Facciamo troppo rumore negli oceani

L'inquinamento acustico delle attività umane danneggia molti animali marini: sarebbe facile da ridurre, ma è più probabile che aumenterà

Un gruppo di delfini nuota di fianco a un'imbarcazione vicino a San Pedro, in California, nel 2014 (AP Photo/Richard Vogel, La Presse)
Un gruppo di delfini nuota di fianco a un'imbarcazione vicino a San Pedro, in California, nel 2014 (AP Photo/Richard Vogel, La Presse)

Nei documentari sulla natura le scene ambientate sott’acqua sono di solito accompagnate da musiche orchestrali ed effetti sonori ovattati, e quando facciamo snorkeling sentiamo più che altro il suono del nostro respiro: per questo conosciamo poco i rumori dell’oceano. Quando sentiamo dire “suono” e “mare” pensiamo generalmente al rumore della risacca delle onde, perché il punto di vista umano è quasi sempre esterno all’acqua. In realtà i mari e gli oceani hanno un proprio paesaggio sonoro, importante per molti animali marini che usano i suoni per comunicare tra loro, orientarsi e sfuggire ai pericoli. Le attività umane però sono responsabili di varie forme di inquinamento acustico anche negli oceani, diventate sempre più rumorose, a scapito di molte specie animali, dai grandi cetacei alle meduse.

Nell’acqua la luce viaggia in modo diverso e si riesce a vedere entro un raggio minore rispetto a quanto accade sulla terraferma, circondati dall’aria. Anche le tracce chimiche, quelle che si percepiscono con l’olfatto e su cui fanno affidamento molti animali terrestri, sono meno affidabili in acqua: se un animale dista più di qualche centinaio di metri da una fonte di segnali chimici, non sarà in grado di percepirli. Per quanto riguarda invece gli stimoli sonori il discorso è diverso: gli animali marini possono sentire o percepire con l’ecolocalizzazione (la versione naturale del sonar) la presenza di altri animali o ostacoli in certi casi anche a centinaia di chilometri di distanza.

È risaputo che i delfini e le balene comunicano con i loro simili a grandi distanze, ma anche per certi piccoli pesci i suoni sono importanti. Ad esempio, i giovani pesci pagliaccio, che nella prima fase della loro vita vengono trascinati in mare aperto dalle correnti nella forma di larve, trovano le barriere coralline dove trascorreranno la propria vita adulta grazie ai tanti suoni prodotti dalle numerose creature che ci vivono.

I suoni di una barriera corallina, in un podcast del Guardian:


Gli scienziati si sono messi ad ascoltare i suoni degli oceani nella seconda metà del Novecento con la diffusione degli idrofoni, microfoni progettati per essere usati sott’acqua e raccogliere i suoni sottomarini. È grazie agli idrofoni ad esempio che negli anni Sessanta il biologo americano Roger Payne scoprì i “canti” delle megattere, per poi farli conoscere con il disco Songs Of The Humpback Whale sensibilizzando l’opinione pubblica sulla caccia alle balene. Da allora moltissimi biologi si sono specializzati nell’ascolto delle specie marine e hanno studiato che impatto hanno sulla loro i vita i rumori di origine umana, quelli causati dalle navi, da certe modalità di pesca, dalle piattaforme petrolifere e dalle esercitazioni militari, ad esempio.

Suoni prodotti dallo zooplancton registrati nell’oceano Atlantico dall’artista Jana Winderen: 

Le conseguenze di queste forme di inquinamento acustico sono state riassunte e spiegate in un articolo pubblicato sull’autorevole rivista Science: s’intitola “The soundscape of the Anthropocene ocean”, cioè “Il paesaggio sonoro dell’oceano dell’Antropocene”. Antropocene è il nome che molti studiosi usano per descrivere l’attuale era geologica, cominciata quando le attività umane hanno iniziato a modificare l’ambiente terrestre, con il riscaldamento globale e non solo. Hanno collaborato all’articolo 25 autori di tutto il mondo: sotto la guida di Carlos Duarte, ecologo marino dell’Università Re Abdullah per la Scienza e la Tecnologia dell’Arabia Saudita, hanno passato in rassegna più di 10mila studi diversi sugli effetti dell’inquinamento acustico prodotto dalle persone sulla vita negli oceani.

In breve, l’articolo dice che i rumori prodotti dalle attività umane hanno effetti negativi sugli animali marini. Per il gran numero di ricerche che sono state fatte sappiamo che vale in particolare per i mammiferi marini, come le balene e i delfini, ma anche le foche. Ci sono degli studi che sono giunti a conclusioni simili anche per quanto riguarda specie di invertebrati, uccelli e rettili marini. «Ci sono prove evidenti del fatto che il rumore compromette le capacità uditive degli animali marini ed è causa di cambiamenti fisiologici e comportamentali», dice l’articolo, mentre «ci sono meno prove del fatto che i rumori prodotti dalle attività umane aumentino la mortalità degli animali marini».

Gli animali marini si possono adattare e si sono adattati al rumore causato dalle persone in vari modi. Molti di loro si allontanano dalle fonti di rumori che li disturbano: le balene ad esempio imparano a evitare le principali rotte di navigazione e i banchi di pesci riescono ad allontanarsi dal rumore di un’imbarcazione che si avvicina. Alcuni animali però non hanno modo di spostarsi molto: è il caso ad esempio dei cetrioli marini, che vivono sui fondali e si muovono molto lentamente. Quando poi le attività umane – ad esempio quelle legate alle esercitazioni militari – causano rumori forti e improvvisi, gli animali marini possono restare assordati: le cellule ciliate grazie a cui sentono i suoni possono ricrescere nei pesci, ma nei mammiferi marini probabilmente no.

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Poi ci sono i casi in cui certi rumori prodotti dalle attività umane non sono temporanei, ma permanenti, e quindi possono spingere gli animali ad abbandonare una certa area in maniera definitiva. Stava per succedere intorno alle isole dell’arcipelago Broughton, nell’ovest del Canada, dove si trovano molti allevamenti di salmoni. In passato, per tenere lontane le foche che se ne cibano, gli allevatori usavano dei dispositivi che producono dei rumori per loro fastidiosi. Ma l’allontanamento a lungo termine delle foche causò il declino della locale popolazione di orche, che le cacciava. Solo dopo la rimozione dei dispositivi il numero di foche, e quindi di orche, tornò ad aumentare.

Quella delle orche dell’arcipelago Broughton è dunque una storia a lieto fine, ma per gli animali che vivono solo in un certo ambiente e non possono sopravvivere spostandosi, un problema di inquinamento acustico può contribuire all’estinzione di una popolazione.

Secondo gli autori dell’articolo, però, non bisogna allarmarsi troppo anche perché quello acustico è un tipo di inquinamento più facile da ridurre rispetto per esempio alle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera o alla diffusione di certe sostanze chimiche in mare o nell’aria. Steve Simpson, biologo marino dell’Università di Exeter e uno degli autori dell’articolo, ha detto al New York Times: «Il rumore è più o meno il problema più facile da risolvere negli oceani. Sappiamo esattamente cosa lo causa, sappiamo dov’è e sappiamo come fermarlo».

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Molte soluzioni all’inquinamento acustico infatti esistono già e sono anche piuttosto semplici: basterebbe far rallentare alcune navi, modificare un po’ certe rotte di navigazione in modo da non avvicinarsi troppo a certe aree dell’oceano (nei mari certe zone sono densamente popolate da animali marini, mentre altre sono perlopiù disabitate) e cambiare le eliche che fanno più rumore (sono quelle che creano più turbolenza) con altre più silenziose, che esistono già. Un’altra tecnologia già disponibile che si potrebbe usare di più sono dei sistemi isolanti da applicare ai battipali, le macchine che si usano per piantare i pali sui fondali.

La pandemia da coronavirus ha causato, tra le altre cose, una riduzione degli scambi commerciali marittimi e dunque ha ridotto il rumore causato dalle attività umane nei mari. Alcuni ricercatori hanno cercato di capire se gli animali marini ne abbiano tratto beneficio: ad esempio, la biologa Christine Gabriele ha stimato che nella Glacier Bay, in Alaska, il rumore si sia praticamente dimezzato rispetto all’anno precedente e le megattere sono tornate a spostarsi in zone precedentemente molto trafficate. Anche in altre parti del mondo mammiferi marini e squali sono tornati a popolare zone dove in precedenza era raro avvistarli. Per Carlos Duarte significa che basterebbe fare alcuni piccoli cambiamenti per il rumore e gli animali si riprenderebbero immediatamente.

Nei prossimi anni, con la ripresa dei commerci ma soprattutto con lo sviluppo delle attività minerarie sui fondali oceanici, che dovrebbero aumentare, è probabile che faremo sempre più rumore nei mari. Per questo Duarte e gli altri scienziati che si occupano di acustica marina pensano che l’adozione di tecnologie insonorizzanti dovrebbe andare di pari passo con lo sviluppo di queste nuove forme di sfruttamento degli oceani. Finora gli accordi internazionali per la salvaguardia degli ecosistemi marini non hanno mai tenuto conto dell’inquinamento acustico e del suo impatto sugli ecosistemi oceanici: gli autori dell’articolo sperano che il loro lavoro faccia sì che in futuro questo aspetto non venga trascurato.

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