveva concluso che fosse di calibro 5,56 millimetri, di produzione americana e compatibile con quelli normalmente usati dall’esercito israeliano. Anche un’indagine dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) aveva concluso nello stesso mese che Abu Akleh era stata uccisa da un soldato israeliano, basandosi su materiale fotografico, video, audio e sull’ispezione dei luoghi dell’attentato.

Senza la possibilità di fare analisi scientifiche indipendenti sul proiettile è molto difficile arrivare a conclusioni che non siano contestate da una o dall’altra parte.

L’ultima grossa novità sul caso risale allo scorso novembre, quando nel frattempo il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti aveva annunciato di aver avviato una propria indagine sull’uccisione di Abu Akleh, che il governo israeliano aveva definito «un grave errore» e cui aveva deciso da subito di non collaborare. Da allora, tuttavia, le indagini sull’uccisione della giornalista sono di fatto ferme.