Dragheremo gli oceani

Molti pensano che estrarre minerali dai fondali sia l'unico modo per sostenere lo sviluppo e la transizione verso l'energia pulita, ma ci sono rischi enormi

(MIT/YouTube)
(MIT/YouTube)

Sui fondali oceanici del pianeta, in corrispondenza di formazioni geologiche particolari nascoste nell’oscurità a migliaia e migliaia di metri di profondità, giacciono minerali  sempre più richiesti dall’industria globale. Non sappiamo ancora in che quantità, ma investitori e governi di tutto il mondo si stanno muovendo da anni per trovare il modo di estrarli, e per farlo per primi. L’estrazione mineraria nelle profondità marine è una pratica che potrebbe diventare tanto fondamentale quanto controversa, nei prossimi decenni, e pone questioni delicatissime su quale sia il prezzo accettabile per sostenere lo sviluppo umano.

Avremo sempre più bisogno di certi metalli
I metalli – preziosi e non – sui fondali marini che interessano ai sostenitori delle estrazioni in alto mare sono principalmente oro, argento, rame, cobalto, nichel, manganese e zinco. Oro e argento sono usati nei circuiti elettronici, il rame nei cavi, mentre cobalto, nichel, manganese e zinco sono utilizzati abbondantemente per le batterie elettriche. Sono materiali già oggi richiestissimi e che lo diventeranno sempre di più, man mano che avverrà l’inevitabile transizione energetica dai combustibili fossili a forme considerate più pulite. I metalli in questione non servono soltanto per le batterie elettriche, che oggi alimentano gli smartphone di tutto il mondo e che saranno sempre più utilizzate con il diffondersi della mobilità elettrica, ma anche per i dispositivi legati ad altri tipi di fonti rinnovabili, come i pannelli solari.

Scienziati ed esperti avvertono da anni che sostenere questa transizione richiederà uno sfruttamento delle risorse minerarie massiccio, con conseguenze potenzialmente devastanti per gli ecosistemi. Le immagini delle enormi miniere di rame a cielo aperto del Nord e Sud America sono una delle manifestazioni più impressionanti dell’impatto ambientale dell’estrazione mineraria legata all’alta tecnologia. Le terribili condizioni di lavoro – che molto spesso riguardano anche i minori – e le violenze armate legate al coltan del Congo sono altrettanto note. Anche per questo, a partire dagli anni Sessanta si è esplorata la possibilità di estrarre questi metalli dai fondali marini.

La miniera di rame di Bingham Canyon, nello Utah, la più grande al mondo tra quelle a cielo aperto. (AP Photo/Rick Bowmer)

Dove sono, negli oceani
Ci sono principalmente due posti dove i metalli richiesti dal settore tecnologico sono reperibili in fondo agli oceani. I primi sono le sorgenti idrotermali, fratture nel suolo dalle quali esce acqua fino a 400 °C – nelle profondità oceaniche normalmente è a 2°C – che si trovano in zone vulcaniche in corrispondenza di faglie o dorsali oceaniche. Complesse reazioni chimiche fanno sì che l’acqua che sgorga verso la superficie accumuli minerali disciolti, che si separano a contatto con la fredda acqua oceanica accumulandosi in spettacolari formazioni simili a stalagmiti, e che spesso sono il risultato di millenni e millenni di attività geotermica.

L’acqua che sgorga da queste sorgenti rende possibile la vita di batteri che traggono la loro energia non dalla luce solare ma da particolari reazioni chimiche con le quali trasformano sostanze inorganiche in organiche. Questi batteri, a loro volta, sono alla base di ecosistemi misteriosi e floridi, che non si trovano in nessun altro posto del pianeta e che gli scienziati stanno imparando a conoscere soltanto di recente, dopo l’iniziale sorpresa, grazie alle rare e pericolose esplorazioni di profondità. Dai vermi tubo alle lumache di mare, dalle meduse ai crostacei ai pesci, è raro che una nuova missione a queste profondità non scopra nuove specie.

Il secondo posto dove si possono trovare metalli sui fondali oceanici sono delle particolari piane abissali ricche di noduli metallici, formazioni minerali sferiche del diametro di alcuni centimetri che si trovano parzialmente o completamente sepolte. A differenza delle sorgenti idrotermali, in corrispondenza delle quali si trovano soprattutto metalli preziosi, i noduli contengono principalmente rame, manganese, zinco e cobalto, e secondo gli esperti saranno più facili da estrarre rispetto ai metalli presenti in corrispondenza delle sorgenti idrotermali.

Come prenderli
Le tecnologie per l’estrazione mineraria di profondità sono diverse e in fase di sviluppo, ma c’è una cosa certa: sono molto costose. È per questo che i primi tentativi degli anni Sessanta furono accantonati, e fecero perdere un sacco di soldi a chi ci provò. Nella sostanza, comunque, l’estrazione avviene dopo una prima fase di esplorazione del fondale in cui veicoli sottomarini a comando remoto (i cosiddetti ROV) percorrono in lungo e in largo le aree identificate come potenzialmente ricche di minerali, raccogliendo campioni.

Una volta identificato il luogo di estrazione, viene installata una stazione galleggiante o una nave che faccia da base operativa. A quel punto, grazie a veicoli e strutture simili a draghe, il fondale marino viene scavato e i sedimenti vengono fatti risalire alla base o alla nave di supporto, dove vengono separati dai metalli e rilasciati nuovamente in mare.

Conseguenze
Come si può immaginare, un’operazione del genere ha costi ambientali enormi. La principale è la distruzione dei fondali marini: in parte per l’erosione provocata dagli scavi, ma anche e soprattutto per la quantità di sedimenti rilasciati in mare e che in media ammonteranno, secondo uno studio dell’Accademia reale delle Scienze svedese, a oltre 50.000 metri cubi al giorno per ogni stazione mineraria. Abbastanza per riempire un treno merci lungo 25 chilometri. Certe stime sono tre volte superiori. Questi sedimenti, oltretutto, verranno rilasciati migliaia di metri più in superficie rispetto al luogo da cui sono estratti. Significa che percorreranno ecosistemi diversi man mano che torneranno sul fondale, e che saranno trasportati anche a chilometri e chilometri di distanza – anche centinaia e migliaia – dalle correnti marine.

Per quanto riguarda le sorgenti idrotermali, poi, le attività estrattive distruggeranno gli ecosistemi locali: se alcune di queste comunità biologiche sono abituate agli effetti devastanti delle attività vulcaniche, altre sono estremamente stabili perché formatesi nel corso di millenni.

Le preoccupazioni ambientali non finiscono qui: i materiali di scarto dell’estrazione altereranno la composizione chimica dell’acqua, e il rumore delle attività disturberà la fauna marina. Ma gli scienziati avvertono che molte conseguenze dell’estrazione mineraria nelle profondità marine potrebbero non essere ancora note, visto che sappiamo così poco dei fondali oceanici.

Leggi
Le principali leggi che regolano l’estrazione mineraria nelle profondità marine sono contenute nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, che entrò in vigore nel 1994 dopo oltre vent’anni di gestazione. La Convenzione istituì l’Autorità internazionale dei fondali marini (ISA), un ente indipendente con sede in Giamaica il cui scopo è quello di coordinare e controllare le attività minerarie fuori dalle zone economiche esclusive dei paesi, cioè le aree marine che si estendono fino a 200 miglia dalle coste. Come ha spiegato un recente e approfondito articolo di Wil Hylton sull’Atlantic, l’ISA è poco controllato e non è interessato a proibire l’estrazione mineraria sui fondali marini, ma a limitarne l’impatto ambientale e a scegliere i posti dove permetterla, stilando un codice di leggi apposito che dovrebbe essere approvato l’anno prossimo ma la cui compilazione è stata molto lunga e complicata, ed è peraltro ancora in corso.

Ad oggi, l’ISA ha concesso vari permessi esplorativi per l’estrazione mineraria oceanica in tutto il mondo, dall’Atlantico al Pacifico all’oceano Indiano. La zona più attraente per le società minerarie internazionali è la cosiddetta zona di frattura di Clipperton, un’area di circa 4,5 milioni di chilometri quadrati tra le Hawaii e il Messico, e sede di una piana abissale ricchissima di noduli polimetallici. Circa 30 società hanno ricevuto le licenze esplorative, e stanno raccogliendo cifre astronomiche per cominciare le operazioni e sviluppare i sistemi estrattivi, in attesa del via libera definitivo all’estrazione commerciale che dovrebbe arrivare con l’approvazione del codice.

Alcune società hanno però già cominciato a estrarre minerali dalle acque territoriali di diversi paesi, come il De Beers Group in Namibia, dove sono già stati estratte centinaia di chili di diamanti. La Nautilus Minerals ha poi avviato le attività estrattive nelle acque della Papua Nuova Guinea, che comprendono il Solwara 1 Project, il più ricco giacimento minerario conosciuto tra le sorgenti idrotermali, mentre il Giappone ha cominciato a estrarre da un sito al largo dell’isola di Okinawa.

Questioni complicate
John Parianos è il capo delle esplorazioni di Nautilus Minerals, una delle più grandi società del settore delle estrazioni minerarie marine. Il suo progetto al largo della Papua Nuova Guinea è uno dei più promettenti, ma è anche criticatissimo per questioni ambientali, cosa che unita ad altri imprevisti ha complicato il progetto e lo ha reso precario dal punto di vista economico. In un’intervista a Hylton, Parianos ha obiettato alle critiche che le risorse dei fondali oceanici non sono diverse da quelle sulla terraferma, e che esistono ed esisteranno leggi che regoleranno il settore: «Le leggi non dicono: vai in mare e arraffa quello che trovi. Ma non dicono neanche che puoi esplorare l’oceano soltanto per la scienza».

Molti ex dirigenti della Nautilus Minerals, tra cui il fondatore David Heydon, lavorano oggi per DeepGreen, una società che si presenta come il volto sostenibile delle estrazioni minerarie marine e che sostiene di voler sfruttare il settore per salvare il pianeta – nel senso di trovare nuove fonti di sostentamento alternative a quelle fossili – invece che per distruggerlo. Gerard Barron, il CEO di DeepGreen, ha spiegato a Hylton che per produrre una batteria elettrica di un’automobile servono 85 chili di rame, 55 chili di nichel, 7 chili di manganese e altrettanti di cobalto. Se al mondo ci sono circa un miliardo di auto, un’ipotetica transizione totale ai motori elettrici richiederebbe diverse volte la quantità di questi metalli disponibile sulla terraferma.

DeepGreen sta effettivamente sviluppando sistemi tecnologici che riducono l’impatto ambientale delle estrazioni minerarie marine, e dice di voler limitare le proprie attività all’estrazione dei noduli polimetallici, lasciando stare le sorgenti idrotermali. Quella di Barron, al contempo, è evidentemente una posizione che serve principalmente a rendere più accettabile dal punto di vista sociale un settore con enormi potenzialità economiche. Ma come ha scritto Hylton, certe obiezioni dei sostenitori del settore sono più che fondate.

Mi sembra che l’estrazione dai fondali marini presenti un problema epistemologico. I danni dovuti ai combustibili fossili e l’impatto delle miniere sulla terraferma sono evidenti e noti, ma il prezzo di depredare l’oceano è impossibile da sapere. Che creature dobbiamo ancora scoprire sui fondali marini? C’è un modo di calcolare il valore di un ambiente di cui non sappiamo virtualmente nulla? Il mondo è pieno di scelte difficili, naturalmente, ma lo scarto tra due opzioni è raramente così estremo: la crisi climatica e lo sfruttamento del lavoro da una parte, e dall’altra un rischio e un potenziale incommensurabili.