Come Donald Trump è arrivato fin qui

In pochi anni ha saputo trasformarsi da personaggio televisivo a riferimento della destra americana, tra molte controversie e altrettanti processi

(Alon Skuy/Getty Images)
(Alon Skuy/Getty Images)

Quando Donald Trump annunciò ufficialmente la sua prima candidatura alle elezioni presidenziali, il 15 giugno del 2015, i sondaggi gli attribuivano il 3 o 4 per cento dei voti alle primarie del partito Repubblicano: era il decimo candidato per gradimento sui dodici aspiranti alla nomination del partito (che diventarono poi 17). Trump parlava di una sua possibile candidatura fin dagli anni Ottanta, e nel 1999 aveva organizzato un comitato elettorale per sondare la possibilità di candidarsi con il piccolo partito della Riforma, fondato qualche anno prima dall’imprenditore Ross Perot. Cambiò presto idea e tornò nel partito Repubblicano, continuando a ipotizzare un suo possibile ingresso in politica: ne parlò nel 2004, nel 2008 e nel 2011, ma fu solo quattro anni dopo, verso la fine del secondo mandato del Democratico Barack Obama, che fece l’ultimo passo.

Presentò la sua candidatura dalla Trump Tower, nel pieno centro di New York: era lì che tra il 2004 e il 2017 erano state girate le varie edizioni del reality show televisivo “The Apprentice”, con cui Trump era diventato un personaggio televisivo molto noto anche tra le fasce più giovani della popolazione. Oltre alle attività in tv, per anni portò avanti le attività del padre, un ricco imprenditore nel settore immobiliare, e le diversificò con l’intenzione di trasformare il suo cognome in un marchio noto per gli hotel, i casinò, i campi da golf e i resort, ma anche per le bistecche, la vodka, i giochi da tavolo e i viaggi.

Il discorso con cui annunciò la sua candidatura fece notizia per gli attacchi razzisti e offensivi nei confronti degli immigrati che arrivavano dal Sud America, definiti «criminali» e «stupratori», termini che poi usò varie volte negli anni successivi. In pochi pensarono che partendo così avrebbe potuto fare molta strada in quelle primarie, e in generale nel mondo della politica.

Nessuno avrebbe immaginato la traiettoria che otto anni dopo lo ha portato fino a questa terza candidatura. Trump ha sconvolto la politica statunitense, ha contribuito a un cambio radicale nella natura del partito Repubblicano ed è stato al centro di un evento già considerato storico, l’assalto al Congresso del 6 gennaio del 2021. Secondo alcuni analisti una sua rielezione oggi potrebbe compromettere la democrazia statunitense, consolidata da secoli.

Ben Carson, Donald Trump, Ted Cruz e Jeb Bush in un dibattito di dicembre 2015 (AP Photo/John Locher)

Nel gennaio del 2016, quando cominciarono le primarie del partito Repubblicano, Trump si fece notare fin da subito. Dichiarazioni, comizi e messaggi sui social network particolarmente aggressivi e sopra le righe gli garantirono una copertura mediatica con pochi precedenti, soprattutto sulle reti televisive vicine alla destra, come Fox News. Negli affollati dibattiti Repubblicani, attaccò e in certi casi trattò con ben poco rispetto i suoi avversari.

Il suo messaggio politico si concentrò sul presunto successo delle sue attività da imprenditore («Sono davvero molto ricco»), sul contrasto all’immigrazione («Costruirò un grande, grande, muro con il Messico, e lo pagheranno loro») e poi sull’ipotesi di un divieto di ingresso nel paese per i musulmani, una proposta che prese piede dopo gli attacchi terroristici a Parigi del novembre del 2015, rivendicati dall’ISIS.

Nei caucus in Iowa, Trump arrivò secondo e accusò il vincitore, il senatore texano Ted Cruz, di aver «rubato le elezioni», anticipando una teoria del complotto che usò in molte occasioni negli anni successivi e che ripete ancora oggi. Vinse poi in New Hampshire e in South Carolina, diventando presto il candidato favorito nella competizione interna al partito. A maggio si ritirò anche l’ultimo avversario rimasto in corsa, Cruz.

Dopo essersi assicurato la nomina del partito Repubblicano per le presidenziali del 2016, Trump cominciò una serie di cambi nel suo staff, un comportamento che divenne una costante anche durante la sua presidenza, piena di licenziamenti e dimissioni. Fra i nuovi ingressi si fece notare quello di Steve Bannon, un esponente della destra statunitense accusato già allora di essere estremista, razzista e antisemita.

Trump condusse una campagna elettorale aggressiva: nei suoi comizi era comune la violenza verbale e talvolta si arrivò anche a quella fisica, contro i contestatori. Partecipò ai dibattiti televisivi con la candidata Democratica Hillary Clinton, in cui però non riuscì mai a presentarsi come chiaro vincitore. La attaccò molto sulla questione delle email: tra il 2009 e il 2013, quando era segretaria di Stato per l’amministrazione Obama, Clinton usò il suo indirizzo privato di posta elettronica anche per le cose di lavoro, e poi cancellò circa la metà di quelle email. Non violò alcuna legge, ma furono aperte varie inchieste che indebolirono molto la sua candidatura.

Clinton arrivò al giorno delle elezioni da favorita ed effettivamente vinse il voto popolare con un margine di circa 2,9 milioni di voti. Trump però vinse in alcuni stati considerati in bilico, come Pennsylvania, Michigan e Wisconsin, ottenendo complessivamente 304 grandi elettori, contro i 227 di Clinton (ne servono 270 per essere eletti). Negli Stati Uniti infatti non vince il candidato che ottiene più voti: l’importante è assicurarsi la maggioranza assoluta dei grandi elettori, che sono attribuiti in base alle vittorie nei singoli stati.

– Leggi anche: Come si elegge il presidente degli Stati Uniti

La sua presidenza cominciò con un’indagine dell’FBI su possibili interferenze della Russia nelle elezioni presidenziali appena concluse, mentre la sua prima grande iniziativa legislativa, il divieto di ingresso negli Stati Uniti per i cittadini di sette paesi a maggioranza islamica (il cosiddetto “travel ban”) venne sospesa in seguito a vari ricorsi e alle decisioni di due tribunali federali. Servì una terza versione della legge e una sentenza della Corte Suprema per permetterne l’adozione.

(AP Photo/Evan Vucci)

Nei primi diciotto mesi di mandato Trump scatenò enormi polemiche e monopolizzò il dibattito pubblico, anche a causa della continua pubblicazione di messaggi aggressivi sul social network Twitter (oggi X). Prese tre decisioni molto importanti, che ebbero a lungo ripercussioni notevoli. In primo luogo ritirò gli Stati Uniti dagli accordi sul clima di Parigi, firmati un anno prima e ancora oggi considerati il più importante trattato degli ultimi anni per contrastare il riscaldamento globale. Gli Stati Uniti aderirono nuovamente agli accordi nel 2021, dopo l’insediamento del presidente Democratico Joe Biden.

Trump ritirò il paese anche dall’accordo sul programma nucleare iraniano, firmato da Obama nel 2015 con l’obiettivo di ridurre significativamente la capacità dell’Iran di arricchire l’uranio, un passaggio fondamentale per la produzione di armi nucleari. Con quell’accordo, gli Stati Uniti e gli altri paesi firmatari si erano impegnati a rimuovere alcune delle sanzioni imposte all’economia iraniana negli anni precedenti, che però furono reintrodotte in seguito alla decisione di Trump.

A inizio dicembre del 2017 Trump annunciò inoltre di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, con l’intenzione di spostare lì l’ambasciata statunitense, rendendo chiaro ed esplicito l’appoggio incondizionato alle politiche del governo di destra del primo ministro Benjamin Netanyahu. Sempre nell’ambito della politica estera, Trump impose dei dazi commerciali su alcuni prodotti cinesi, si avvicinò molto al presidente russo Vladimir Putin e approvò l’uccisione del generale Qassem Suleimani, uno degli uomini più potenti dell’Iran, avvenuta nel gennaio del 2020 con un’operazione delle forze armate statunitensi.

A livello economico promosse una serie di sgravi fiscali che favorirono soprattutto le fasce benestanti della popolazione, mentre in politica interna la questione dell’immigrazione dall’America Latina restò centrale: il grande muro promesso durante la campagna elettorale fu realizzato solo in minima parte, le politiche repressive furono notevoli e venne particolarmente criticata la decisione di separare le famiglie di migranti arrivate irregolarmente, allontanando bambini anche molti piccoli dai loro genitori.

L’incontro fra Trump e il presidente russo Vladimir Putin in Vietnam nel 2017 (Jorge Silva/Pool Photo via AP)

Il confronto politico interno divenne più duro e le contrapposizioni più radicali. Ad agosto del 2017 ci furono violenti scontri tra un gruppo di militanti neonazisti e alcuni contestatori a Charlottesville, in Virginia. Una manifestante venne uccisa, travolta da un’auto, e ci furono decine di feriti: Trump si limitò a condannare le violenze di «tutte le parti», senza sottolineare come una delle due fosse composta da suprematisti bianchi. All’interno del partito Repubblicano isolò e progressivamente sostituì la componente più moderata con esponenti del movimento MAGA, un acronimo dello slogan “Make America Great Again” (“Rendi di nuovo grande l’America”), che Trump iniziò a usare fin dalle primarie e ripete ancora oggi.

Durante il mandato di Trump, i Repubblicani accentuarono il loro spostamento verso destra, che comunque era iniziato da tempo, e bloccarono ogni genere di collaborazione con l’opposizione: ci fu anche il più lungo shutdown della storia statunitense, ossia il blocco delle attività del governo federale dovuto alla mancata approvazione della legge di bilancio, spesso a causa dell’incapacità dei partiti di trovare un accordo.

Trump nominò anche tre giudici alla Corte Suprema, dando alla più importante istituzione giudiziaria del paese un indirizzo fortemente conservatore destinato a durare per decenni: scelse Neil Gorsuch nel 2017, Brett Kavanaugh nel 2018 e Amy Coney Barrett nel 2020. A queste nomine si aggiunsero quelle di 234 giudici federali, tutti di orientamento conservatore. Negli ultimi anni la Corte Suprema ha preso diverse decisioni controverse, a partire dall’eliminazione del diritto federale all’aborto, nell’estate del 2022, rivendicato da Trump come un successo reso possibile dalla sua scelta dei giudici.

Trump fu anche messo due volte sotto impeachment, la procedura politica che serve per rimuovere da un incarico la persona che lo ricopre. La prima fu nel dicembre del 2019, quando venne accusato di abuso di potere e intralcio al Congresso. La questione era relativa alle pressioni esercitate da Trump per spingere il governo ucraino e il suo nuovo presidente, Volodymyr Zelensky, ad aprire un’indagine per trovare materiale imbarazzante su Joe Biden, suo possibile avversario alle elezioni presidenziali del 2020. Trump minacciò l’Ucraina di bloccare aiuti per 400 milioni, ma il Senato votò per assolverlo. Fu il terzo presidente sottoposto all’impeachment, dopo Andrew Johnson nel 1868 e Bill Clinton nel 1998.

Durante la sua presidenza si ritrovò anche a dover affrontare la pandemia di Covid-19, che fu gestita in modo piuttosto contraddittorio, con molte dichiarazioni e decisioni apertamente antiscientifiche. Fu un evento enorme e condizionò molto l’ultimo anno di mandato e la campagna per la rielezione, che si tenne per lo più a distanza, con comizi e appuntamenti online.

Biden, diventato nel frattempo il candidato del partito Democratico e quindi l’avversario politico di Trump, fu fin da subito indicato come favorito dai sondaggi. A partire dalla primavera del 2020 Trump iniziò a sostenere che le elezioni presidenziali sarebbero state falsate da brogli, concentrando i suoi attacchi soprattutto sul voto per posta, che lui presentava come particolarmente esposto al rischio di frodi (una tesi infondata).

Il 3 novembre del 2020 la vittoria di Biden alle elezioni fu netta, con 81 milioni di voti contro i 74 milioni di Trump, e soprattutto con 306 grandi elettori contro 232. Trump però si rifiutò di riconoscere la sconfitta, e anzi intensificò le sue denunce di presunti brogli, senza mai portare alcuna prova a sostegno di questa tesi. Con l’aiuto dei suoi più stretti collaboratori elaborò un piano per ribaltare l’esito del voto popolare, facendo pressioni su governatori e pubblici ufficiali per «trovare altri voti» che dimostrassero la sua vittoria, e invitando il vicepresidente Mike Pence a bloccare la normale transizione democratica rifiutandosi di riconoscere la vittoria di Biden.

Il comizio che precedette l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 (AP Photo/John Minchillo, File)

Il 6 gennaio del 2021, il giorno in cui Pence avrebbe dovuto certificare i risultati del voto, Trump tenne un animato comizio e poco dopo una folla di suoi sostenitori assaltò il Congresso degli Stati Uniti, nella capitale Washington: morirono cinque persone, fra cui un agente di polizia. Nei giorni seguenti i principali social media sospesero gli account di Trump, mentre il 13 gennaio la Camera votò per metterlo nuovamente sotto impeachment, stavolta per incitamento all’insurrezione. Prima di lasciare l’incarico concesse la grazia a 170 persone, tra cui diversi suoi collaboratori che erano stati condannati durante il suo mandato.

A quel punto Trump sembrava politicamente finito: alcuni esponenti del partito Repubblicano iniziarono timidamente a distanziarsene e sembrò voler voltare pagina anche Fox News, la televisione di Rupert Murdoch che aveva contribuito alla sua ascesa e sposato le sue proposte politiche, arrivando anche a riproporre molte teorie del complotto sulle elezioni del 2020. Nel processo di impeachment però Trump fu nuovamente assolto e alcuni senatori Repubblicani giustificarono il loro voto contrario alla condanna con l’esigenza di «non restare ancorati al passato». Allora come oggi, da un partito Repubblicano sempre più spostato verso destra, non riuscì a emergere alcun leader capace di presentarsi come un’alternativa convincente a Trump.

Il potere di Trump sul partito si vide anche alle primarie per le elezioni di metà mandato di novembre del 2022, quando i candidati Repubblicani vicini a lui vinsero quasi sempre contro quelli meno estremisti (le elezioni di metà mandato sono quelle in cui si vota per rinnovare la Camera e parte del Senato). Al voto di novembre sembrò che qualcosa potesse cambiare, perché non arrivò la grande vittoria Repubblicana che molti si aspettavano, e ad avere i risultati peggiori nel partito furono proprio i candidati sostenuti da Trump. L’ex presidente però riuscì a distanziarsi rapidamente da quell’insuccesso elettorale e annunciò con largo anticipo la sua candidatura alle presidenziali del 2024.

L’annuncio precoce fu in parte legato anche ai tanti processi contro di lui cominciati dopo la fine della sua presidenza.

Il 30 marzo del 2023 Trump diventò il primo ex presidente a essere sottoposto a un processo penale nella storia degli Stati Uniti, nel caso relativo a un pagamento fatto in modo illecito all’attrice di film porno Stormy Daniels. Fu incriminato di nuovo il 9 giugno, questa volta per avere conservato nella propria villa di Mar-a-Lago, in Florida, alcuni documenti governativi riservati. La terza incriminazione, di inizio agosto, riguardò l’attacco al Congresso del gennaio 2021 e il tentativo di sovvertire l’esito delle elezioni presidenziali del 2020. La quarta, di qualche settimana dopo, fu relativa alle interferenze sul voto in Georgia, volte anche in questo caso a modificarne l’esito.

A questi processi penali se ne aggiunsero altri in sede civile, fra cui uno per frode nello stato di New York, che metteva in discussione i bilanci e il presunto successo delle sue aziende.

Una pausa durante una seduta del processo a New York, nel 2023 (AP Photo/Craig Ruttle)

Anche soltanto una di queste incriminazioni sarebbe sufficiente per mettere fine alla carriera di molti politici, ma la popolarità di Trump all’interno del suo elettorato è sembrata invece crescere dopo l’inizio dei procedimenti penali.

La strategia difensiva di Trump sembra finora quella di presentare le accuse come motivate politicamente e di rinviare il più possibile i processi: anche le partecipazioni in aula come imputato si stanno trasformando in occasioni per fare comizi.

Durante la sua presidenza, il quotidiano statunitense Washington Post istituì un monitoraggio continuo delle sue dichiarazioni, sottoposte a costante fact checking: i giornalisti registrarono 30.573 dichiarazioni false in quattro anni, con una media di 21 al giorno. Furono 492 nei primi 100 giorni, 503 solo il 2 novembre 2020, giorno prima delle elezioni. Quel lavoro giornalistico si è interrotto dopo la fine del mandato, ma l’approccio di Trump nell’attuale campagna elettorale non è cambiato. Continua a proporre “verità alternative”, la formulazione con cui nel 2017 una consulente descrisse le sue bugie.