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  • Lunedì 10 febbraio 2025

L’ultimo rilascio di ostaggi non è stato come gli altri

Sabato Hamas ha liberato tre uomini israeliani in pessime condizioni, con una cerimonia molto scenografica che potrebbe complicare le negoziazioni per il cessate il fuoco

(AP Photo/Abdel Kareem Hana)
(AP Photo/Abdel Kareem Hana)
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Sabato 8 febbraio Hamas ha liberato tre ostaggi israeliani nel quinto scambio con prigionieri palestinesi. I tre ostaggi, Ohad Ben Ami, Eli Sharabi e Or Levy, sono apparsi in pessime condizioni fisiche e sono stati costretti a prendere parte a una cerimonia di liberazione organizzata da Hamas come se fosse uno show, con discorsi da un palco, striscioni e schieramento di miliziani e pubblico. L’evento è servito ad Hamas per dimostrare che il gruppo è ancora forte e mantiene il controllo sul territorio della Striscia di Gaza e che quindi il governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non è riuscito nel suo obiettivo di «distruggere» il gruppo.

Allo stesso tempo, l’organizzazione del rilascio e le condizioni fisiche degli ostaggi sono state molto criticate e potrebbero complicare la definizione e l’attuazione delle successive tappe del cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. Anche alcuni dei 183 prigionieri palestinesi liberati da Israele erano in cattive condizioni fisiche, e sette sono stati portati in ospedale per ricevere immediata assistenza medica.

I tre uomini israeliani liberati sabato hanno 56, 52 e 34 anni. Erano stati rapiti il 7 ottobre del 2023 nel kibbutz di Be’eri (Ben Ami e Sharabi) e al festival musicale Supernova (Levy): 491 giorni dopo sono apparsi molto deboli, particolarmente magri, spaventati e fragili. Ben Ami è stato ricoverato per malnutrizione, e le condizioni degli altri due ostaggi sono state definite dal personale medico «pessime».

Persone in attesa del rilascio degli ostaggi a Deir al Balah (AP Photo/Abdel Kareem Hana)

In questi giorni i media israeliani hanno diffuso varie testimonianze sulle condizioni della prigionia nella Striscia, basandosi su racconti anonimi provenienti da ostaggi o dalle loro famiglie. Secondo questi resoconti, per 15 mesi alcuni ostaggi sarebbero stati rinchiusi in tunnel senza luce, troppo bassi per alzarsi in piedi, in catene. Secondo i racconti il cibo consisteva in una pita (un tipo di pane) e non arrivava tutti i giorni, e a volte gli ostaggi non potevano bere per giorni interi. Alcuni di loro sarebbero stati interrogati con metodi violenti e torture: picchiati, legati, imbavagliati fino a rischiare di soffocare, appesi a testa in giù e bruciati con oggetti incandescenti. Alle torture fisiche si sarebbero aggiunte quelle psicologiche: finte liberazioni, obbligo di scegliere quali compagni di prigionia privare del cibo.

Anche le condizioni del rilascio a Deir al Balah hanno suscitato polemiche: accompagnati da miliziani armati i tre ostaggi sono stati portati su un palco, dove è stato loro consegnato un “certificato di rilascio” da parte di Hamas e dove hanno dovuto fare un piccolo discorso in cui di fatto ringraziavano i miliziani che li avevano tenuti in prigionia. Dal palco uno degli ostaggi, Sharabi, ha detto di voler riabbracciare la moglie e le figlie, mostrando di non essere a conoscenza del fatto che sono state uccise negli attacchi del 7 ottobre.

Ohad Ben Ami, Eli Sharabi e Or Levy, sul palco organizzato da Hamas (AP Photo/Mohammad Abu Samra)

Anche una parte dei 183 prigionieri palestinesi rilasciati da Israele (oltre un centinaio arrestati dopo il 7 ottobre e mai processati) come parte dell’accordo sul cessate il fuoco erano in condizioni fisiche pessime: oltre a quelli ricoverati, altri erano particolarmente fragili e magri, alcuni zoppicavano e avevano bisogno di assistenza per camminare. Molti prigionieri hanno raccontato di abusi subìti in carcere, soprattutto dopo l’inizio della guerra a Gaza.

Il governo israeliano ha inoltre vietato alle famiglie dei prigionieri liberati di festeggiare la liberazione, per evitare che lo scambio sia descritto come una vittoria di Hamas: almeno quattro famiglie di prigionieri hanno detto che dei soldati israeliani sono andati nelle loro case in Cisgiordania per vietare le celebrazioni, in alcuni casi ricorrendo alla violenza. I prigionieri liberati condannati per i reati più gravi non potranno tornare a Gaza o in Cisgiordania ma dovranno restare in esilio.

Un prigioniero palestinese riceve assistenza medica dopo il rilascio (AP Photo/Mahmoud Illean)

In risposta alle pessime condizioni degli ultimi ostaggi liberati, Netanyahu ha imposto una riduzione del numero di camion di aiuti umanitari a cui è permesso entrare nella Striscia di Gaza.

Dall’inizio del cessate il fuoco, lo scorso 19 gennaio, Hamas ha riconsegnato 16 ostaggi israeliani e 5 thailandesi, mentre Israele ha liberato 566 prigionieri palestinesi. Entro 42 giorni dall’inizio del cessate il fuoco, ossia il prossimo 2 marzo, dovrebbero essere liberati in tutto 33 ostaggi (sia Hamas che Israele però hanno confermato che otto di loro sono morti) e 1.900 prigionieri palestinesi. Se tutto procederà senza intoppi si chiuderà a quel punto la prima delle tre fasi previste.

I negoziati già difficili sono stati ulteriormente complicati dall’annuncio del piano del presidente statunitense Donald Trump, che prevede che gli Stati Uniti prendano il controllo della Striscia e tutti i residenti palestinesi vadano «a vivere altrove». A questa proposta, enormemente problematica, irrealizzabile e criticata praticamente da tutti (con l’eccezione di Netanyahu e dell’estrema destra israeliana), si aggiungono ora i problemi dovuti alla cattiva condizione degli ostaggi e dei prigionieri rilasciati.

In questi giorni dovrebbero cominciare i negoziati per la seconda fase del cessate il fuoco. Hamas ha fatto sapere di aver già iniziato le discussioni, mentre il governo di Netanyahu ha finora inviato una delegazione di basso livello a Doha, in Qatar (dove si svolgono gli incontri), con il mandato di discutere solo i «dettagli tecnici» dell’accordo.