“C’è tensione nel governo”

È un titolo ricorrente sui giornali, che esasperano spesso lo scontro tra i partiti: in effetti a volerla raccontare una conflittualità latente si trova sempre, solo che non anticipa necessariamente una crisi

Foto dall'alto di Palazzo Chigi illuminato di rosa
Palazzo Chigi, la sede della presidenza del Consiglio, vista dall'alto (Filippo Attili/Palazzo Chigi/LaPresse)
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«C’è tensione nel governo» è una frase ricorrente nelle cronache politiche sui giornali, spesso persino nei titoli di prima pagina o negli “occhielli”, cioè la frase a caratteri più piccoli che sovrasta il titolo. Capita anche che su uno stesso quotidiano compaia per molti giorni di fila o a cadenza più o meno regolare per settimane e mesi, senza che alla fine questa tensione porti a qualcosa. Nell’ultimo anno si è scritto di «tensioni nel governo» per il voto parlamentare sul MES, il Meccanismo europeo di stabilità; per i fuorionda dell’ex compagno della presidente del Consiglio, Andrea Giambruno; per le diverse alleanze europee dei partiti di maggioranza; per l’accoglienza dei migranti e per molto altro.

È un po’ un’illusione narrativa, una falsa prospettiva che tende a rappresentare in maniera esagerata piccoli screzi tra i partiti e i leader della maggioranza, o tra ministri del governo. Tuttavia se questa tendenza è così sdoganata è perché in realtà è vero che molto spesso, forse quasi sempre, c’è tensione nel governo. La tensione, se con questo termine si intende una malcelata ostilità che complica i rapporti tra forze politiche che sostengono lo stesso governo, è una componente per certi versi strutturale nelle relazioni tra partiti e leader politici che ambiscono ciascuno a ottenere maggior potere e a esercitarlo come meglio ritengono, cercando di indirizzare gli eventi secondo i propri specifici interessi e le proprie convenienze. L’equivoco sta semmai nella convinzione che quella ostilità debba necessariamente essere il preludio di una crisi o di un fatto clamoroso: non è così.

(Vi avvertiamo, da qui in avanti la parola tensione e derivati verrà usata così tante volte che il suo significato potrebbe risultare sbiadito, alla fine dell’articolo.)

Un governo può nascere in un clima teso, e nascere comunque. E può andare avanti per lungo tempo tra costanti tensioni, senza che queste ne pregiudichino la sopravvivenza e la stabilità. L’esperienza del governo di Giorgia Meloni è un esempio perfetto, la sua nascita era per certi versi scontata: la coalizione di destra aveva nettamente vinto le elezioni del settembre del 2022, e Fratelli d’Italia si era affermato inequivocabilmente come il primo partito della coalizione. Dalle prime ore dopo la fine dello spoglio dei voti si era capito che lo scenario più plausibile era Meloni incaricata di formare un governo sostenuto da Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega.

Andò così, ma nel frattempo ci furono forti tensioni – già – sia per la definizione del ruolo di Matteo Salvini, che ambiva a tornare al Viminale come ministro dell’Interno, sia soprattutto per l’ostilità di Silvio Berlusconi nei confronti dei metodi assertivi adottati da Meloni nello scegliere i ministri. Berlusconi arrivò a mostrare in un appunto alcune offese a Meloni, la quale in maniera altrettanto esplicita gli rispose che lei non era ricattabile. Nel frattempo, la diffusione delle frasi che Berlusconi aveva pronunciato durante un’assemblea coi parlamentari di Forza Italia, in cui rinnovava la propria stima per Vladimir Putin ed esprimeva giudizi critici verso Volodymyr Zelensky, rese ancora più turbolenti quei giorni di trattative, visto che per Meloni il sostegno indiscusso all’Ucraina era un punto irrinunciabile in politica estera.

Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, incontra i giornalisti della stampa parlamentare per il tradizionale scambio di auguri di fine anno, il 18 dicembre 2023 (MAURIZIO BRAMBATTI/ANSA)

In questo crescendo di contrasti e di ripicche, successe che Forza Italia si rifiutò di votare per Ignazio La Russa, il candidato di Fratelli d’Italia scelto da Meloni per la presidenza del Senato, che venne poi eletto con il voto segreto di alcuni senatori dell’opposizione. Ci furono insomma proprio evidenti tensioni: ma alla fine il governo nacque e si dimostrò subito nel complesso piuttosto unito, a dispetto di screzi più o meno latenti che hanno sempre caratterizzato il rapporto tra i partiti di maggioranza, anche adesso.

La discussione sulla scelta dei candidati presidenti nelle cinque regioni in cui si vota nel 2024 ha prodotto settimane di conflitti anche espliciti, scambi di accuse e di minacce, e si è risolta solo dopo la sconfitta della destra alle regionali della Sardegna il 25 febbraio scorso. La Lega, poi, sta vivendo piuttosto male questa fase, per via dei consensi in forte calo e della difficoltà di Salvini nel ritagliarsi un ruolo politico che gli garantisca centralità nel dibattito politico. Da alcune settimane questa difficoltà si è manifestata anche in parlamento.

Soprattutto al Senato, la Lega ha portato avanti alcune iniziative non concordate con Forza Italia e Fratelli d’Italia, pur sapendo che non avrebbero avuto il benestare degli alleati. È successo per esempio con due proposte: quella di estendere oltre i due mandati il periodo massimo di permanenza dei presidenti di regione e un’altra per abolire il ballottaggio nei comuni con più di 15mila abitanti in cui uno dei candidati raggiunga al primo turno almeno il 40 per cento dei consensi. Nel primo caso, la proposta della Lega è stata bocciata sia in commissione sia in aula, e la maggioranza si è divisa. Nel secondo caso, l’emendamento presentato dalla Lega è stato ritirato improvvisamente e trasformato in un semplice ordine del giorno, cioè una raccomandazione non vincolante che il parlamento dà al governo, a quel punto votata da tutti i senatori di destra. In entrambi i casi, esponenti importanti di Fratelli d’Italia hanno esplicitato in vari modi il loro fastidio per le iniziative leghiste.

Tutto ciò non significa che queste tensioni porteranno a una crisi di governo. Anzi, almeno per ora a Salvini non conviene affatto assumersi la responsabilità di fronte al suo elettorato di un atto che segnerebbe la fine anticipata di uno dei governi più solidi degli ultimi decenni, e che ha estesi consensi popolari anche nei territori del Nord, dove la Lega è più radicata.

Ma c’è anche una dimensione che va oltre la ragionevolezza, e che bisogna tenere in considerazione quando si parla di tensioni nel governo e del loro significato, cioè l’imprevedibilità della politica. Soprattutto quella italiana è regolata da logiche abbastanza ricorrenti e dunque prevedibili, ma anche dalle scelte e dagli umori dei singoli leader, che sono spesso imperscrutabili o apparentemente irrazionali. Un esempio di quest’altra dimensione è la vicenda che portò alla crisi del primo governo di Giuseppe Conte, nell’agosto del 2019.

Quel governo era sostenuto da Movimento 5 Stelle e Lega, e si capì fin dall’inizio, cioè dall’estate del 2018, che Salvini era molto più abile di Luigi Di Maio e degli altri dirigenti grillini a trarre vantaggio e a guadagnare consenso da quell’alleanza all’epoca inaspettata. La Lega crebbe nei sondaggi e vinse varie elezioni regionali, poi alle elezioni europee del giugno 2019 i rapporti di forza nel governo si ribaltarono: se alle politiche del marzo 2018 il M5S aveva ottenuto il 32 per cento e la Lega il 17 per cento, sedici mesi dopo la Lega prese il 34 e il M5S il 17 per cento. Da quel momento le tensioni che già da mesi si erano manifestate si esasperarono diventando quotidiane e sempre più forti. Molti commentatori iniziarono a dare per scontata, per imminente, l’ipotesi che Salvini trovasse un pretesto per aprire una crisi di governo e andare così a elezioni anticipate, per capitalizzare il grande consenso accumulato.

Tuttavia a dispetto delle tensioni crescenti Salvini indugiò per settimane, rimandando la scelta. Iniziarono a circolare calcoli un po’ cervellotici in base ai quali l’ultimo giorno utile per Salvini per aprire la crisi di governo sarebbe stato il 5 luglio, così da consentire di svolgere le elezioni anticipate entro la prima metà di settembre, nel rispetto dei tempi tecnici previsti. Questa teoria ebbe peraltro un certo successo, e fu condivisa anche dall’attuale ministro della Difesa Guido Crosetto. Passato quel termine, però, sui giornali e in parlamento si diffuse a quel punto la convinzione opposta: Salvini in realtà minacciava la crisi per ottenere più concessioni dal M5S, ma non avrebbe mai fatto cadere il governo, anche perché ormai si avvicinava agosto e una crisi in piena estate, quando i lavori del parlamento si riducono, sarebbe stata un’anomalia impensabile.

Giuseppe Conte e Matteo Salvini nell’aula del Senato, nel giorno che segnò la fine della loro alleanza al governo, il 20 agosto del 2019 (ETTORE FERRARI/ANSA)

Invece proprio il 7 agosto, con un pretesto piuttosto ardito e cioè una semplice mozione parlamentare in Senato, la Lega aprì la crisi di governo che portò poi non a elezioni anticipate, ma alla nascita rocambolesca del secondo governo di Giuseppe Conte, quello sostenuto da M5S e Partito Democratico.

Sono solo alcuni degli esempi che potrebbero essere fatti per dimostrare come le tensioni nel governo possono avere esiti imprevedibili, oppure non averne affatto. L’esasperata descrizione dei conflitti ordinari all’interno delle maggioranze parlamentari che connota la cronaca politica italiana riflette del resto anche le caratteristiche del nostro sistema costituzionale. In molte grandi democrazie occidentali, come la Francia o gli Stati Uniti, le probabilità che una legislatura termini prima della scadenza naturale e si vada a elezioni anticipate sono praticamente nulle; anche in Spagna o in Germania ci sono norme che rendono difficile aprire una crisi di governo.

Il sistema politico italiano invece ha da sempre un problema di instabilità dei governi, problema che in qualche modo incoraggia i sabotaggi o i logoramenti in parlamento, portando alla formulazione di nuove maggioranze e di nuove alleanze tra i partiti. I governi nascono insomma con una prospettiva di durata piuttosto breve, in un contesto politico strutturalmente litigioso. Tutto ciò succede in un paese che riserva ancora uno spazio enorme alla politica sui quotidiani e nei telegiornali, il cui racconto è quasi sempre concitato. In questo racconto le occasioni di conflitto tra alleati di governo trovano molta più attenzione delle circostanze in cui tutto fila liscio e in armonia (quella di dare più enfasi allo scontro e alle notizie “brutte” è una tendenza generale e per certi versi inevitabile del giornalismo, in realtà).

Ma se il racconto della politica privilegia lo scontro e le tensioni, diventa poi difficile stabilire quando le tensioni sono destinate a sfociare in una crisi e quando, più di frequente, movimentano in maniera meno preoccupante una normale dialettica tra alleati di governo. Molto dipende dalle contingenze, dalle ambizioni e dalle convenienze dei singoli leader, a volte dalla situazione internazionale, altre da semplici incidenti parlamentari.