• Mondo
  • Domenica 10 novembre 2019

Evo Morales è stato costretto a dimettersi

Il presidente boliviano ha rinunciato al suo incarico dopo essere stato scaricato dall'esercito, ma ha parlato di «colpo di stato»

Evo Morales (AP Photo/Juan Karita)
Evo Morales (AP Photo/Juan Karita)

Il presidente boliviano Evo Morales si è dimesso domenica poco prima delle 17.00 ora locale (le 22 circa in Italia), facendo quello che gli era stato chiesto poco prima dal comandante della polizia e dal capo dell’esercito della Bolivia, il generale Williams Kaliman. Kaliman aveva fatto capire che l’esercito era pronto a intervenire se la sua volontà non fosse stata rispettata: i militari si erano schierati contro Morales dopo tre settimane di violente proteste in tutto il paese, iniziate a seguito della diffusione dei risultati delle ultime elezioni presidenziali, ufficialmente vinte da Morales ma contestate dall’opposizione.

Annunciando le sue dimissioni Morales ha parlato di «colpo di stato» portato avanti da «forze oscure che hanno distrutto la democrazia» e ha dichiarato che era stato emesso un mandato di arresto «illegale» nei suoi confronti, informazione smentita dal comandante della polizia, Vladimir Yuri Calderon, ma confermata da uno dei principali oppositori dell’ex presidente, Luis Fernando Camacho, che ha avuto un ruolo fondamentale nel movimento che ha portato alle sue dimissioni. Camacho ha scritto su Twitter: «Confermato!! Ordine di arresto per Evo Morales!! La polizia e i militari lo cercano nel Chapare». La provincia di Chapare si trova nella parte centrale della Bolivia ed è considerata la roccaforte di Morales. Non è comunque chiaro se l’ex presidente si trovi ancora nel paese o se sia invece scappato. Il Messico gli ha offerto asilo politico e ha ospitato almeno venti membri dell’ex governo nella propria ambasciata di La Paz.

Dopo Morales hanno presentato le proprie dimissioni anche il vicepresidente, Álvaro García Linera, i presidenti del Senato e della Camera bassa del parlamento, diversi ministri e deputati. Secondo la legge boliviana, in assenza del presidente e del vicepresidente, la presidenza spetterebbe al presidente del Senato. Tuttavia, anche Adriana Salvatierra si è dimessa domenica e la presidenza del paese è stata dunque rivendicata dalla vicepresidente della camera alta, l’oppositrice Jeanine Anez: «Sono la seconda vicepresidente e, nell’ordine costituzionale, dovrei assumere questa sfida ad interim con l’unico obiettivo di convocare nuove elezioni».

Nel frattempo, la polizia, su ordine della procura che stava indagando sulle irregolarità del voto dello scorso ottobre, ha arrestato la presidente del Tribunale Supremo Elettorale (TSE) Maria Eugenia Choque e il vicepresidente del TSE Antonio Costas. Il leader dell’opposizione, l’ex presidente Carlos Mesa, ha scritto su Twitter che oggi in Bolivia è «finita la tirannia». Per le strade i manifestanti hanno iniziato a festeggiare e ci sono notizie di attacchi e saccheggi alle residenze di alcuni ex ministri e alla sede dell’ambasciata venezuelana a La Paz.

Poco prima dell’intervento dell’esercito, Morales aveva annunciato nuove elezioni per «pacificare il paese» e cercare di calmare le proteste in corso da settimane: il voto dello scorso 20 ottobre era stato considerato non valido dalle opposizioni e da diverse organizzazioni internazionali, tra cui la OAS, l’Organizzazione degli Stati americani. L’annuncio di nuove elezioni non era bastato a riportare la calma. Nel pomeriggio si erano dimessi il presidente della camera bassa del Parlamento, Victor Borda, dopo che la sua casa a Potosi era stata incendiata, il ministro delle Miniere César Navarro, «per preservare la sua famiglia», e il ministro degli Idrocarburi, Luis Alberto Sanchez.

Alle elezioni del 20 ottobre ci si aspettava un ballottaggio tra Morales (al potere dal 2006) e lo sfidante Carlos Mesa (presidente dal 2003 al 2005), ma alla fine era stata dichiarata la vittoria di Morales già al primo turno. Secondo i dati ufficiali, Morales aveva ottenuto il 47,07 per cento, contro il 36,51 per cento dello sfidante Carlos Mesa. Per vincere al primo turno Morales aveva bisogno di oltre il 50 per cento dei voti oppure del 10 per cento di vantaggio sui suoi avversari. Grazie a un piccolissimo scarto Morales era quindi riuscito, seppur senza raggiungere il 50 per cento dei voti, a evitare il ballottaggio e diventare di nuovo presidente.

Decine di migliaia di boliviani avevano però iniziato a protestare contestando i risultati, giudicati sospetti da molti per via di alcune stranezze nella diffusione dei dati. I risultati di un conteggio preliminare dei voti – diverso da quello ufficiale, e organizzato per dare maggiore trasparenza al processo – davano infatti i due candidati più ravvicinati, entro i dieci punti. Poi però il Tribunale Supremo Elettorale aveva smesso di aggiornare i risultati per un giorno, e quando aveva ripreso lo scarto tra Morales e Mesa si era allargato appena sopra ai dieci punti, distacco poi confermato dal conteggio ufficiale.

Nelle ultime settimane le proteste si erano fatte più intense e diffuse e negli ultimi giorni centinaia di poliziotti si erano ammutinati in diverse città del paese, rinunciando ad affrontare i manifestanti antigovernativi dopo che tre persone erano morte e centinaia erano state ferite negli scontri tra manifestanti e polizia.

Poliziotti incaricati di fare la guardia al palazzo presidenziale di La Paz, sul tetto di una vicina stazione di polizia dopo il proprio ammutinamento, il 9 novembre 2019 (AP Photo/Juan Karita)

Morales è un ex raccoglitore di coca ed è stato il primo boliviano di origine indio a essere eletto presidente. Era al potere da quattordici anni, quando vinse le elezioni per la prima volta: sotto la sua guida, la Bolivia ha attraversato un periodo di grande sviluppo in cui aumentò il PIL e si ridusse drasticamente la povertà, con grandi benefici soprattutto per le famiglie più povere che videro diminuire nettamente le diseguaglianze.