La strage di via dei Georgofili, vent’anni fa

La notte tra il 26 e il 27 maggio 1993 esplose una bomba nel centro di Firenze, morirono 5 persone: le foto e la storia

Nella notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993, vent’anni fa, esplose una bomba nel centro di Firenze in via dei Georgofili. Morirono 5 persone e altre 48 rimasero ferite. L’attentato fu attribuito a Cosa Nostra, come risposta all’applicazione dell’articolo 41bis della legge sull’ordinamento penitenziario che prevede carcere duro e isolamento per i detenuti accusati di appartenere a organizzazioni criminali. Quello stesso anno vi furono altri attentati mafiosi che risultarono collegati alla strage di Firenze.

L’esplosione
Alle ore 1,04 del 27 maggio, in via dei Georgofili dove ha sede la celebre Accademia tra gli Uffizi e l’Arno, esplose un Fiat Fiorino. L’esplosione fece crollare la Torre delle Pulci, e morirono quattro componenti di una famiglia che vi abitava: Fabrizio Nencioni e la moglie Angela Fiume, di 39 anni e 36 anni, con le loro figlie Nadia e Caterina (9 anni la prima, 50 giorni la seconda). Nell’incendio di un palazzo vicino morì uno studente di architettura di 22 anni, Dario Capolicchio.

Molti altri palazzi vennero danneggiati: la Galleria degli Uffizi, Palazzo Vecchio, la Chiesa dei Santi Stefano e Cecilia al Ponte Vecchio e l’Istituto e Museo di Storia della Scienza, oltre a numerose opere d’arte conservate in quegli edifici. I danni economici furono enormi: per ricostruire la Torre dei Pulci, riparare la Chiesa dei Santi Stefano e Cecilia, il complesso degli Uffizi e restaurare le opere danneggiate, furono spesi più di 30 miliardi di lire.

La prima ipotesi sull’esplosione fu lo scoppio di una tubatura del gas. Si cominciò a parlare di attentato dopo qualche ora, quando i vigili del fuoco individuarono un cratere largo quattro metri e profondo uno e mezzo. Il procuratore aggiunto Francesco Fleury dichiarò: «L’unico elemento certo dell’indagine è che, data la quantità di esplosivo impiegata, la strage è stata realizzata da una grossa organizzazione criminale». Gli investigatori, grazie al numero del telaio trovato incastrato nel cofano di un’altra macchina, riuscirono a scoprire che il furgoncino che conteneva l’esplosivo era stato rubato la sera prima in via della Scala (vicino alla stazione centrale) ed era stato imbottito con 250 chili di tritolo, nitroglicerina e pentrite, una miscela simile a quella usata in via d’Amelio a Palermo.

Le indagini
Le indagini si basarono inizialmente sulla verifica di chi si trovava in città nei giorni precedenti alla strage, su alcune intercettazioni telefoniche e vari controlli del traffico portuale e aereo. Furono fondamentali anche le testimonianze di alcuni pentiti, primo fra tutti Emanuele Di Natale, un piccolo trafficante di droga. Le sue testimonianze furono incrociate con i dati e gli indizi accumulati a un anno dalla strage, e confermarono che i mandanti appartenevano ai vertici di Cosa Nostra.

Inoltre, risultò che l’attentato era in qualche modo collegato ad altri quattro avvenuti nello stesso anno a distanza di pochi mesi: quello di via Fauro a Roma del 14 maggio (contro Maurizio Costanzo), quello di via Palestro a Milano dove il 27 luglio morirono 5 persone e quelli del 27 e 28 luglio a Roma nelle chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio Velabro. Nel frattempo furono arrestate alcune persone sospettate di essere materialmente coinvolte nell’attentato; e dopo Emanuele Di Natale, anche altri iniziarono a collaborare con la giustizia. Per la ricostruzione dei fatti di via dei Georgofili furono fondamentali le dichiarazioni di Pietro Carra, Gaspare Spatuzza, Vincenzo e Giuseppe Ferro, tutti mafiosi o legati a famiglie mafiose.

Le condanne
Il primo processo sulle stragi che nel corso del 1993 provocarono dieci morti, decine di feriti e danni miliardari in chiese e musei iniziò il 12 novembre 1996, davanti alla Corte d’Assise di Firenze, e si concluse il 6 giugno 1998 con la lettura delle sentenza, dopo 180 udienze e 550 persone sentite in aula: 14 persone (fra cui il latitante Bernardo Provenzano) furono condannate all’ergastolo per aver in diverso modo contribuito materialmente alle stragi. Il secondo processo a carico di Salvatore Riina (in quanto ideatore) e Giuseppe Graviano (in quanto organizzatore) delle stragi, iniziò il 3 febbraio 1999 e dopo 51 udienze si concluse il 21 gennaio 2000 con la sentenza di condanna a due ergastoli, confermata l’anno dopo in appello.

La indagini sulle stragi mafiose del 1993 non si sono mai concluse e ci sono state condanne anche negli ultimi anni: nel 2011 Francesco Tagliavia, a capo di una famiglia mafiosa di Brancaccio, è stato condannato all’ergastolo per aver avuto un ruolo nell’attentato di Firenze. L’ultima condanna è del 23 maggio di quest’anno: il giudice per l’udienza preliminare di Firenze Mario Profeta ha condannato infatti all’ergastolo Cosimo D’Amato, pescatore siciliano accusato di aver fornito il tritolo per le esplosioni di Roma, Firenze e Milano recuperandolo da ordigni bellici non esplosi nel mare della Sicilia. Sia Tagliavia che D’Amato erano stati chiamati in causa dal collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, che a un certo punto aveva accusato anche Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri quali mandanti esterni alle stragi. Il pubblico ministero Gabriele Chelazzi, morto nell’aprile del 2003, aveva archiviato l’inchiesta nel 1998.

I mandanti “a volto coperto”
Durante un interrogatorio nel 1994, il pentito Salvatore Cancemi disse: «Cosa Nostra non ha la mente fina di mettere un’autobomba come quella di Firenze: sono pienamente convinto che questo come gli altri fu un obiettivo suggerito». Nel 1994 il magistrato Piero Luigi Vigna, responsabile delle indagini, affermò che dietro le stragi ci furono «mandanti a volto coperto»:

«Cosa Nostra è divenuta compartecipe di un progetto disegnato e gestito insieme ad un potere criminale diverso e più articolato, dando vita a quello che ben può definirsi “potere criminale integrato” (…) Gli investigatori hanno notato che le sottili valutazioni sugli effetti di una campagna terroristica e lo sfruttamento del conseguente condizionamento psicologico non sembrano il semplice frutto della mente di un criminale comune, sia pure mafioso: si riconosce in queste operazioni di analisi e valutazione una dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi delle comunicazioni di massa e anche una capacità di sondare gli ambienti politici e di interpretarne i segali. Si potrebbe pensare ad una aggregazione di tipo orizzontale in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari (…)».

Durante la cerimonia a Firenze in occasione del ventesimo anniversario della strage di via dei Georgofili, il presidente del Senato Pietro Grasso ha ripreso le parole di Piero Luigi Vigna dicendo che se le sentenze hanno accertato le responsabilità di esecutori e mandanti, almeno di quelli mafiosi, bisogna proseguire nelle indagini «perché gli eventi vengano ricostruiti in tutte le loro implicazioni e sfaccettature, senza aver paura e senza omissioni».