Il razzismo in America Latina
«È una caratteristica di uno stato comunista come Cuba e di uno liberista come il Cile. È così incistato che il mio amico Carlos Flores per diversi anni si è vergognato di mostrare le mani, e nascondeva il dorso che tradiva le sue origini meticce»

Una sera Rodrigo entrò in camera mia e mi disse: «Sia chiaro che in questa casa non potrai portare fidanzati neri». Ero all’inizio di quello che sarebbe stato il mio anno cubano e lui era il mio padrone di casa. Per quello che ne sapevo la sconfitta del razzismo era una conquista della rivoluzione e Rodrigo era un orgoglioso rivoluzionario. Come giustificava quel divieto? Mi ci volle qualche mese per capire che sull’isola le discriminazioni razziali erano del tutto indipendenti dalle convinzioni politiche. E anche se non arrivai mai ad accettare con disinvoltura le battute sui neri – gli afrodiscendenti che rappresentano almeno il 9 per cento della popolazione, a cui si aggiunge un 26 per cento di mulatti o meticci – finii per considerarle un elemento del paesaggio.
Una delle più frequenti era: «No todos lo negros son delincuentes pero todos lo delincuentes son negros». Ma in quegli anni si sentiva spesso anche: «Sabes cuál es la diferencia entre el Louvre y el PCC de La Habana? Que en el Louvre está la Monna Lisa y en el PCC el Mono Lazo» (Esteban Lazo, che nel 1994 era diventato primo segretario del Partito Comunista di Cuba della città dell’Avana, era uno dei pochi neri arrivati a una posizione così alta e “Mono” vuol dire scimmia).
Erano gli anni del período especial, la drammatica crisi economica che nel 1991 si era abbattuta sull’isola per effetto del crollo dell’Urss e della fine del suo appoggio a Cuba. Se da allora alcune cose sono cambiate, la discriminazione verso i neri resta una costante, radicata al punto che oggi su ventisei ministri due soltanto sono neri. Invariata è anche la percentuale dei detenuti neri e meticci, che è intorno all’80 per cento. Va detto che quando era presidente, Raúl Castro si è dato da fare per aumentare la rappresentatività di mulatti e neri, ma anche che, come ha ammesso lui stesso, «è stato molto difficile».
Cuba non è il peggio, è solo un esempio. In America Latina il razzismo è a tal punto incistato da essere una caratteristica sia di uno stato comunista come Cuba sia di uno liberista come il Cile, che è soprannominato il “giaguaro dell’America Latina”, ha vinto due premi Nobel per la letteratura e ha una capitale, Santiago, che in alcune zone sembra Manhattan e in altre Miami. Sono ancora aggrappati al primato bianco i discendenti dei colonizzatori che arrivarono quasi seicento anni fa: i cosiddetti cuicos, la vecchia aristocrazia terriera a cui si è aggiunta poi quella industriale, i pronipoti degli europei che nei secoli hanno fatto fortuna. Ai cuicos corrisponde tuttora uno status sociale ben definito, scuole esclusive e una precisa collocazione geografica: a Santiago vivono quasi tutti nei quartieri alle pendici delle Ande, nel cosiddetto Barrio Alto in cui molti meticci si spingono ancora con inquietudine.
Più ti avvicini alle montagne e più i quartieri si fanno rarefatti ed esclusivi, e soprattutto popolati in gran parte da vichinghi dagli occhi chiari, la cui vita si risolve negli spazi riservati alla borghesia bianca. A mano a mano che scendi verso plaza de la Dignidad, ex plaza Italia, che è lo spartiacque tra la città bene e quella popolare, ecco che il cromatismo cambia: nel cosiddetto Centro i morenos sono la gran parte. Il Centro è la zona intorno alla Moneda, dove si trovano i palazzi delle istituzioni, ma dove tanti cuicos non vanno volentieri perché ha fama di essere pericolosa e volgare. All’inizio dei miei tre anni cileni facevo fatica a distinguere i cuicos dai turisti europei, ma dopo qualche mese la consapevolezza della superiorità razziale con cui i primi ostentavano il loro colore mi era così familiare che era diventato impossibile sbagliarmi.
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In questo quadro è naturale che qualcuno porti in giro il proprio meticciato con un certo impaccio. Il mio amico Carlos Flores, per esempio, mi ha raccontato che per diversi anni della sua vita si è vergognato di mostrare le mani, e nascondeva il dorso che tradiva le sue origini meticce. Carlos è uno dei registi storici cileni: ex militante del Mir, il Movimento della sinistra rivoluzionaria, subito dopo la caduta della dittatura ha fondato la prima scuola di cinema del Cile, da cui è uscito un regista come Sebastián Lelio, che nel 2018 con A fantastic woman ha vinto l’Oscar per il miglior film straniero.
Per Carlos Flores avere la pelle non completamente bianca penalizza anche quelli che hanno fatto strada come lui, quando ci si presenta in banca o si concorre per un lavoro: «Il dominio coloniale ha condizionato e condiziona ancora la nostra scala di valori, a partire dai canoni estetici. Non c’è cileno a partire da me che non vada matto per le bionde con gli occhi azzurri. Potrebbero avere il naso a carciofo ma il solo fatto di avere quei colori le rende irresistibili perché rappresentano i “conquistatori”, così potenti da aver imposto i propri canoni».
Le cose stanno cambiando, ma troppo lentamente. Un viso dai lineamenti indigeni può ispirare ancora campagne d’odio, come è successo cinque anni fa alla presidente del Collegio dei medici Izkia Siches: una trentenne di origine aymara e la prima donna e morena a ricoprire quell’incarico. Quando attaccò i baroni dal lignaggio cuico come il ministro della Salute Jaime Mañalich per la loro strategia fallimentare nella battaglia al covid, moltissime signore bene le scatenarono contro per mesi una shitstorm basata su tre parole: negra, india e flaite (che starebbe per “mezza delinquente di classe bassa”). Una campagna a cui lei rispose su Twitter: «Sì, sono donna, di sinistra, scura, mezza aymara, con gli occhi a mandorla e ho studiato in un liceo picante che nessuno conosce!» (picante in slang vuol dire buzzurro, ordinario).
La litania dei biondi con gli occhi azzurri mi ha accompagnato per tre anni, ogni giorno, infilandosi anche nei discorsi più lontani da quel tema: mentre mi riportava a Santiago l’imprenditore del rame che avevo intervistato nella sua sontuosa villa di Cachagua, località di mare tra le più esclusive del Cile, mi aveva chiesto quale fosse stata, in Italia, la razza fondante e se fosse bionda e con gli occhi azzurri. Avevo risposto che non esiste una razza fondante, siamo un miscuglio di razze, e lui aveva quasi inchiodato per guardarmi stupefatto: «E gli antichi romani, allora?».
Le vittime del razzismo sono gli abitanti originari e i discendenti degli schiavi neri portati dall’Africa, cioè i protagonisti dello straordinario meticciato a cui si devono molteplici e ricchissime combinazioni culturali del Sud America. Eppure i pregiudizi sembrano inestirpabili. Secondo lo scrittore e giornalista argentino Martín Caparrós è proprio la molteplicità di gradazione del colore ad aver reso i latinoamericani più sensibili alle differenze e quindi più razzisti: «Non è lo stesso essere razzista in bianco e nero, un inglese in India, un belga in Congo, che essere razzista con una tale gamma di sfumature. C’è bisogno di essere molto piú attenti, di essere piú carogne, di essere piú interessati alla faccenda. Il razzismo da noi, il nostro razzismo, è sottile e brutale al tempo stesso».
Stabilire in che paese quel razzismo sia più insidioso, però, è complicato. Alle presidenziali del prossimo novembre nel Cile guidato dalla sinistra, un paese che nella sua storia ha avuto un solo presidente moreno, non c’è un solo candidato che non sia bianco (va precisato che i candidati sono tanto più biondi quanto più si va a destra). Ma nel Perù in cui di presidenti indigeni e meticci ce ne sono stati tre negli ultimi 25 anni, il razzismo non è certo meno grave. Nell’anno e mezzo della sua presidenza che si concluse nel 2022, a Pedro Castillo, maestro di campagna di origine popolare e indigena, toccò affrontare un’opposizione fondata non solo sulla sua incontestabile inadeguatezza, ma anche sul disprezzo di razza.
Altrove in America Latina è accaduto il contrario. Ai tempi in cui in Bolivia i cholos, gli indigeni che rappresentano la maggior parte della popolazione, venivano trattati come paria e considerati alla stregua di animali, a teorizzare la loro superiorità rivoluzionaria fu il sociologo bianco Álvaro García Linera, soprannominato El Jacobino per il suo radicalismo e El Aburrido, il noioso, per la voracità delle sue letture (a quindici anni aveva letto varie volte Il Capitale di Karl Marx).
Durante i cinque anni di galera che si fece come militante del movimento guerrigliero Túpac Katari, García Linera ha raccontato di aver letto novecento libri e intanto ne ha scritto uno in cui delineava il suo pensiero sul marxismo indigeno, una forza rivoluzionaria che contrapponeva al comunismo cadaverico dominante: «Spetta anche a noi, ai bianchi, indianizzarci, assimilare lo spirito delle popolazioni originarie e della loro cultura», disse in pubblico una volta uscito di prigione. Quando Evo Morales si candidò alle presidenziali del 2005 che poi avrebbe vinto, lo volle come candidato alla vicepresidenza, e il Jacobino fu il suo vice per quattordici anni, fino alle dimissioni di Morales nel 2019.
Me la ricordo la figura diafana di García Linera alla cerimonia tradizionale di insediamento del presidente sul monte Tiwanaku. Era avvolto nel tradizionale poncho aymara e stava accanto a Morales, il primo presidente indigeno della Bolivia che, scoprii con stupore in quei giorni, era appoggiato anche da molti bianchi della classe alta, non so se per opportunismo o per sincera convinzione.
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Perfino il presidente della società finanziaria Panamerican Securities, Enrique Herrera Soria, un tipo altissimo con capelli rossi e occhi verdi, mi aveva assicurato che i boliviani erano in fondo tutti indigeni: «Sono orgoglioso che il nostro presidente sia finalmente un aymara!». Il suo ufficio, in uno dei più avveniristici palazzi di Calacoto, quartiere bene e in quanto tale sistemato nella parte bassa della città, era tappezzato di quadri con le foglie di coca realizzati dal pittore Gastón Ugalde, amico personale di Evo. Mi chiesi se quelle tele fossero state sempre lì, anche al tempo in cui Morales da sindacalista si batteva per la legalizzazione della coca, o fossero state sistemate lì un minuto dopo l’elezione.
Con Morales cominciò un’epoca d’oro per gli indigeni. Il nuovo governo approvò leggi che facilitavano a quechua e aymara l’accesso alle professioni da cui erano stati sempre esclusi. Nacque una nuova borghesia chola diversa da quelle precedenti, con forme culturali proprie e nuove, compreso un delirante stile architettonico che mescolava gli sgargianti disegni della tradizione andina con linee all’avanguardia e che divenne un simbolo di status. La città parallela di El Alto si riempì di cholets, palazzi di sette o otto piani nello stile “barocco andino” inventato dal visionario muratore Freddy Mamani Silvestre (si sarebbe laureato in architettura solo più avanti) che veniva invitato dalle più importanti facoltà di architettura del mondo scandalizzando gli architetti locali.
Anche gli abiti della tradizione indigena diventarono il segno distintivo delle ricche cholas: bombín e polleras arrivarono a costare decine di migliaia di dollari. La fierezza per la propria identità indigena sembrava essere decollata una volta per sempre e invece nel censimento del 2012 saltò fuori che a considerarsi indigeno era solo il 41 per cento della popolazione, contro il 62 per cento del 2001. Com’era possibile? Il censimento era stato fatto con criteri abborracciati come denunciarono alcuni o la tendenza al blanqueamiento (cioè alla “bianchizzazione”) aveva cominciato a contagiare le popolazioni originarie proprio quando avevano conquistato libertà, ricchezza e potere?
L’attivista femminista boliviana María Galindo parla di odio per sé stessi e per le proprie origini. Per Galindo un segno di questa aspirazione ad avvicinarsi ai discendenti degli europei è l’abitudine molto diffusa tra le meticce di tingersi i capelli di biondo, come fa Jeanine Áñez, presidente della Bolivia nel 2019 e 2020.
Ma il fenomeno del blanqueamiento lo incontri ovunque, anche se le manifestazioni variano. In Messico i bianchi sono tra il 5 e il 9 per cento a seconda degli studi, ma se guardi cinema e tv sembrano la netta maggioranza. Molti attori meticci si sono lamentati di essere chiamati a interpretare solo narcotrafficanti e poveracci. A questa discriminazione qualcuno (tendenzialmente bianco) risponde che esiste un razzismo anche verso di loro, come dimostra il neologismo dispregiativo whitexican che si è imposto negli ultimi anni, ma è chiaro che il piano è molto diverso. In ogni caso c’è la consapevolezza del problema.
Invece in Argentina decine di persone hanno cercato di convincermi che nel loro paese non ci sono stati neri, perché gli schiavi africani che arrivarono furono subito fatti fuori da malattie e guerre. Naturalmente è una sciocchezza, ma è indicativa della paura di ammettere di avere sangue nero nelle vene. Una paura che arriva a negare anche la presenza di popolazioni indigene. Nel 2021, durante un incontro a Buenos Aires con il premier spagnolo Pedro Sánchez, l’ex presidente Alberto Fernández, peronista, ha dichiarato con orgoglio che i fondatori del paese arrivarono in nave dall’Europa: come dire che prima dei colonizzatori europei quel posto era disabitato. Niente popolazioni originarie, solo deserto, pampa e pinguini. «E invece gli argentini dovrebbero finalmente tirar fuori la nonna nera dall’armadio», ha scherzato l’attivista afro Carlos Álvarez in un’intervista alla BBC.
Il blanqueamiento arriva anche da chi non ti aspetti. Per esempio l’attivista dei diritti umani in Araucanía, terra di mapuche del centro-sud del Cile, mi ha assicurato con fierezza: «Io sono winka», cioè «bianco». In realtà era un mapuche appena più slavato. A volte il blanqueamiento consiste nel tentativo di sbiancare il colore dei propri discendenti mettendoli nelle condizioni di incrociarsi con partner più chiari. Chiedo al carabiniere pinochetista che arrotonda facendo il tassista per pagare ai figli la proibitiva retta della facoltà di medicina all’università Católica se ai suoi figli piaccia quell’ambiente cuico e lui pesta un pugno sul cruscotto: «Deve piacergli! Sarà il loro ambiente, un giorno». Aveva la faccia più andina che ricordi di aver mai visto in Cile, occhi minuscoli che si inumidiscono per la commozione. «Chissà che non mi tocchi un nipote biondo. Occhi azzurri come quelli de mi General».
Con Óscar Contardo, il giornalista che ha raccontato con più profondità e ironia, soprattutto nel libro Siútico, le dinamiche razziali e di classe della società cilena, abbiamo scherzato molte volte sul modo anacronistico di ostentare i colori chiari e nascondere o negare quelli scuri. Secondo Contardo esiste ancora la gerarchia assimilata dai conquistatori per cui il posto nella scala sociale dipende dalla quantità di sangue indigeno nelle vene. Le cose, insomma, non sono cambiate salvo che per una minore impunità: «Se oggi qualcuno dà dell’indio a un indigeno o a un meticcio», mi ha detto, «quello lo scrive sui social, additandolo alla riprovazione pubblica».
Ma è soprattutto l’immigrazione a cambiare le dinamiche del razzismo in Cile, in particolare l’arrivo massiccio di immigrati dal Venezuela e da Haiti. I primi sono più di 700mila e la voce popolare su cui soffia la destra attribuisce a loro l’aumento clamoroso della criminalità. La mia amica Pilar, brillante avvocata dai lineamenti fortemente andini, scherza sul fatto di essere salita di vari gradini nella scala sociale con l’arrivo degli haitiani. A fine Settecento, ha raccontato nel romanzo Quando le anime si sollevano lo scrittore Madison Smartt Bell, gli haitiani non bianchi contavano 64 diverse gradazioni di colore, ognuna delle quali corrispondeva a un preciso gradino nella gerarchia sociale. Oggi quelle gradazioni sono tre, neri mulatti e bianchi. I veri haitiani sarebbero i neri, ma sono anche i più disgraziati. E sono proprio loro a essere emigrati in Cile.
Riccardo Badini, andinista che insegna Lingua e letterature ispano-americane all’università di Cagliari, sostiene che il concetto di identità etnica andrebbe rivisto, considerato qualcosa di fluido e mutevole, e questo anche se nel continente il razzismo rimane feroce. Qualche settimana fa la nota catena commerciale Falabella ha utilizzato come modella per la pubblicità del giorno della mamma una signora mulatta facendo insorgere sia la destra che una parte della sinistra. A destra perché vogliono le ragazze bionde con gli occhi azzurri che si sono sempre viste nelle pubblicità, e pazienza se un’esigua minoranza di cilene ha quei colori. A sinistra perché sostengono che Falabella avrebbe dovuto utilizzare una modella con lineamenti indigeni, dato che i mulatti non sono rappresentativi dei cileni ma semmai di una parte dei venezuelani, i nuovi arrivati. Quando si è scoperto che in realtà la signora era italo-cubana, si è aperto un altro fronte di polemiche. È finita che Falabella ha cancellato le immagini della campagna dai social. Oggi le signore sulla pagina dedicata al Día de la Madre 2025 del sito cileno sono di nuovo tutte bianche.