La strage di Capaci

Cosa successe prima, durante e dopo l'attentato mafioso che il 23 maggio 1992 uccise Giovanni Falcone, sua moglie e tre uomini della scorta

di Stefano Nazzi

Il luogo dell'esplosione sull'autostrada A29, nei pressi dello svincolo di Capaci (ANSA)
Il luogo dell'esplosione sull'autostrada A29, nei pressi dello svincolo di Capaci (ANSA)
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A Capaci l’esplosione avvenne alle 17.56 e 48 secondi di sabato 23 maggio 1992. La strage mafiosa più nota e ricordata della storia italiana fu eseguita con 500 chilogrammi di tritolo, nitrato d’ammonio e T4 (ciclotrimetilentrinitroammina): devastò un tratto dell’autostrada A29 all’altezza del cartello dello svincolo per Capaci-Isola delle Femmine, a pochi chilometri da Palermo. L’obiettivo erano le tre auto blindate  che componevano il convoglio che stava conducendo il giudice Giovanni Falcone, 53 anni, e sua moglie Francesca Morvillo, 47 anni e anche lei magistrato, dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo.

La prima, una Croma marrone, fu investita in pieno, completamente distrutta e sbalzata in un campo di ulivi lontano decine di metri. Morirono i tre agenti della scorta: Antonio Montinaro e Rocco Dicillo, entrambi trentenni, e Vito Schifani, di 27 anni. La seconda auto, una Croma bianca su cui viaggiavano Falcone, Morvillo e l’autista Giuseppe Costanza, si schiantò violentemente contro l’asfalto che si era alzato. Falcone, che stava guidando, e Morvillo, seduta al suo fianco, furono scaraventati contro il parabrezza. Morirono poche ore dopo in ospedale. Costanza sopravvisse, così come gli uomini della scorta nella terza auto, una Croma azzurra, Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. 

Gli attentatori usarono un radiocomando normalmente impiegato nei modellini di aeroplani, che inviò un segnale a un apparecchio che a sua volta attivò un circuito elettrico collegato ai fili dei detonatori sulla carica esplosiva. La levetta da spingere per dare il segnale alla ricevente era stata sigillata in tutte le direzioni tranne che in una, in modo che non ci potesse essere errore o la minima esitazione al momento di dare l’impulso. La ricevente era stata realizzata con una scatola di compensato, in cui era stato collocato un motorino elettrico alimentato da batterie da 1,5 volt: una volta attivato, provocava il contatto tra un chiodo e una lamella metallica che chiudeva il circuito elettrico a cui era collegato il detonatore.

L’attentato era stato pianificato da settimane, ordinato da alcuni mesi, deciso da anni. 

Molti collaboratori di giustizia, tra cui Giovanni Brusca, organizzatore ed esecutore della strage di Capaci, negli anni Novanta raccontarono che Falcone era obiettivo della mafia fin dal 1983, da quando cioè fu costituito il pool antimafia di Palermo, la squadra di magistrati che indagò sistematicamente su Cosa Nostra e istruì il celebre maxiprocesso. Dopo l’assassinio del giudice istruttore Rocco Chinnici, che quel pool l’aveva pensato, l’obiettivo principale rimasto era proprio Falcone.

Il proposito di ucciderlo divenne ancora più concreto dopo che l’ex mafioso Tommaso Buscetta iniziò a collaborare con il pool antimafia. Secondo i mafiosi pentiti, l’attentato a Falcone fu rimandato più volte per vari motivi e poi fallì quando venne organizzato il 21 giugno 1989 nei pressi di una villa sul mare che aveva preso in affitto in una località palermitana chiamata Addaura.  

L’auto di Falcone dopo l’attentato (LaPresse)

La decisione di compiere l’attentato, il “botto”, come lo chiamarono gli uomini della mafia, fu presa in due riunioni delle cosiddette commissioni provinciali e interprovinciali di Cosa Nostra palermitana. In realtà si trattò di riunioni “pro forma”: i corleonesi, la cosca vincente, non chiedevano l’approvazione di nessuno, ma convocavano le commissioni e informavano gli altri delle loro decisioni. In realtà a decidere era uno solo, il capo Salvatore Riina, chiamato dai suoi Zu Totò. Era lui, circondato da pochi fedelissimi, Leoluca Bagarella, il numero due, Matteo Messina Denaro, Giovanni Brusca, Nino Gioè e Gioacchino La Barbera, ad aver deciso di organizzare una serie di attentati a politici, magistrati, giornalisti. Fu quella che venne poi chiamata la stagione delle stragi, tra il 1992 e il 1993.

I corleonesi avevano deciso che se la sentenza di Cassazione che avrebbe dovuto concludere il maxiprocesso non avesse cambiato radicalmente l’esito dei primi due gradi di giudizio avrebbero reagito attaccando lo Stato. Gli imputati erano 475, in primo grado le condanne furono 346, di cui 19 ergastoli, per un totale di 2.665 anni di reclusione. Il processo d’appello aveva ridotto in parte le condanne, e gli ergastoli erano diventati 12. Il 30 gennaio del 1992 arrivò la sentenza della Cassazione: le condanne vennero confermate e gran parte delle assoluzioni annullata.

Giovanni Falcone (Ansa)

Un mese e mezzo dopo la mafia uccise Salvo Lima, massimo esponente della Democrazia Cristiana in Sicilia e da sempre, come accertarono i processi, referente delle cosche mafiose. Lima, secondo i corleonesi, avrebbe dovuto fare in modo che la Corte di Cassazione modificasse le sentenze emesse nel maxiprocesso. Non accadde, e il politico fu assassinato la mattina del 12 marzo 1992 appena uscito dalla sua villa, a Mondello.

Quando Lima fu ucciso, i corleonesi avevano già deciso di colpire Falcone. Dopo di lui gli obiettivi erano altri magistrati: Paolo Borsellino fu assassinato, con cinque uomini di scorta, il 19 luglio 1992. Erano stati decisi attentati anche al capo del pool antimafia, Antonino Caponnetto, al ministro della Giustizia Claudio Martelli, a Pietro Grasso che era stato giudice a latere nel maxiprocesso. Questi ultimi tre attentati non vennero eseguiti. Venne deciso anche l’attentato a Maurizio Costanzo, che fu tentato e fallito a Roma il 14 maggio 1993. E poi gli attacchi con esplosivo a Firenze, Roma e Milano nella primavera ed estate del 1993.

A organizzare l’attentato del 23 maggio 1992 fu Giovanni Brusca, considerato da Totò Riina uomo di completa fiducia. Brusca, che aveva già partecipato all’attentato a Rocco Chinnici nel 1983, aveva allora 35 anni, era capomandamento (capo di più famiglie confinanti tra loro) di San Giuseppe Jato. Era entrato a 19 anni nella cosca guidata dal padre, e Riina era stato il suo padrino. Lo chiamavano “scannacristiani” o “u vero”, il porco: quando lo arrestarono ammise di essere mandante o autore di decine di omicidi: «forse 100, non li ho mai contati». 

 

In un primo momento Brusca pensò di organizzare l’attentato a Roma, poi scelse la Sicilia per motivi logistici. Brusca e gli uomini che poi avrebbero fatto parte del gruppo che compì l’attentato fecero sopralluoghi vicino all’abitazione di Falcone: il progetto era quello di piazzare l’esplosivo in alcuni cassonetti della spazzatura ma, così dissero poi i pentiti, si rischiava una strage tra i passanti. Venne individuato un passaggio pedonale sotto l’autostrada A29 ma l’esperto di esplosivi, Pietro Rampulla, spiegò che era troppo largo mentre serviva un luogo piccolo e stretto che amplificasse al massimo l’esplosione. Fu infine individuato un cunicolo di scolo dell’acqua piovana all’altezza dello svincolo di Capaci. 

Le riunioni preparative e le prove dell’esplosivo si svolsero in una casa di Altofonte. Fu individuato il punto da cui avere la visuale su quel tratto d’autostrada e per maggiore sicurezza i membri del gruppo tagliarono alcuni rami degli alberi. Venne studiata l’andatura delle auto da Punta Raisi al luogo dell’attentato, e sul lato della carreggiata venne posto un vecchio frigorifero. Serviva a capire quando premere il radiocomando, una volta oltrepassato dall’auto di Falcone.

Il 23 maggio sette persone attesero in un casolare non lontano da Capaci. Si mossero quando arrivò una telefonata: «Scusi, ho sbagliato». Era il segnale che le auto di scorta si stavano muovendo dal garage della Questura a Palermo per andare a Punta Raisi a prendere Falcone. Un uomo prese una Lancia Delta verde e percorse una strada che costeggiava l’autostrada, fermandosi in uno spiazzo dove erano parcheggiate alcune roulotte. Due persone andarono all’aeroporto, due scesero sul ciglio dell’autostrada, piazzarono la ricevente in un tombino e la misero in funzione .L’esplosivo era stato posizionato, spinto sotto il tunnel con uno skateboard, nei giorni precedenti. Una volta accesa la ricevente, le due persone raggiunsero le tre che si erano già posizionate in cima alla collina, in località Raffo Rosso, nel comune di Isola delle Femmine.

L’auto di scorta che precedeva quella di Falcone esposta a Milano (ANSA/MATTEO CORNER)

Quando il convoglio di tre auto con a bordo Giovanni Falcone lasciò l’aeroporto, i due uomini appostati a Punta Raisi avvisarono l’uomo a bordo della Lancia Delta. Dopo 40 minuti, quest’ultimo vide arrivare le tre auto blindate. Partì costeggiando l’autostrada, quindi telefonò agli uomini appostati sulla collina. La conversazione durò oltre cinque minuti, parlarono di cose normali in modo da non destare sospetti se fossero stati intercettati. Le auto procedevano a circa 80 all’ora, un po’ più piano di quanto era stato calcolato. Giunto all’altezza del bar Jonnie Walker l’uomo sulla Lancia Delta svoltò verso Partinico e disse: «Ciao, ora ti saluto». Era il segnale che le tre auto stavano arrivando.

L’uomo a bordo della Lancia Delta era Gioacchino La Barbera, di Altofonte. Ecco cosa raccontò in procura a Caltanissetta dopo essere stato arrestato e aver deciso di collaborare con la giustizia secondo quanto riporta nel libro L’attentatuni-Storia di sbirri e di mafiosi di Gaetano Savatteri e Giovanni Bianconi:

«Io mi trovavo nel casolare insieme a Gioè, Brusca, Biondino, Troia, Battaglia, Ferrante. Rampulla non c’era perché quel sabato aveva chiesto di allontanarsi. Appena giunta la telefonata ognuno di noi assunse il compito prestabilito. Ferrante e Salvatore si diressero all’aeroporto di Punta Raisi… Gioè insieme a Troia andò a collocare la ricevente nel tombino mettendo in funzione anche l’interruttore dopodiché insieme a Brusca e Battaglia si portò nel luogo, lato montagna, da dove sarebbe stato azionato il telecomando; io a bordo di una Delta verde mi portai in una strada parallela all’autostrada e mi fermai in una zona da cui si accede al bar Jonnie Walker… Sapevo che l’auto del giudice Falcone era una Croma di colore bianco. Quando avvistai l’auto del giudice misi immediatamente in moto e seguii il corteo. Immediatamente telefonai al cellulare che sapevo in mano a chi stava in montagna, mi rispose Gioè. La conversazione durò molto, per tutta la durata della strada che costeggia e arrivava fino al Jonny Walker. Si parlava del più e del meno, senza minimamente accennare a quello che stavamo facendo per paura di essere intercettati. Io marciavo a una velocità analoga a quella delle auto in corteo e cioè a 80 km all’ora, di gran lunga inferiore a quella calcolata facendo le prove… Arrivato all’altezza del bar sopramenzionato ho smesso la comunicazione con Gioè, ho imboccato l’autostrada in direzione Partinico e mi sono allontanato. Non ho avuto modo di sentire anche da lontano il botto».

Fu Gioè a dire a Brusca «Ora». Proprio in quel momento l’auto in mezzo al convoglio, la Croma bianca, rallentò. L’autista seduto dietro aveva detto a Falcone, che guidava, «Dottore, si ricordi di lasciarmi le chiavi». Falcone con una strana mossa, probabilmente sovrappensiero o per scherzo, tolse le chiavi dal cruscotto e fece per darle all’autista. L’esplosione avvenne in quel momento e probabilmente fu il rallentamento dovuto a quel gesto a far sì che a essere investita in pieno fosse la prima auto blindata e non, come avrebbe dovuto essere, quella del giudice.

Dopo l’attentato Brusca e gli altri si ritrovarono in una villetta a Palermo, di proprietà di un mafioso, Mommo Guddo. Lì guardarono la televisione, preoccupati perché Falcone era ancora vivo: temevano l’ira di Totò Riina per il fallimento dell’attentato. Quando giunse la notizia che Falcone era morto, alcuni di loro brindarono. I giornali del giorno seguente scrissero che nel carcere dell’Ucciardone, a Palermo, si erano alzate grida di festa.

L’attentato di Capaci suscitò grandissima emozione in tutta Italia. In Sicilia i movimenti antimafia, composti soprattutto da giovani, presero grande vigore, le iniziative furono molte. Venne emanato un decreto legge, convertito poi in legge: “Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”. Con quel decreto l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario che prevedeva un regime carcerario con particolari restrizioni, fino a quel momento adottato solo «in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza», venne esteso ai detenuti per mafia. L’obiettivo dichiarato era quello di impedire il passaggio di ordini e comunicazioni tra i criminali in carcere e le loro organizzazioni sul territorio. Il provvedimento, che nasceva a carattere temporaneo, è ancora oggi in vigore ed è al centro di discussioni e polemiche. 

Totò Riina dopo l’arresto il 15 gennaio 1993 (ANSA / FRANCO CUFARI)

Totò Riina venne arrestato il 15 gennaio 1993, ed è morto il 17 novembre 2017 nel reparto detenuti dell’ospedale Maggiore di Parma. 

I mandanti e gli esecutori della strage di Capaci furono arrestati nei mesi e negli anni seguenti. Tutti i componenti della commissione provinciale di Cosa Nostra furono condannati all’ergastolo come mandanti. Alcuni degli esecutori materiali sono divenuti collaboratori di giustizia e hanno avuto pene minori. Antonino Gioè, colui che diede a Brusca il via per azionare il radiocomando, si suicidò nel carcere di Rebibbia il 28 luglio 1993, poco dopo l’arresto. Lasciò scritto: «Stasera sto trovando la pace e la serenità che avevo perduto circa 17 anni fa. Perse queste due cose io sono diventato un mostro e lo sono stato fino a quando ho preso la penna per scrivere queste due righe».

Dopo l’attentato di Capaci, Giovanni Brusca fu responsabile del rapimento e dell’omicidio di Giuseppe Di Matteo: aveva 12 anni, fu sequestrato il 23 novembre 1993 per impedire che il padre Santino, arrestato, collaborasse con i magistrati. Brusca uccise il bambino dopo 25 mesi di prigionia, l’11 gennaio 1995: lo strangolò e poi lo fece sciogliere nell’acido.

Giovanni Brusca dopo l’arresto, il 20 maggio 1996 (ANSA)

Brusca fu arrestato il 20 maggio 1996. Grazie alle indagini, in seguito a rivelazioni di pentiti, si scoprì che era nascosto in contrada Cannatello, una frazione di Agrigento. Gli investigatori sapevano che era in una delle villette vicine al mare, perché il suo telefono cellulare era intercettato. Per individuare quale fosse esattamente la villetta in cui si nascondeva il latitante, un agente con una moto senza marmitta venne mandato a sgasare fuori dalle case mentre Brusca stava facendo una telefonata. Nel momento in cui il rumore della moto si sentì più forte i poliziotti individuarono la villa giusta, e venne dato l’ordine in codice: «Ddocu è», dissero i poliziotti. «È lì».

Brusca iniziò a fare dichiarazioni ai magistrati un mese dopo l’arresto. Nel 2000 ottenne lo status di collaboratore di giustizia. Condannato per i suoi reati a 30 anni di reclusione, dopo 25 anni è stato scarcerato: rimarrà sotto sorveglianza per altri quattro anni. Ha cambiato nome e vive sotto protezione. La sua scarcerazione ha provocato numerose polemiche.

Cinque anni fa diede un’intervista alla televisione francese senza ovviamente mostrarsi in viso. Disse:

«Ho riflettuto e ho deciso di rilasciare questa intervista: non so dove mi porta, cosa succederà, spero solo di essere capito. Ho deciso per fare i conti con me stesso, perché è arrivato il momento di metterci la faccia, anche se non posso per motivi di sicurezza, ma è nello spirito e nell’anima di farlo. Di poter chiedere scusa, perdono, a tutti i familiari delle vittime, a cui ho creato tanto dolore e tanto dispiacere».

Sulla strage di Capaci furono aperti altri filoni di indagine. La Procura di Caltanisetta indagò per accertare la responsabilità di eventuali mandanti esterni all’associazione mafiosa. Vennero iscritti nel registro degli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri per concorso in strage. Le indagini partirono in seguito alle dichiarazioni di alcuni pentiti, e nel 2002 furono archiviate. Un’altra indagine fu aperta, sempre dalla procura di Caltanisetta, nei confronti di alcuni imprenditori edili. L’inchiesta ipotizzò che le stragi di Capaci e via D’Amelio fossero state compiute per evitare lo sviluppo delle indagini che i giudici Falcone e Borsellino stavano conducendo sulla base del rapporto investigativo del Ros dei carabinieri “Mafia e Appalti” redatto nel 1991. Anche questa indagine fu archiviata. 

Poliziotti festeggiano dopo l’arresto di Giovanni Brusca (Ansa)

Nonostante sia stata un’ipotesi tornata ciclicamente nel dibattito, nel 2013 il procuratore di Caltanisetta Sergio Lari disse: «Non emerge la partecipazione alla strage di Capaci di elementi esterni a Cosa Nostra. La mafia non prende ordini». Dei mandanti ed esecutori dell’omicidio di Giovanni Falcone resta libero e latitante solo Matteo Messina Denaro, indicato ormai da anni dagli investigatori come capo della mafia siciliana.

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