Alfonso Giordano e il “maxiprocesso” di Palermo

È morto a 92 anni il giudice che presiedette il più importante processo alla mafia che sia mai stato celebrato, 35 anni fa

Pietro Grasso, a sinistra, e Alfonso Giordano, a destra, si consultano con il cancelliere di tribunale durante il maxiprocesso a Palermo, nel 1986. (ANSA Oldpix)
Pietro Grasso, a sinistra, e Alfonso Giordano, a destra, si consultano con il cancelliere di tribunale durante il maxiprocesso a Palermo, nel 1986. (ANSA Oldpix)

Alfonso Giordano, morto ieri a Palermo a 92 anni, è stato uno dei magistrati più importanti d’Italia. In pochi lo conoscevano fuori dall’ambito giudiziario, però. Non era uno che amava parlare né far parlare di sé, tantomeno andare in televisione. Eppure nel 1986, per venti mesi, fu presidente di Corte d’Assise nel cosiddetto “maxiprocesso”, il più importante processo alla mafia che sia mai stato celebrato, sicuramente quello con il più alto numero di imputati: 476.

Fu un processo fondamentale perché per la prima volta venne scritta in una sentenza definitiva l’esistenza di una associazione mafiosa, unica e organizzata in maniera verticistica, governata da un gruppo (la celebre cupola) che fungeva da commissione di controllo.

Giordano aveva 58 anni quando presiedette il grande processo contro la mafia. Era entrato in magistratura nel 1952 e aveva iniziato la sua carriera in Sardegna. In Sicilia fu giudice a Sciacca e pretore a Salemi, nel 1960 divenne sostituto procuratore a Palermo. Poi passò alla prima sezione civile del Tribunale di Palermo. Il Diritto civile era quello di cui amava occuparsi, e lo insegnò all’università di Palermo insieme al Diritto industriale. Poi, nel 1986, quasi improvvisamente, si ritrovò in un’aula costruita appositamente, l’aula bunker vicino al carcere dell’Ucciardone, a dover guidare un processo passato alla storia, e non solo del diritto.

Giordano dovette controllare le intemperanze di capi mafiosi come Pippo Calò e Luciano Liggio (Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella erano latitanti), ascoltare 1314 interrogatori, gestire le testimonianze dei pentiti Tommaso Buscetta e Totuccio Contorno che rese la sua in stretto dialetto palermitano, tanto che il Presidente della Corte dovette chiamare un linguista a fare da interprete.

Disse anni dopo Giordano in un’intervista: «Io fino a quel momento non ero mai stato in Corte d’Assise, non avevo mai dato un ergastolo. Dare un ergastolo è una cosa pesante, è la morte civile». Spiegò poi perché aveva accettato l’incarico: «Il famoso imperativo kantiano del dovere per il dovere. Oppure se volete gli eroi di Hemingway, che fanno quello che devono fare semplicemente perché va fatto».

Era accaduto che molti giudici, chiamati a presiedere quel processo, si erano rifiutati (due avevano in effetti problemi di salute). Giordano accettò, suo giudice a latere fu Pietro Grasso, futuro Procuratore nazionale antimafia e presidente del Senato. Raccontò Grasso che quando ricevette l’incarico andò a trovare Giovanni Falcone, che assieme a Paolo Borsellino aveva istruito il processo: «Falcone aprì una porta e mi fece entrare in una stanza con gli scaffali fino al soffitto, quattro pareti piene di fascicoli e di carte processuali, 400.000 atti da studiare. Disse: “benvenuto, ti presento il maxiprocesso”».

Giordano raccontò di essersi preparato moltissimo, psicologicamente e “spiritualmente”, per quel processo: «Ero veramente sereno», disse, «mi ero proposto di fare quello che assolutamente andava fatto per esigenze di giustizia». Per precauzione però si procurò anche una pistola.

Il maxiprocesso iniziò nell’aula bunker di Palermo il 10 febbraio 1986. Giordano era affiancato da Pietro Grasso e da sei giudici popolari. L’accusa era sostenuta dai pubblici ministeri Giuseppe Ayala e Domenico Signorino. In aula erano presenti 200 avvocati difensori e 600 giornalisti. Gli imputati dovevano rispondere di omicidio, traffico di stupefacenti, associazione mafiosa, estorsione. Imputate erano tutte le famiglie mafiose: i Corleonesi, il mandamento di Brancaccio, dell’Arenella, di Ciaculli, Palermo Centro, Corso dei mille, la Kalsa. E poi Bagheria, Cinisi, Partinico. Ma il procedimento coinvolgeva anche i Bonanno di New York e i Fidanzati e i Ciulla, di stanza a Milano.

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Durò 20 mesi. A volte, come durante la testimonianza di Totuccio Contorno, l’aula diventò una bolgia con urla e insulti, ma Giordano riuscì con tranquillità a far tornare la calma. Bisognava andare veloci per evitare che tanti degli imputati uscissero prima della fine del processo, per il termine di quella che allora si chiamava carcerazione preventiva e oggi custodia cautelare. E poi c’era da evitare che gli avvocati ottenessero, come era loro diritto, la lettura integrale degli atti del processo che avrebbe di fatto paralizzato il procedimento. Intervenne il Parlamento con la legge Mancino-Violante, il 17 febbraio 1987, che stabilì che “la lettura degli atti potesse sostituirsi con la specifica indicazione di essi al fine dell’utilizzabilità successiva”.

La camera di consiglio durò 35 giorni. Prima che i giudici si ritirassero per emettere la sentenza, dalle sbarre dell’aula bunker Michele Greco, detto il Papa, augurò loro “pace e serenità”. Giordano, Grasso e i sei giudici popolari vissero blindati in un’ala dell’aula bunker senza avere mai contatti con nessuno, nemmeno con chi era incaricato di portare i pasti. La lettura della sentenza durò un’ora e mezza. Giordano lesse tutto velocemente, poi, arrivato al punto in cui c’erano gli ergastoli, rallentò. Scandì le parole. «Pensai», disse in seguito, «che dovevo essere chiaro, dovevo farmi comprendere bene». Fu così che il giudice che non aveva mai comminato nessun ergastolo scandì quella parola 19 volte. «Erano parole pesanti come pietre», disse.

In tutto la sentenza di primo grado comminò 19 ergastoli e 2.665 anni complessivi di reclusione. Le assoluzioni furono 114. Riina, Bagarella, Santapaola e Calò ebbero l’ergastolo. Anche Greco, che aveva augurato ai giudici pace e serenità, ricevette l’ergastolo. «Mi stupì il silenzio che ci fu dopo» ricordò poi Giordano. «Nessuno urlò, nessuno parlò». Anni dopo Giovanni Brusca raccontò ai giudici che Totò Riina gli aveva chiesto il favore di uccidere Giordano.

Nel 1990 la sentenza d’Appello ridusse in molti casi le pene, gli ergastoli passarono da 19 a 12. La sentenza della Corte di Cassazione, il 30 gennaio 1992 confermò tutte le condanne e anzi annullò le assoluzioni decise in appello disponendo nuovi giudizi.

Dopo il maxiprocesso, Giordano divenne presidente della Corte d’Appello di Lecce e poi di Palermo, fu commissario straordinario del comune di Trapani. Si candidò anche a sindaco di Palermo, nel 1993, con l’Unione di Centro, ma quell’anno vinse Leoluca Orlando.