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  • Venerdì 11 ottobre 2019

L’attacco della Turchia potrebbe causare un nuovo flusso di migranti

Nelle scorse settimane c'è già stato un aumento degli sbarchi nelle isole greche, e il timore fondato è che aumentino ancora

(Christopher Furlong/Getty Images)
(Christopher Furlong/Getty Images)

Durante il Consiglio dell’Unione Europea che si è tenuto due giorni fa in Lussemburgo, le attenzioni dei giornali italiani e di molti osservatori europei era rivolta all’allargamento dell’accordo stipulato a settembre da Francia, Germania, Italia e Malta, che prevede un meccanismo di ricollocamento per i migranti soccorsi in mare nei pressi della Libia. In realtà dell’accordo si è parlato molto poco (e con scarsi risultati): buona parte della discussione è stata occupata dall’aumento registrato nelle ultime settimane nel numero dei migranti arrivati in Grecia dalla Turchia, con cifre che non si vedevano da diversi anni. Il tema è diventato ancora più urgente dopo che il governo turco ha iniziato un’operazione militare nel nordest della Siria.

In molti temono che le nuove tensioni potrebbero spingere moltissimi rifugiati siriani che oggi si trovano in Turchia a scappare verso l’Europa, più o meno come successe fra il 2014 e il 2015 lungo la cosiddetta “rotta balcanica“.

Nel 2016 l’Unione Europea e la Turchia strinsero un accordo (criticato e considerato molto controverso dagli esperti di diritto internazionale) che in sostanza vincolava la Turchia a fermare le partenze dei migranti in cambio di aiuti economici per 6 miliardi di euro. Quell’accordo sta diventando sempre più fragile: da mesi la Turchia chiede all’UE più soldi per gestire i migranti, soprattutto i siriani, e alcuni osservatori temono che il governo turco possa cercare di garantirsi una copertura per l’operazione militare nel nordest della Siria – che serve soprattutto ad allontanare i curdi dai territori guadagnati in questi anni – minacciando l’Unione Europea di rompere l’accordo del 2016. Il timore è ormai più che un timore, ad ascoltare la Turchia: «Se proverete a definire questa operazione militare una “invasione”, apriremo le porte e vi manderemo 3,6 milioni di rifugiati», ha detto giovedì mattina il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan parlando a un comizio.

L’accordo del 2016 prevedeva che la Turchia impedisse l’arrivo di migranti in Europa. Se poi qualcuno fosse comunque arrivato – soprattutto sulle isole della Grecia, più vicine alla Turchia che al continente europeo – l’accordo prevedeva che fosse respinto in Turchia. In cambio – oltre a versare sei miliardi di euro alla Turchia – i paesi europei si impegnarono ad accogliere un numero di rifugiati siriani provenienti direttamente dalla Turchia pari a quello dei richiedenti asilo respinti. La Turchia ha dovuto gestire e integrare una mole enorme di rifugiati siriani, circa 3,5 milioni di persone.

L’integrazione dei siriani in Turchia non è stata affatto semplice: in questi anni diverse inchieste giornalistiche hanno raccontato le pessime condizioni in cui vivono i siriani nei campi profughi turchi e la discriminazione e lo sfruttamento sistematico che ricevono nelle città e aziende turche. Alcune città turche sono state poi completamente trasformate dal flusso dalla Siria: nella città di Gaziantep, situata nel sud della Turchia a poca distanza dal confine siriano, la minoranza siriana si è ingrandita tanto da raggiungere il 20 per cento della popolazione totale. Moltissimi di loro vengono da Aleppo, una grossa città siriana che in linea d’aria dista meno di cento chilometri. Qualche tempo fa il New York Times ha raccontato che a Gaziantep i siriani hanno costruito «un intero quartiere di piccole aziende tessili, dove società turche e siriane condividono capannoni e operai. Centinaia di caffè, ristoranti e pasticcerie si rivolgono principalmente ai siriani».

Negli ultimi mesi Erdoğan ha sfruttato il malcontento e le difficoltà nell’integrare i rifugiati siriani per incolparli implicitamente della crisi che sta attraversando l’economia turca da almeno un anno, e delle sue conseguenze concrete come l’enorme aumento del tasso di disoccupazione. «I funzionari turchi stanno inasprendo i controlli sui siriani che lavorano o risiedono illegalmente in Turchia», ha scritto il New York Times, e nel frattempo «i giornali filogovernativi sono diventati sempre più critici nei confronti dei siriani, i padroni di casa hanno aumentato gli affitti e i social network sono pieni di commenti anti-siriani». In alcune città sono iniziate delle prove di deportazione: le autorità locali costringono alcuni rifugiati siriani a salire su dei pullman e li depositano nei pressi della città turca di Kilis, al confine con la Siria.

In questo quadro, già diverse settimane fa Erdoğan aveva annunciato l’intenzione di trasferire circa un milione di rifugiati siriani in una “zona cuscinetto” attualmente occupata dai curdi siriani, così da ottenere due obiettivi strategici con una sola operazione. Il primo era allontanare i curdi dal cosiddetto Rojava, una zona dove negli ultimi anni erano riusciti a ottenere una certa autonomia per via dell’opposizione che avevano portato avanti nei confronti dello Stato Islamico (o ISIS). I curdi siriani da anni combattono una guerra armata contro la Turchia per ottenere uno stato indipendente su un territorio che comprende anche parte dell’odierna Turchia. Il secondo era trasferire in una zona delimitata – si parla di un corridoio profondo circa una trentina di chilometri – una parte dei siriani arrivati durante la guerra civile, nella speranza che la Turchia non debba più occuparsene.

Ad agosto il giornalista del New York Times Patrick Kingsley, che da anni si occupa di immigrazione, aveva intervistato un rifugiato siriano arrivato da poco sull’isola greca di Lesbo, Youssef al-Hassan. L’uomo si trovava in Turchia assieme alla sua famiglia da circa sette anni, ma è stato convinto a scappare di nuovo per via delle prime deportazioni. «In ogni momento avevamo la sensazione che potevamo essere sbattuti fuori: la situazione è arrivata a tal punto che in molti verranno qui».

Fra agosto e settembre, in effetti, gli arrivi via mare dalla Turchia alla Grecia sono stati circa 18mila: era dalla fine del 2016 che non si registravano numeri del genere. Buona parte dei nuovi arrivati sono afghani che vivevano in Iran e Turchia, due paesi dove l’economia sta andando piuttosto male, ma InfoMigrants ha calcolato che più o meno uno su cinque dei nuovi arrivati è cittadino siriano.

L’aumento del flusso ha causato nuovi problemi soprattutto alle isole greche: il campo profughi di Moria al momento ospita circa 13mila persone, a fronte di una capienza massima di circa 3mila, mentre a Samo al momento ci sono circa 5.800 migranti nonostante i centri dell’isola siano in grado di gestirne circa 650. «I nuovi arrivi stanno ulteriormente peggiorando la sicurezza, l’igiene, la salute e altri aspetti nella vita nei campi e nei terreni intorno, e la situazione è diventata critica», ha spiegato a InfoMigrants Astrid Castelein, la referente dell’Agenzia ONU per i rifugiati a Lesbo.

Al momento il timore dei paesi europei è che il governo turco non abbia alcun interesse a fermare il flusso di migranti. Secondo un calcolo di Deutsche Welle, dei sei miliardi di euro promessi alla Turchia l’Unione Europea ne ha sbloccati circa 5,8, ma ne ha effettivamente versati al governo turco solo 2,6. La settimana scorsa un gruppo di funzionari europei ha visitato la Turchia per spingerla a gestire con maggiore efficacia i flussi, ma i turchi si sono lamentati del fatto che i soldi arrivino troppo lentamente (gli europei spiegano che i fondi sono versati nel momento in cui vengono legati a progetti concreti). Erdoğan si lamenta spesso che finora la Turchia abbia speso circa 36 miliardi di euro per occuparsi dei rifugiati siriani, cifra che non è possibile verificare in maniera indipendente.

Nel recente passato la Turchia ha già dimostrato di poter controllare il flusso dei migranti verso le isole greche, almeno in parte. Ad agosto Kingsley aveva notato che le navi della Guardia costiera turca avevano preso l’abitudine di pattugliare il tratto di mare frequentato dai trafficanti soltanto di mattina, mentre gli sbarchi avvenivano regolarmente di pomeriggio. Il 29 agosto circa 13 imbarcazioni con a bordo in tutto 547 migranti sono sbarcate a Lesbo in pieno giorno: «il fatto che i trafficanti turchi siano riusciti a radunare così tante persone in un unico giorno e a mandarle in Grecia una dopo l’altra solleva delle domande sulla possibile complicità delle autorità turche», scriveva Kingsley.

Parlando col Foglio, il ricercatore dell’ISPI ed esperto di immigrazione Matteo Villa ha ipotizzato che «non appena Erdogan avrà spazzato via i curdi, i profughi facciano di tutto per riprendere la via dell’Europa ed evitare di essere spediti in Siria». È un timore condiviso anche da diversi politici europei. «Immagina di essere un rifugiato siriano che vive in Turchia. C’è il rischio che un giorno sarai trasferito nel nordest della Siria: è un fattore che potrebbe generare un nuovo flusso verso l’Europa», ha detto ieri Jean Asselborn, il ministro degli Esteri del Lussemburgo.

La portata del nuovo flusso, se davvero si materializzerà, dipenderà probabilmente da moltissimi fattori fra cui la disponibilità dell’Unione Europea a versare ulteriori fondi alla Turchia. Il sito di news Euractiv ha chiesto alla Commissione Europea se verserà ulteriori fondi nel caso la Turchia li userà per combattere i curdi siriani, e secondo Euractiv la portavoce ha risposto che al momento non esistono le condizioni affinché i rifugiati siriani possano tornare in Siria (in sostanza, evitando di rispondere alla domanda).