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  • Giovedì 11 febbraio 2021

La Cina vuole costruire la più grande centrale idroelettrica al mondo

Sul fiume Yarlung Tsangpo, in Tibet, tra le molte proteste dei tibetani e degli indiani

Il Gran Canyon del fiume Yarlung Tsangpo, in Tibet (Wikimedia Commons)
Il Gran Canyon del fiume Yarlung Tsangpo, in Tibet (Wikimedia Commons)

Lo scorso novembre il governo cinese ha annunciato l’intenzione di costruire una grande diga sul fiume Yarlung Tsangpo, che scorre in Tibet, regione autonoma della Cina. La diga permetterà la costruzione di una centrale idroelettrica, che nei piani del governo diventerà il più grande impianto di produzione di energia del mondo. La decisione di costruire la diga sta però provocando diverse critiche sia in Tibet, dove il fiume è considerato sacro, che in India, dove il fiume scorre prima di sfociare in Bangladesh.

Lo Yarlung Tsangpo si chiama così solo in Tibet, dove nasce dai ghiacciai dei monti Kubi Gangri e Ganglunggangri, a circa 4.700 metri di altitudine; è lungo quasi 3mila chilometri e nel suo corso attraversa l’Himalaya nel versante cinese, poi entra in India, dove prende il nome di Brahmaputra, passa per gli stati indiani dell’Arunachal Pradesh e dell’Assam, e infine entra in Bangladesh, dove sfocia nel golfo del Bengala.

Prima di entrare in India il fiume raggiunge il monte Namcha Barwa, nella parte orientale dell’Himalaya, compie una grande curva verso sud formando una delle gole più profonde al mondo, il Gran Canyon dello Yarlung Tsangpo. Dai circa 5mila metri di altezza in cui sorge arriva bruscamente a 2.700 metri, senza che ci siano grandi cascate, ma attraverso numerosi rivoli che scendono per i pendii del monte.

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I circa 2mila metri di dislivello tra il ramo superiore e quello inferiore del fiume sono uno dei motivi che hanno spinto il governo cinese a voler costruire una diga, per sfruttare l’energia dell’acqua in una centrale idroelettrica. La diga e la centrale verranno costruite nella contea di Mêdog, che si trova proprio dove scorre il ramo inferiore dello Yarlung Tsangpo, e dove abitano circa 14mila persone.

Una volta completata, la centrale idroelettrica avrà una potenza di 60 gigawatt (GW), quasi il triplo della più grande centrale idroelettrica attualmente esistente al mondo, che si trova sempre in Cina, sotto la diga delle Tre Gole sul Fiume Azzurro, nella provincia di Hubei.

La diga delle Tre Gole, sul Fiume Azzurro, in Cina (Wikimedia Commons)

La costruzione della centrale rientra nell’ambizioso piano del governo cinese di raggiungere la carbon neutrality (ovvero un bilancio complessivo di zero emissioni di anidride carbonica) entro il 2060. Secondo il governo cinese, inoltre, la centrale arricchirà anche la regione autonoma del Tibet, generando entrate annue per 20 miliardi di yuan (circa 2,5 miliardi di euro).

Questi grandi progetti si scontrano però con un grosso problema: l’opposizione di Tibet e India alla costruzione della diga. Per quanto riguarda il Tibet, i problemi riguardano la religione praticata dagli abitanti della regione, una forma di buddhismo la cui guida spirituale è il Dalai Lama. L’attuale Dalai Lama, Tenzin Gyatso, come tutti i membri del governo tibetano, è in esilio in India dal 1959, dopo la repressione della rivolta di Lhasa da parte dell’esercito cinese: da allora il Tibet è diventato una regione autonoma della Cina a statuto speciale, i cui governatori sono scelti direttamente dal Partito Comunista cinese.

Le critiche alla costruzione della diga arrivano quindi perlopiù dai tibetani in esilio, dato che per quelli rimasti in Tibet il dissenso contro il governo è vietato. Il buddhismo tibetano, più delle altre forme di buddhismo diffuse nel mondo, ha un particolare rispetto per la natura, tanto che se ne parla anche come di un buddhismo ambientalista. In questo caso, per i buddhisti tibetani, il fiume Yarlung Tsangpo rappresenta il corpo della divinità Dorje Phagmo, e costruirvi una diga è considerato un atto sacrilego.

Tenzin Dolmey, che fu tra i tibetani che lasciarono il paese nel 1959 e che oggi insegna lingua e cultura tibetana a Melbourne, in Australia, lo ha spiegato ad Al Jazeera, dicendo che il rispetto per la natura è qualcosa di intrinseco nella cultura del Tibet: «La prima cosa che ci veniva detta [da bambini] quando nuotavamo in un fiume era di non usarlo per fare i nostri bisogni, perché nell’acqua dei fiumi ci sono delle divinità».

Il fiume Yarlung Tsangpo in Tibet, vicino a Lhasa (Wikimedia Commons)

Un altro tibetano in esilio, Tempa Gyaltsen Zamlha, che oggi si occupa di ambiente nel Tibet Policy Institute, un istituto di ricerca fondato nel 2012 dal governo tibetano in esilio, ha detto che prima dell’occupazione cinese non esistevano dighe in Tibet, «non perché non fossimo in grado di sfruttarle, ma perché avevamo un immenso rispetto per la natura dei fiumi: c’è una tradizione molto severa per cui nessuno può andare in certi corsi d’acqua o fare qualcosa che li “disturbi”. Non c’è nemmeno bisogno di leggi al riguardo, ogni tibetano rispetta questa tradizione», ha detto ad Al Jazeera.

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Dopo l’occupazione cinese del Tibet del 1950, però, di dighe ne sono state costruite diverse, persino sul corso del fiume Yarlung Tsangpo. La prima fu costruita nei pressi della cittadina di Zangmu, al confine con il Nepal, e fu ultimata nel 2015: già quel progetto provocò critiche e contrasti con tibetani e indiani.

A preoccupare i tibetani non è solo la violazione della sacralità del fiume, ma anche i rischi che la centrale potrebbe arrecare all’ecosistema circostante e alla popolazione della zona. Secondo Brian Eyler, esperto di fiumi e direttore del dipartimento che si occupa del sud-est asiatico al centro studi Stimson Center, con la nuova diga potrebbe succedere quello che è successo al fiume Mekong, il dodicesimo più lungo del mondo e il più importante del sud est asiatico, che nasce in Tibet e attraversa Birmania, Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam.

Nel corso degli anni sul fiume Mekong sono state costruite undici dighe, finanziate anche dal governo cinese come parte dell’ambizioso progetto globale di infrastrutture conosciuto come Belt and Road Initiative. Le dighe sul Mekong ne hanno però distrutto l’ecosistema, arrecando ingenti danni all’agricoltura, alla fauna acquatica e di conseguenza all’economia di tutta la popolazione che vive nel suo bacino.

Per quanto riguarda l’India, invece, il timore principale è che la costruzione di una così grande centrale sullo Yarlung Tsangpo possa avere ricadute sul corso del versante indiano del fiume, il Brahmaputra. Per l’India, il Brahmaputra è infatti fondamentale per l’agricoltura, perché il limo, sostanza trasportata dal fiume durante le alluvioni, rende molto fertili i terreni. Una preoccupazione riguarda proprio il limo, che la diga sullo Yarlung Tsangpo potrebbe trattenere e non far arrivare nel Brahmaputra.

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Un’altra preoccupazione riguarda la quantità di acqua che una centrale così grande potrebbe sfruttare, riducendo di conseguenza il flusso di acqua a valle, nel Brahmaputra, in particolare durante i periodi di aridità. E c’è allo stesso tempo la preoccupazione opposta per quello che potrebbe succedere quando la Cina aprirà la diga, soprattutto se dovesse farlo durante la stagione dei monsoni, quando le grandi piogge causano regolarmente alluvioni disastrose negli stati nord-orientali dell’India.

C’è infine un timore legato a fatti di estrema attualità, ovvero le inondazioni avvenute il 7 febbraio nelle montagne dell’Uttarakhand, stato nel nord dell’India, che hanno distrutto due centrali idroelettriche in costruzione e le loro dighe, e in cui 32 persone sono morte e più di 170 sono ancora disperse. Tra le cause delle inondazioni sembrano esserci anche il riscaldamento globale e la crescente instabilità idrogeologica sull’Himalaya, con la costruzione di grandi infrastrutture che rischia di rendere ancora più fragili i terreni, e provocare altre inondazioni a valle.

Le dispute tra India e Cina sui territori di confine hanno una lunga storia, ma negli ultimi mesi si sono fatte più accese e violente. Lo scorso giugno, a causa di una vecchia contesa territoriale, almeno 20 soldati indiani erano stati uccisi da forze militari cinesi durante una serie di scontri avvenuti nella regione del Ladakh, territorio indiano tra le catene del Karakorum e dell’Himalaya. I due paesi si erano accusati reciprocamente di aver superato i confini nazionali che in alcune zone sono storicamente poco definiti; ne erano nate diverse schermaglie andate avanti per settimane, fino al raggiungimento di un accordo di pace lo scorso settembre.

Più di recente la contesa tra i due paesi ha riguardato invece le Maldive, considerate un luogo strategico per le rotte commerciali sia dalla Cina che dall’India. Nel 2018 era stato costruito un grande ponte costato 200 milioni di dollari, finanziato dal governo cinese, che fu definito “Ponte dell’amicizia tra Cina e Maldive”. Il ponte collega due isole dell’arcipelago delle Maldive, Malé, dove si trova la capitale, e Hulhule, dove ha sede l’aeroporto. L’India, che considera storicamente le Maldive sotto la sua sfera d’influenza, ha quindi deciso di controbattere con la costruzione di un nuovo ponte che collegherà Malé ad altre isole della stessa area, e sarà molto più lungo e costoso (500 milioni di dollari).

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