Il gusto di attaccare Saviano

Mario Calabresi spiega il compiaciuto giochino con cui i critici di Saviano lo mettono in pericolo

Roberto Saviano. (Gian Mattia D'Alberto/LaPresse)
Roberto Saviano. (Gian Mattia D'Alberto/LaPresse)

Su Repubblica di oggi il direttore Mario Calabresi torna sulla sballata discussione sulla scorta di Roberto Saviano, innescata dal senatore Vincenzo D’Anna di ALA e poi proseguita da Giuliano Ferrara sul Foglio. Calabresi scrive che “I libri di Roberto Saviano si possono criticare, sezionare, smontare, ma in modo onesto e non per strizzare l’occhio ai casalesi”, come scrive abbia fatto D’Anna: c’è differenza tra criticare una persona e rifiutare di proteggerla, e Saviano non si è scelto la vita che si è trovato davanti dopo Gomorra.

Ho incontrato Roberto Saviano per la prima volta a maggio del 2008, il suo libro era uscito due anni prima e da 19 mesi viveva sotto scorta. Aveva 28 anni e stava infagottato in un girocollo di lana blu, anche se a New York faceva già caldo. Era arrivato negli Stati Uniti per partecipare a un festival di letteratura. Venne invitato ad una cena in cui l’ospite d’onore era Salman Rushdie, i due non si erano mai visti e mi trovai tra loro quando cominciarono a parlare di libri pericolosi e di vite blindate. In quel suo primo viaggio americano Saviano venne messo sotto protezione dell’Fbi, l’autore di Versi Satanici invece si muoveva liberamente per Manhattan.

Rushdie gli chiese quando Gomorra aveva cominciato a dare fastidio e Saviano si mise a raccontare: “Quello che non mi hanno perdonato non è il libro ma il successo, il fatto che sia diventato un bestseller. Questo li ha disturbati e più la cosa diventa nota e più sono incazzati con me. Se il libro fosse rimasto confinato al paese, a Napoli, alla mia realtà locale, allora gli andava anche bene”.

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