I normali cittadini che giudicano sui reati più gravi

Come funziona il sistema dei giudici popolari in Italia, responsabili di sentenze spesso delicate nelle Corti d'assise

di Mario Macchioni

"The Jury", dipinto del 1861 di John Morgan che ritrae una giuria popolare (Wikimedia Commons)
"The Jury", dipinto del 1861 di John Morgan che ritrae una giuria popolare (Wikimedia Commons)

In Italia a giudicare i reati gravi, quelli ritenuti particolarmente pericolosi per la società come omicidio e strage, sono gli organi collegiali chiamati Corti d’assise, sia per i processi di primo grado che per l’appello. Sono tra i più importanti organi del sistema giudiziario, e sono composti da due magistrati e da sei giudici popolari: cioè una specie di equivalente dei “giurati” degli ordinamenti anglosassoni, normali cittadini che compongono un pezzo cruciale della macchina giudiziaria e contribuiscono alla formulazione di sentenze spesso delicate.

La presenza dei giudici popolari all’interno delle Corti d’assise è regolata da una legge del 1951, che fu introdotta per riordinare l’assetto vigente fino a quel momento. La legge precisa che i giudici “togati”, cioè i magistrati veri e propri, e i giudici popolari compongono un unico collegio «a tutti gli effetti», cosa che non avviene per esempio nei paesi anglosassoni, dove i giudici popolari formano un collegio separato. Inoltre, la legge stabilisce i requisiti che un cittadino deve avere per essere selezionato: deve avere la cittadinanza italiana; deve tenere «una buona condotta morale»; deve avere un’età compresa tra i 30 e i 65 anni; deve avere al minimo un diploma di scuola media, mentre nel caso delle Corti d’appello è necessario avere almeno un diploma di scuola superiore.

Una componente popolare era presente già nelle Corti d’assise dell’inizio dell’Ottocento, introdotte durante la dominazione napoleonica nell’Italia settentrionale, e in quelle volute dal re di Sardegna Carlo Alberto di Savoia, istituite con un editto del 1848. A quell’epoca i giudici popolari componevano una giuria separata dai giudici togati. Solamente in epoca fascista, nel 1931, l’allora ministro della Giustizia Alfredo Rocco decretò che la Corte d’assise fosse presieduta da un magistrato e che i collegi fossero formati da due magistrati e da cinque giudici popolari (allora chiamati “assessori”).

Rocco, nel presentare il decreto, disse che serviva a «integrare il giudizio del magistrato con elementi esperti della vita e dei sentimenti del popolo. Non si tratta di un contributo giuridico, sia pure limitato al diritto consuetudinario, ma di un contributo psicologico ed etico».

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Il dibattito sulla composizione delle corti penali si animò particolarmente dopo la Seconda guerra mondiale, durante i lavori preparatori per scrivere la Costituzione. La questione che divideva i giuristi era se mantenere o meno la partecipazione diretta dei cittadini all’amministrazione della giustizia, e in particolare se introdurre l’istituto della giuria popolare. Alcuni erano fortemente contrari perché convinti che il giudizio dei semplici cittadini finiva spesso per rivelarsi irresponsabile e azzardato, mentre altri ritenevano che coinvolgere una componente popolare avesse un grande valore democratico e che fosse un buon modo per evitare il rischio di un eccessivo scollamento tra magistratura e cittadini.

Si arrivò quindi a un compromesso, che portò alla formulazione dell’articolo 102 della Costituzione – «La legge regola i casi e le forme della partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia» – in modo che ammettesse modifiche future nella composizione dei collegi, pur prescrivendo il coinvolgimento dei cittadini.

L’ex terrorista neofascista Franco Freda, ritenuto tra i responsabili della strage di piazza Fontana, mentre tiene una testimonianza di fronte a due giudici popolari (ANDREA MEROLA/ANSA)

Il dibattito non si concluse con l’entrata in vigore della Costituzione, e in una parte del dibattito giudiziario rimane una certa disapprovazione nei confronti della partecipazione popolare. Per fare solo un esempio, nel 1979 l’avvocato penalista Ennio Amodio scriveva:

La presenza dei giudici popolari nelle Corti d’assise è per gli operatori del diritto una sorta di fossile giudiziario. Ed anche fra gli studiosi del processo non sono pochi ormai coloro che guardano ai cittadini con la fascia tricolore, schierati accanto ai magistrati nelle aule di udienza, come ad una ingombrante zavorra di cui la giustizia penale potrebbe utilmente disfarsi se la Costituzione non frenasse un programma decisamente liquidatorio con la norma che impone la partecipazione popolare.

Nei paesi anglosassoni – dove vige il sistema giuridico definito common law, basato sui precedenti giudiziari più che sui codici – la pratica del coinvolgimento dei cittadini nell’amministrazione della giustizia è più radicata. Nel Regno Unito e negli Stati Uniti i giudici popolari compongono una giuria separata dai giudici togati, che esprime un verdetto di colpevolezza o innocenza senza motivazioni, basandosi sulle prove e le testimonianze presentate durante il processo. È poi la magistratura vera e propria a emettere la sentenza, esprimendosi sulle questioni di diritto e decidendo la pena. Viceversa, in paesi come Italia, Francia e Germania, dove vige il cosiddetto civil law basato sulla preminenza del diritto legislativo, si è affermato il sistema a collegio unico, che mette il ruolo del giudice popolare sullo stesso piano di quello del giudice togato. Questo sistema viene anche definito “scabinato” ed è stato introdotto per la prima volta in Germania, nella prima metà del Novecento.

In Italia i giudici popolari vengono scelti sulla base di liste di idonei compilate dai comuni. Una parte dei nomi ci finisce d’ufficio, sulla base dei semplici requisiti, mentre altri sono persone che si sono offerte volontariamente, attraverso un bando che i comuni pubblicano ogni due anni. La lista viene poi inviata dai comuni alle Corti d’assise competenti per la loro zona, che le inseriscono in un albo definitivo di potenziali giudici popolari, aggiornato ogni due anni. Al momento della nomina, le Corti inseriscono i nomi dell’albo in un sistema informatico che ha il compito di estrarre a sorte 50 nomi. Le persone estratte a quel punto ricevono una convocazione.

La convocazione serve a verificare la disponibilità degli idonei, che spesso rifiutano l’incarico per impedimenti come la lontananza, il lavoro o situazioni familiari difficoltose. Maddalena Santino, funzionaria giudiziaria della Corte d’appello di Milano, racconta che di solito le persone convocate non mostrano entusiasmo per la prospettiva di diventare giudici popolari. «Poi però alla fine dell’esperienza ne escono contenti», dice Santino. «Perché toccano con mano una realtà che vedono solo da fuori, sui giornali, mentre standoci dentro instaurano un rapporto con i giudici togati, imparano molto e cambiano prospettiva».

I territori di competenza delle Corti d’appello – chiamati distretti – sono molto estesi. In certi casi arrivano a corrispondere a intere regioni, come nel caso del Friuli Venezia Giulia. I giudici popolari potenzialmente possono provenire da tutto il distretto, quindi a volte anche da zone molto lontane dalla sede della Corte. Secondo Santino, è uno dei motivi per cui al momento della convocazione una parte delle persone idonee neanche si presenta. L’incarico dei giudici popolari dura tre mesi, il tempo di una sessione della Corte stessa. Tutto il processo di selezione e convocazione, quindi, si ripete da capo a ogni sessione in cui si riunisce la Corte, cioè quattro volte all’anno.

Durante il dibattimento, cioè la fase centrale del processo durante la quale vengono presentate le prove e ascoltate le testimonianze, il ruolo dei giudici popolari è perlopiù passivo. In teoria nel civil law non ci sarebbero differenze qualitative tra giudici popolari e togati, ma nei fatti l’iniziativa è portata avanti dai magistrati che conoscono meglio i meccanismi del processo. In questa fase, peraltro, vengono raccolte ed esaminate le prove che serviranno a formulare la sentenza, e questo procedimento di solito è controllato dai due giudici togati del collegio, non dai giudici popolari.

Simone Lonati, docente di diritto processuale penale all’Università Bocconi di Milano, ha fatto da difensore nel cosiddetto “processo Tamoil” davanti alla Corte d’assise di Brescia, nel quale alcuni dirigenti della raffineria di Cremona erano imputati per disastro ambientale. Nella sua esperienza, Lonati non ha mai visto un giudice popolare chiedere al presidente di porre delle domande durante il dibattimento, ma è anche vero che la situazione può variare molto. Sulla carta non c’è nulla che impedisca ai giudici popolari di comportarsi allo stesso modo dei giudici togati e intervenire sulla formazione delle prove.

Un corridoio del Palazzo di Giustizia di Milano, fotografato nel 2018 (LaPresse/Matteo Corner)

Sempre dal punto di vista formale, la formulazione della sentenza al termine del dibattimento è regolata dall’articolo 527 del codice di procedura penale. A questo punto del processo l’accusa e la difesa hanno già esposto i loro argomenti, le testimonianze sono state ascoltate e le prove presentate. Tutti i membri del collegio si riuniscono quindi in camera di consiglio, termine che indica sia la procedura che la stanza in cui i giudici deliberano in segreto per arrivare a un verdetto.

«Nella camera di consiglio vengono esaminate tutte le questioni di fatto e di diritto, sulla base delle prove», spiega Lonati. «Chiaramente non si può sapere cosa avviene di preciso, ma di solito sono i giudici togati a fare un’introduzione: cosa dice il codice, qual è la pena massima e quale la minima, se ci sono circostanze attenuanti o aggravanti, se si annullano, che valore dare alle prove e così via. Stabilito questo, il collegio decide se c’è colpevolezza o meno».

Su ogni questione, dalla colpevolezza alla determinazione della pena, il collegio vota e ogni voto vale uno. Si parte con il voto del giudice popolare più giovane, per evitare che venga influenzato dagli altri, e si finisce con il voto del giudice togato più anziano. Se non c’è unanimità tra i giudici, il codice dice che va applicata la pena favor rei, cioè quella che favorisce di più la persona imputata. Una volta che il collegio ha deciso, esprime quello che in gergo tecnico si chiama dispositivo, cioè la parte della sentenza che stabilisce il verdetto e la pena. Il compito di motivare la sentenza viene invece affidato a uno dei giudici togati, il cosiddetto giudice relatore.

Secondo Lonati, le formalità previste dal codice non vengono sempre rispettate alla lettera e sono soggette a interpretazione. In particolare, spiega Lonati, il comma relativo alla pena favor rei «va interpretato sempre sapendo che le questioni inerenti alla determinazione della pena vanno valutate con cognizione giuridica». In sostanza, l’accordo tra i componenti del collegio dipende in buona parte da quanto i giudici togati riescono a convincere delle proprie ragioni i giudici popolari, facendo valere la propria competenza ed esperienza.

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