La conferma delle assoluzioni nel processo sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”

Dopo anni di processi, la Cassazione ha scagionato completamente politici e dirigenti dei Carabinieri coinvolti

(ANSA/MASSIMO ALBERICO)
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La Corte di Cassazione ha confermato le assoluzioni nel processo sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia” ai politici e Carabinieri che erano stati coinvolti per anni in uno dei casi giudiziari più noti sui rapporti fra Stato italiano e criminalità organizzata. Le accuse verso i boss mafiosi coinvolti, che invece erano stati condannati in appello, sono finite in prescrizione.

La “trattativa Stato-mafia” è la tesi secondo cui alcuni organi dello Stato avrebbero trattato con la criminalità organizzata siciliana per mettere fine al periodo delle stragi della mafia all’inizio degli anni Novanta, garantendo in cambio un atteggiamento più morbido nei confronti della mafia stessa e dei boss in carcere. Le stragi erano frequenti in quegli anni, e avevano portato alla morte tra gli altri dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i più attivi nella lotta alla mafia, ma anche di diversi civili negli attentati a Milano, Firenze e Roma.

Per anni alcuni giornali e membri della magistratura si sono detti certi che i tribunali avrebbero provato l’esistenza della trattativa, e che i responsabili avrebbero ricevuto pesanti condanne. La Cassazione ha invece confermato le assoluzioni decise nel 2021 nel processo di appello per l’ex senatore Marcello Dell’Utri e gli ex carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno. Il reato di cui erano accusati gli imputati era di “minaccia a un corpo politico”.

La Corte ha fatto anche un passo oltre, cambiando la formula dell’assoluzione: mentre in appello i carabinieri erano stati assolti perché le loro azioni «non costituivano reato», ora sono stati completamente scagionati, nel senso che la Cassazione ha stabilito che «non hanno commesso il fatto». In appello si era cioè ritenuto vero che i carabinieri avessero dialogato con la mafia, ma che lo avessero fatto solo per ragioni investigative e senza esercitare pressioni su politici e ministri affinché cedettero alle richieste mafiose: la decisione della Cassazione ha invece escluso del tutto che questo dialogo sia avvenuto. In appello la formula di “non aver commesso il fatto” era stata usata soltanto per Dell’Utri.

La sentenza d’appello e la conferma della Cassazione hanno quindi contraddetto le conclusioni dell’indagine dei pubblici ministeri Nino di Matteo e Antonio Ingroia, e il successivo verdetto di primo grado che arrivò nell’aprile del 2018: Mori, Subranni, Dell’Utri e Cinnà furono condannati a dodici anni di carcere, Giuseppe De Donno a otto. L’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza, venne assolto. Calogero Mannino, ex ministro del Mezzogiorno, era stato assolto in precedenza col rito abbreviato il 4 novembre 2015, sentenza poi confermata in appello e dalla Cassazione.

Secondo i pubblici ministeri che avevano avviato l’indagine sarebbe stato proprio Mannino, per paura di essere ucciso, a intavolare la trattativa. La sua assoluzione definitiva decisa dalla Cassazione nel luglio 2019 aveva però tolto all’accusa un primo tassello fondamentale: se veniva giudicato non colpevole Mannino, che secondo il pm Di Matteo era stato origine di tutto, l’intero impianto accusatorio era compromesso. L’unico politico rimasto nel processo non era quindi un rappresentante della cosiddetta prima Repubblica, attivo cioè negli anni in cui la trattativa si sarebbe inizialmente sviluppata, ma un esponente della seconda, Marcello Dell’Utri, che fu inizialmente accusato di essere coinvolto in una seconda fase della trattativa, quella del 1994: accuse da cui poi anche lui è stato del tutto assolto.

Sono invece finite in prescrizione le accuse verso i boss mafiosi che erano ancora coinvolti nel processo, il cognato di Totò Riina, Leoluca Bagarella, e il medico Antonio Cinà, anche lui considerato vicino a Riina. La Cassazione ha modificato il reato che gli era contestato, scegliendone uno meno grave: dalla minaccia al Corpo politico dello Stato si è passati alla tentata minaccia, per il quale erano già trascorsi i termini per la prescrizione.

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