Luca Zaia ha mandato in tilt la Lega

Sul voto in Senato per consentire un terzo mandato ai presidenti di regione la maggioranza si è spaccata, soprattutto per un cortocircuito nel partito di Salvini

Foto di Zaia in mezzo ad altre persone mentre arriva al Consiglio federale della Lega a Milano
Luca Zaia al Consiglio federale della Lega in via Bellerio a Milano (LaPresse)
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Giovedì la maggioranza di destra che sostiene il governo di Giorgia Meloni si è platealmente divisa. È successo nella commissione Affari costituzionali del Senato, dove si discuteva il decreto-legge cosiddetto “Elezioni”, e in particolare su un emendamento presentato dalla Lega che portava il limite dei mandati consecutivi che un presidente di regione può svolgere da due a tre. E siccome l’emendamento prevedeva che la nuova norma venisse applicata a partire dai mandati successivi all’entrata in vigore della legge, e che dunque il conteggio dei mandati svolti fin qui ripartisse per così dire da zero, di fatto si sarebbero autorizzati i presidenti in carica a prolungare la loro permanenza alla guida delle regioni ben oltre i tre mandati, in alcuni casi anche per venti o venticinque anni.

È la seconda volta in due mesi che la maggioranza si spacca: a fine dicembre era successo alla Camera, sulla ratifica della riforma del MES, il Meccanismo europeo di stabilità che garantisce dei fondi di emergenza agli Stati membri e alle banche che dovessero entrare in difficoltà finanziaria. Come per quel caso, anche stavolta il voto non sembra comunque destinato ad avere ripercussioni sulla tenuta del governo.

Il tema del terzo mandato agita da molti mesi il dibattito politico. La Lega di Matteo Salvini insiste da tempo per permetterlo. Giorgia Meloni ufficialmente ha preso tempo, e durante la conferenza di fine anno, il 4 gennaio, aveva detto di essere «abbastanza laica su questa materia», lasciando che a legiferare fosse il parlamento. Nei fatti, però, Fratelli d’Italia sia alla Camera sia al Senato ha sempre ostacolato i tentativi della Lega di portare a compimento l’idea. L’innalzamento del limite infatti aiuterebbe alcuni presidenti del Partito Democratico prossimi alla scadenza (Vincenzo De Luca in Campania, Michele Emiliano in Puglia, Stefano Bonaccini in Emilia-Romagna). E inoltre prolungherebbe la permanenza di esponenti della Lega alla guida di importanti regioni del Nord (Luca Zaia in Veneto, Attilio Fontana in Lombardia) che il partito di Meloni vorrebbe occupare a sua volta, avendo l’ambizione di esprimere un proprio candidato o candidata presidente al prossimo giro, in virtù del fatto che ora Fratelli d’Italia è il primo partito all’interno della coalizione di destra.

Salvini insieme a Zaia durante il raduno di Pontida della Lega, 17 settembre 2023. (MICHELE MARAVIGLIA/ANSA)

Il tema è particolarmente sentito in Veneto, dove Zaia, forte di un grandissimo consenso popolare, insiste a volersi ricandidare nel 2025 a governare la regione, cosa che fa ininterrottamente dal 2010: sarebbe per lui il quarto mandato. Ne ha già svolti tre, per via del fatto che vengono conteggiati solo gli ultimi due (in Veneto la legge nazionale che poneva il limite di due mandati venne applicata nel 2015, dopo il suo primo mandato). E non è un caso che a presentare l’emendamento siano stati tre senatori veneti della Lega, molto legati a Zaia: Paolo Tosato, Mara Bizzotto ed Erika Stefani.

– Leggi anche: Il Veneto, l’Italia e Luca Zaia in mezzo

Già dalla scorsa settimana, però, la tattica seguita dalla Lega per far approvare l’emendamento è sembrata traballante. Dopo che Fratelli d’Italia e Forza Italia avevano ribadito la loro contrarietà, non restava infatti che sperare in un improbabile sostegno delle opposizioni. Ma il Movimento 5 Stelle ha annunciato subito che avrebbe votato contro l’emendamento. Nel Partito Democratico c’è stato un certo dibattito: la questione del terzo mandato, come dicevamo, sarebbe vantaggiosa anche per qualcuno dei loro. E infatti prima del voto Bonaccini ha provato a persuadere alcuni senatori del PD ad assumere una posizione intermedia, evitando di partecipare alla votazione.

Prima che iniziasse la seduta della commissione, il gruppo del PD si è riunito in assemblea e la scelta di votare contro è stata condivisa a larghissima maggioranza, anche da senatori molto vicini a Bonaccini, come Daniele Manca. Ci sono stati alcuni – pochi – interventi critici, tra cui quello di Alessandro Alfieri, ma alla fine ha prevalso la linea spiegata dall’ex ministro Dario Franceschini: domenica si vota in Sardegna, quindi è fondamentale evitare di mostrare una coalizione di centrosinistra divisa, visto che sull’isola si presenta per una volta compatta. Da qui è discesa la scelta di votare contro insieme al M5S.

A quel punto si è capito che dal centrosinistra non sarebbe arrivato alcun significativo sostegno alla proposta leghista. Ci sono stati dei tentativi di evitare in extremis la spaccatura. Tra gli altri, il presidente leghista del Friuli Venezia Giulia Massimiliano Fedriga, che già giorni fa aveva suggerito pubblicamente al suo partito di ritirare l’emendamento, ha inviato in mattinata una lettera a Roberto Calderoli, ministro leghista per gli Affari regionali.

Nella lettera Fedriga ha chiesto a Calderoli di «programmare un incontro» per avviare «un confronto costruttivo e collaborativo con il governo». Fedriga gli ha scritto nella sua veste istituzionale di presidente della Conferenza delle regioni, cioè dell’organo che rappresenta tutti i “governatori”, e dunque anche a nome dei suoi colleghi. Ma la lettera aveva una valenza più che altro politica: uno dei più importanti dirigenti della Lega che suggerisce di fatto al ministro della Lega competente in materia di rimandare la discussione del terzo mandato a una sede ritenuta più consona.

In un modo quasi del tutto analogo, anche il ministro per i Rapporti col parlamento Luca Ciriani, di Fratelli d’Italia, aveva provato a dissuadere in questi giorni i leghisti. «Ho spiegato loro più volte che non si può intervenire su una materia così delicata attraverso un emendamento a un decreto-legge da approvare in tutta fretta. Meglio farlo con un provvedimento ad hoc, più organico».

Il presidente della Regione Friuli Venezia Giulia Massimiliano Fedriga, a sinistra, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro per i Rapporti con il parlamento Luca Ciriani, a destra, all’adunata nazionale degli alpini a Udine, il 14 maggio 2023 (MASSIMILIANO RAMPONI/ANSA)

Ma ormai per la Lega ritirare l’emendamento avrebbe significato un po’ perdere la faccia e ammettere un fallimento, quindi sono andati al voto. Oltre ai tre leghisti, c’è stato un solo voto di Italia Viva a favore. La conta si è chiusa 16 a 4 e l’emendamento è stato bocciato.

Per i leghisti veneti è andata comunque bene così. La loro tesi è che ora in Veneto tutti sapranno che a voler impedire a Zaia di avere un nuovo mandato è stato Fratelli d’Italia, e questo produrrà effetti elettorali sia alle europee di giugno sia alle amministrative nei 309 comuni veneti in cui si voterà nei prossimi mesi. Il senatore bellunese Luca De Carlo, però, coordinatore regionale di Fratelli d’Italia e con ogni probabilità il candidato che Meloni vorrà proporre alle prossime regionali in Veneto, non condivide affatto questa lettura.

Anzi, confrontandosi con alcuni colleghi di partito subito dopo il voto in commissione ha spiegato che secondo lui la logica seguita dalla Lega in questa trattativa è un’altra: in sintesi, dimostrare chiaramente a Zaia che non ci sono margini per modificare il limite dei mandati e così convincerlo a candidarsi alle europee di giugno, cosa che potrebbe limitare i danni e aumentare le speranze della Lega di ottenere un risultato elettorale non del tutto deludente (attualmente i sondaggi danno Lega e Forza Italia quasi alla pari, intorno all’8 per cento).

Ma Zaia non sembra intenzionato a desistere nonostante la sconfitta della Lega in commissione. «Prendo atto del voto, ma la strada è ancora lunga», ha detto commentando la notizia che arrivava dal Senato. Il fatto che voglia continuare questa battaglia sta infastidendo non solo Fratelli d’Italia, ma anche molti esponenti della Lega. I dirigenti del partito più vicini a Salvini nei giorni scorsi avevano infatti evitato di partecipare alla polemica, spiegando anzi informalmente che la questione non era affatto sentita come prioritaria dallo stesso Salvini. Ed è significativo che il capogruppo della Lega al Senato, il lombardo Massimiliano Romeo, abbia deciso di non gestire lui le trattative in parlamento, come sempre succede con le questioni più delicate, lasciando che a sbrigarsela fossero appunto i firmatari veneti dell’emendamento, e in particolare Tosato, che non è molto in alto nelle gerarchie del partito.