• Mondo
  • Venerdì 3 gennaio 2020

Chi era Qassem Suleimani, spiegato bene

Era uno degli uomini più potenti dell'Iran, che per anni con diplomazia e con violenza aveva lavorato per aumentare l'influenza del suo paese

Qassem Suleimani, al centro (Office of the Iranian Supreme Leader via AP, File)
Qassem Suleimani, al centro (Office of the Iranian Supreme Leader via AP, File)

Nella notte tra giovedì e venerdì gli Stati Uniti hanno compiuto un attacco coi droni all’aeroporto internazionale di Baghdad, la capitale dell’Iraq, uccidendo il potentissimo generale iraniano Qassem Suleimani, uno degli uomini più noti e popolari in Iran. L’uccisione di Suleimani potrebbe cambiare in modo irreversibile i rapporti tra Stati Uniti e Iran, anche perché il governo iraniano l’ha definita «un atto di guerra».

Per capire di più su quello che è successo e succederà bisogna sapere chi era Suleimani e cosa era diventato per l’Iran e per le sue ambizioni. Nel 2013 Il Post aveva raccontato la  storia di Suleimani riprendendo un lungo e approfondito articolo di Dexter Filkins sul New Yorker: la abbiamo aggiornata per dare conto di cosa sia accaduto da allora.

Chi era Qassem Suleimani, in breve
Suleimani aveva 62 anni e dal 1998 era il capo delle forze Quds, corpo speciale delle Guardie Rivoluzionarie iraniane incaricato di compiere operazioni all’estero.

Per molti anni Suleimani era stato un personaggio quasi misterioso, estremamente influente ma schivo e sul cui conto si sapeva molto poco. L’articolo di Filkins del 2013 era stato uno dei più completi fino ad allora sul suo conto, e aveva messo insieme pareri e storie sui fatti che avevano contribuito alla sua carriera e alla creazione della sua figura pubblica. Da allora, con i suoi interventi nella guerra in Siria e più recentemente in Iraq, Suleimani era diventato molto più noto nel mondo e più potente in Iran; era considerato uno degli uomini più vicini alla Guida suprema Ali Khamenei, la figura politica e religiosa più importante in Iran, e un possibile futuro leader politico del paese.

Chi lo conosceva racconta che fosse dotato di quella qualità che gli arabi chiamano khilib, il carisma. Per l’articolo del 2013 del New Yorker, un ex funzionario statunitense in Iraq aveva detto di lui: «Ci possono essere dieci persone in una stanza, ma quando Suleimani entra non si siede lì accanto a loro. Si siede dall’altra parte, da solo, in un modo molto discreto. Non parla, non commenta, rimane lì seduto e ascolta. E, inevitabilmente, i pensieri di tutti i presenti nella stanza sono solo per lui».

Da dove inizia la storia di Suleimani
Nel 1979, l’anno della rivoluzione islamica guidata dal religioso sciita Ruhollah Khomeini, Suleimani aveva 22 anni: decise di unirsi alle “Guardie Rivoluzionarie”, una forza militare istituita dalla nuova leadership religiosa iraniana per prevenire un possibile colpo di Stato che avrebbe potuto riportare al potere lo scià, il monarca che era stato destituito con la rivoluzione.

Diciotto mesi dopo iniziò la guerra tra Iran e Iraq. Suleimani fu mandato al fronte con una semplice missione: portare rifornimenti di acqua ai soldati. «Sono entrato in guerra per svolgere una missione di 15 giorni e ho finito per star lì fino alla fine», disse diversi anni dopo. Durante gli otto anni di conflitto, i religiosi al potere a Teheran mandarono migliaia di giovani direttamente tra le linee irachene, spesso per “ripulire” i campi minati. Il numero dei morti tra gli iraniani fu molto alto. Suleimani, che nel frattempo aveva iniziato a svolgere missioni di comando, cominciò a sentire molto la pressione e la responsabilità per le perdite di vite umane. Nel suo articolo, Filkins scriveva:

«Prima di mandare i suoi uomini in battaglia, li avrebbe abbracciati uno a uno, per dirgli addio: nei discorsi, tesseva le lodi dei soldati che erano diventati martiri, e chiedeva perdono per non essere diventato martire lui stesso»

Suleimani nelle forze Quds
Dalla fine della guerra tra Iran e Iraq, la storia e le vicende di Suleimani sembrano diventare un film. Verso la fine degli anni Ottanta Suleimani fu mandato al confine orientale per aiutare i ribelli afghani nella loro guerra contro i talebani; gli iraniani vedevano con parecchia ostilità i talebani, principalmente per le persecuzioni nei confronti della minoranza sciita afghana.

Anche qui Suleimani riuscì a farsi una reputazione. Il confine tra Iran e Afghanistan era un territorio molto frequentato dai trafficanti di droga – problema peraltro presente ancora oggi – e molti dei soldati e dei leader locali rimasero coinvolti in affari illegali ed episodi di corruzione. Suleimani si distanziò da questo gruppo di persone e al contrario cercò di frenare le attività illecite, guadagnandosi stima e rispetto tra i suoi soldati.

Nel 1998, Suleimani prese il comando delle forze Quds, un’unità di élite delle Guardie Rivoluzionarie: in arabo il termine “Quds” significa “Gerusalemme”, che i combattenti di questa unità hanno promesso di liberare. Negli ultimi trent’anni le forze Quds sono state per l’Iran quello che la CIA e le forze speciali, assieme, sono state per gli Stati Uniti: uno strumento di intelligence, forza militare e politica estera potente e insieme sfuggente. Il loro compito più importante è stato esportare la rivoluzione islamica iraniana all’estero.

Suleimani usò l’influenza e il potere delle forze Quds per cambiare i rapporti in Medio Oriente in favore dell’Iran, usando tutti i mezzi a sua disposizione: assassinando politici, fornendo armi e sostegno agli alleati e, per più di un decennio, gestendo una rete di gruppi responsabili dell’uccisione di centinaia di americani in Iraq. Nel 2013 John Maguire, ex funzionario della CIA in Iraq, lo descrisse come «l’agente operativo oggi più potente in tutto il Medio Oriente» («e nessuno ha mai sentito parlare di lui»).

Suleimani aveva trasformato le forze Quds in un’organizzazione con una capacità di azione senza precedenti, in grado di compiere operazioni speciali finanziarie, di intelligence e sabotaggio di vario tipo: si stima che oggi le forze Quds comprendano tra i 10 e i 20mila uomini, divisi tra quelli che combattono e quelli che addestrano.

Dopo l’11 settembre, i talebani e l’Iraq
Ryan Crocker, che nel settembre 2001 lavorava per il dipartimento di Stato americano, raccontò a Filkins di avere avuto diversi incontri con gli iraniani prima dell’inizio della guerra in Afghanistan, nell’ottobre 2001: l’Iran era disposto a collaborare con gli Stati Uniti, vista la rivalità decennale con i talebani afghani. Crocker raccontò che durante quei colloqui ebbe la netta sensazione che gli iraniani rispondessero direttamente a Suleimani (lo chiamavano “Haji Qassem”). Prima che iniziassero i bombardamenti sull’Afghanistan, Crocker iniziò a percepire addirittura una certa impazienza da parte dell’Iran, che spingeva per accelerare i tempi delle operazioni. Ne seguì comunque una collaborazione fruttuosa, almeno per la prima parte della guerra afghana.

Il 29 gennaio 2002 cambiò un po’ tutto. Nel suo tradizionale discorso sullo stato dell’Unione, l’allora presidente statunitense George W. Bush incluse inaspettatamente l’Iran nei paesi del cosiddetto “Asse del Male”, che comprendeva anche Iraq e Corea del Nord. Molti dei diplomatici americani che stavano lavorando con gli iraniani furono presi alla sprovvista. Crocker racconta che il giorno dopo incontrò un negoziatore iraniano alla sede ONU a Kabul; era molto arrabbiato e disse a Crocker: «Suleimani è furioso. Si sente compromesso». Gli incontri tra Iran e Stati Uniti finirono lì.

L’anno successivo gli Stati Uniti attaccarono l’Iraq, su una premessa – il possesso di grandi quantità di armi chimiche da parte del regime di Saddam Hussein – che poi si rivelò falsa.

Gli iraniani si opposero all’intervento: le truppe americane erano in Afghanistan, stavano per arrivare anche in Iraq e l’Iran temeva che questo accerchiamento militare avrebbe potuto portare a un attacco diretto. Crocker disse che una volta sconfitto Saddam Hussein, e creato il primo governo provvisorio iracheno, Suleimani iniziò in Iraq una campagna molto aggressiva fatta soprattutto di sabotaggi e poi di attentati. A combattere gli americani in Iraq c’erano già due milizie sciite, le Brigate Badr e l’Esercito Mahdi: la loro parziale imprevedibilità, però, spinse Suleimani a organizzare altre milizie, addestrate in Iran (a volte con l’aiuto di Hezbollah), il cui obiettivo era guadagnare influenza e uccidere gli americani.

Il messaggio di Suleimani a Petraeus
La grande influenza di Suleimani sulla politica estera iraniana era peraltro già stata testimoniata da una delle sue frasi più conosciute, forse la più conosciuta: quella che all’inizio del 2008 rivolse al generale David Petraeus, allora comandante delle forze armate americane in Iraq. Fu un messaggio di testo che il presidente iracheno Jalal Talabani ricevette sul suo telefono e fece leggere a Petraeus. Il messaggio diceva:

«Generale Petraeus, dovrebbe sapere che io, Qassem Suleimani, controllo la politica dell’Iran per quanto riguarda l’Iraq, il Libano, Gaza e l’Afghanistan. Inoltre, l’ambasciatore a Baghdad è un membro delle forze Quds. Colui che lo va a sostituire è, anche lui, un membro delle forze Quds».

Due anni dopo Petraeus parlò della sua battaglia contro Suleimani e disse: «Se si pensa di usare [con l’Iran] i mezzi tradizionali che si usano quando si tratta con un altro ministero degli Esteri, allora diventa tutto molto più difficile. Quello di Suleimani non è un ministero: è un apparato di sicurezza». Petraeus di fatto diede ragione a Suleimani: era lui a fare la politica diplomatica dell’Iran in giro per il Medio Oriente.

Alle forze Quds negli ultimi anni sono stati attribuiti – con diversi gradi di coinvolgimento – anche diversi attentati in giro per il mondo: il più grande e conosciuto fu quello del 1994, quando l’esplosione di una bomba al centro della comunità ebraica a Buenos Aires, in Argentina, uccise 85 persone. Nell’ottobre del 2011 il dipartimento del Tesoro statunitense impose alcune sanzioni sul generale Suleimani per il suo presunto coinvolgimento nella progettazione dell’attentato contro l’ambasciatore saudita a Washington D.C. Poi il confronto tra Suleimani e gli Stati Uniti si è spostato in Siria e nuovamente in Iraq.

In Siria
Per Suleimani la sopravvivenza del regime siriano di Assad era anche una questione di orgoglio: «ci ha detto che gli iraniani faranno tutto ciò che è necessario» per salvare Assad, aveva riferito un ex funzionario iracheno per l’articolo del New Yorker del 2013, aggiungendo di avere sentito Suleimani dire «non siamo come gli americani. Non abbandoniamo i nostri amici». L’amico dell’Iran in quel caso era il regime di Assad, cioè il suo unico alleato rimasto in Medio Oriente. Fino all’agosto 2012, tuttavia, non sembrava che l’Iran fosse interessato a mandare i propri soldati in Siria. Le cose dopo sono cambiate.

Nell’agosto del 2012 i ribelli siriani catturarono 48 iraniani in Siria. Il governo di Teheran disse che si trattava di pellegrini ma nessuno gli credette, né i ribelli né i servizi di intelligence occidentali. Erano combattenti delle forze Quds, dissero loro. Comunque andò, quei 48 iraniani furono “valutati” così tanto che Assad decise di chiederne il rilascio in cambio della liberazione di oltre 2mila ribelli catturati in precedenza. Come scrissero poi molti giornalisti ed esperti di Iran, i 48 iraniani catturati erano molto probabilmente combattenti delle forze Quds: la loro missione in Siria rientrava nell’idea di Suleimani del “non abbandoniamo i nostri amici”. Da lì in poi la presenza di combattenti Quds in Siria, unita a un’altra serie di aiuti, soprattutto finanziari e militari, concessi dall’Iran al regime di Assad, diventò nota.

Suleimani iniziò ad andare a Damasco in diverse occasioni e ottenne importanti vittorie militari, tra cui nel luglio 2013 la riconquista di Qusayr – città di importanza strategica vicina al confine con il Libano – che permise ad Assad di ribaltare l’andamento della guerra azzerando il vantaggio che fino a quel momento avevano i ribelli. La presenza di milizie sostenute dall’Iran in Siria si è da allora normalizzata: negli ultimi anni queste milizie sono state usate da Assad per compiere alcune delle offensive più violente contro i ribelli siriani, per esempio nella sanguinosa battaglia per la conquista di Aleppo.

Gli ultimi anni
Negli ultimi anni, le milizie sostenute dall’Iran in Iraq sono diventate sempre più influenti e il ruolo di Suleimani sempre più diretto. A fine ottobre, due inchieste di Associated Press e Reuters avevano per esempio raccontato come Suleimani stesse influenzando la gestione delle proteste in Iraq degli ultimi mesi, arrivando in un caso a presiedere una riunione di importanti funzionari della sicurezza iracheni che si aspettavano invece la presenza del primo ministro Abdul Mahdi.

L’Iran era intervenuto in Iraq con Suleimani per evitare di perdere influenza, per esempio tramite un cambio di governo che avrebbe potuto favorire un candidato ostile al regime iraniano.

Oltre all’influenza militare costruita in anni di interventi, infatti, le milizie legate all’Iran presenti nel paese – diventate ancora più potenti grazie alle vittorie militari contro l’ISIS – hanno costruito una specie di impero economico: hanno preso il controllo dei progetti di ricostruzione postbellici e hanno sviluppato innumerevoli attività illecite. Tutti questi interessi economici hanno fatto sì che l’Iran sia particolarmente interessato a continuare a contare in Iraq e ad evitare che il paese finisca completamente sotto l’influenza degli Stati Uniti.

Una delle milizie sciite irachene sostenute dall’Iran, Kataib Hezbollah, è quella con cui gli Stati Uniti si sono scontrati nelle ultime settimane. La scorsa settimana gli americani avevano accusato Kataib Hezbollah di avere ucciso un contractor statunitense in un attacco avvenuto in una base militare irachena, e come risposta avevano attaccato la milizia in Iraq e in Siria uccidendone diversi membri. A sua volta, questa azione aveva portato all’assalto dell’ambasciata americana a Baghdad compiuto da miliziani filo-iraniani con la tacita approvazione del governo iracheno.

L’ordine di uccidere Suleimani è arrivato direttamente dal presidente Donald Trump, che non ha informato il Congresso dell’attacco imminente e poche ore dopo si è limitato a pubblicare su Twitter una bandiera degli Stati Uniti. I presidenti americani che lo avevano preceduto avevano scartato l’idea di uccidere Suleimani, per il timore che un’azione di questa portata avrebbe portato all’inizio di una guerra tra Stati Uniti e Iran.