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  • Mercoledì 10 febbraio 2021

Franco Marini e “quella notte”

Il capitolo del romanzo di Concita De Gregorio che raccontava la scelta del Presidente della Repubblica del 2013

Franco Marini alla Camera durante il discorso di insediamento del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il 22 aprile 2013 (Mauro Scrobogna/LaPresse)
Franco Marini alla Camera durante il discorso di insediamento del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il 22 aprile 2013 (Mauro Scrobogna/LaPresse)

Commentando nella sua rubrica su Repubblica la morte di Franco Marini – importante leader sindacale e politico, presidente del Senato – Concita De Gregorio ha ricordato mercoledì un passaggio del suo romanzo Nella Notte: il romanzo era ispirato a un famoso episodio politico di cui Marini era stato protagonista e vittima, la scelta del Presidente della Repubblica italiana nel 2013. Nel romanzo non era indicato che il personaggio del “Presidente” fosse Marini, e De Gregorio lo ha esplicitato nel suo articolo.

Franco Marini si è ritirato dalla politica il giorno in cui i suoi compagni di partito gli fecero mancare i voti per l’elezione al Quirinale.
Ha fatto, da allora, silenzio. Fu il primo a cadere. Lui prima dell’agguato a Prodi, il tradimento dei 101, il patto scuro che ha segnato l’inizio del precipizio. L’ultima volta che l’ho visto sono andata a chiedergli di questo. Al primo piano della sua villetta fuori Rieti, nel suo studio di libri e di legno. Per più di due ore parlò solo lui. Sapeva, naturalmente, tutto. Chi fossero i 101 (“molti di più”) da quale vincolo fosse nato il tradimento e da quali ambizioni. Disse di D’Alema, di Renzi, dei suoi vecchi compagni Dc.
Raccontava come uno storico che ricostruisce una battaglia. Poi, in cucina, tagliò del salame. Gli dissi che avrei scritto un libro su come si uccide un Presidente e che l’avrei intitolato “Nella Notte”, perché tutto in politica accade di notte. Sorrise. Mi suggerì di farne un romanzo: “Così sarà più libera di dire la verità, senza il vincolo dei nomi reali. Le ho parlato di un meccanismo. Limitarlo a quell’evento sarebbe riduttivo”.

Il capitolo che descriveva quella storia era questo, che il Post aveva già pubblicato allora.

*****

Agostino mi aveva raccontato l’aneddoto del vestito.
Fu per questo – anche per questo – che mi convinsi: la notte della congiura sarebbe stata l’argomento della mia tesi di dottorato. Ero andata a Roma a cercare tracce di quella trama recente ma già svanita, sepolta in fretta senza lapidi. Non sapevo con precisione da dove cominciare, cosa chiedere, a chi. Montecitorio, per prima cosa. L’archivio. Studiare l’archivio. Così cercai Agostino, e seppi del vestito.

Il vestito nuovo del Presidente, il vestito inutile: sbagliato. Mi aveva fatto immalinconire e ridere insieme, mi aveva ricordato la filastrocca del re Dagoberto. Le bon roi Dagobert, una canzoncina che ci insegnavano all’asilo, quando vivevo in un piccolo paese del Piemonte. Le bon roi Dagobert a mis sa culotte a l’envers, ha messo i pantaloni al contrario. Le grand saint Éloi lui dit “Ô, mon roi. Votre Majesté est mal culottée”. Mal culottato – i bambini ridevano contentissimi di poter dire ad alta voce culo, cantarlo addirittura. I pantaloni al rovescio. Quand Dagobert mourut le diable aussitôt accourut. Arriva subito il diavolo, quando muore il re. Così ti dicono le filastrocche a quattro anni: muore il re, e il diavolo viene subito a chiedergli il conto. Il Paradiso è escluso per principio, non è proprio una possibilità. Presto, Maestà, deve confessarsi: sta arrivando Satana, si affretta a dirgli colui che lo protegge, il premuroso e solerte grand saint Éloi“Hélas, lui dit le roi. Ne pourrais-tu mourir pour moi?” Questo insegnano precoci, le rime che impari prima ancora di saper leggere e scrivere: non solo il re ha di certo commesso peccati mortali che lo condannano all’inferno, ma in punto di morte chiede a qualcun altro di morire al posto suo. Non sa mettersi i pantaloni, ha commesso peccati mortali e chiede a qualcun altro di morire al posto suo.
È sciocco, crudele e vile – il re.

Agostino faceva l’autista da più di trent’anni. Al servizio del Presidente, diceva con orgoglio. Quale presidente? I presidenti passano, io guido e resto – rideva.
L’avevo conosciuto al mio secondo anno di università. Preparavo una tesina per Storia delle Dottrine Politiche, mi serviva un carteggio custodito nell’archivio della Camera. Mi presentai all’ingresso laterale di Montecitorio con il fax di autorizzazione disteso liscio in una custodia di plastica trasparente. Portavo un vestito a fiori di mia madre stretto in vita da una fascia con bottoni di tessuto. Fondo chiaro, fiori rossi. Avevo delle scarpe nuove, di camoscio, che mi facevano male. Volevo assolutamente sembrare più grande, e seria, ed essere presa sul serio. Pensavo che un vestito démodé e delle scarpe bordeaux potessero aiutare.
Agostino era lì, appoggiato a fumare allo stipite della porta del garage, in fondo alla scala che porta sul retro del palazzo. Mi guardava con una specie di sorriso negli occhi, senza malizia.
Che ti manca?
Niente, no grazie, niente. Solo che forse non ho portato il documento. Ho cambiato borsa, e allora… Non so, dev’essere rimasto nell’altra.
Mi chiese se volevo un gelato. La gelateria qui di fianco è buonissima e celebre, la conosci? Di dove sei? Ah, vieni da Pisa. Ci sono stato in viaggio di nozze, Pisa Firenze Siena.

Gli autisti sanno tutto di tutti. Ascoltano le telefonate, le conversazioni nel sedile posteriore, conoscono gli indirizzi di chi non ha il nome sul citofono, le case segrete del potere.
Sanno chi va dove e perché, per quanto resta, a fare cosa. Chi siede dietro per qualche misteriosa ragione pensa che l’autista non esista, mi disse Agostino. La panna del gelato mi era caduta sul vestito di mamma, lui fece un gesto come per dire la macchia se ne va, tranquilla. È molto raro, disse, molto raro che i passeggeri dell’auto ti rivolgano la parola. In genere parlano come se tu non ci fossi. Non hai idea di quello che hanno sentito le mie orecchie, visto i miei occhi.

Ogni tanto, due o tre volte all’anno, mi arrivava un suo messaggio:
Come procedono gli studi, ragazza? A che punto siamo? Manca poco Agostino: torno a Roma per il dottorato.

E così siamo alla fine. Il dottorato, addirittura. Una ricerca su Onofrio Pegolani. Ma pensa. Ero con lui quella notte, sai? Sono andato io a prendere il vestito.
Che vestito? Raccontami.
Sì. Sediamoci, lo vuoi un gelato? Non hai fretta, no? Sediamoci e ti dico. Stai a sentire.

Il Presidente era stato tutto il pomeriggio nello studio del suo principale avversario – lui cattolico democristiano, l’altro ateo comunista –, una vita a contendersi incarichi e potere, campagne elettorali e collegi. Coetanei, vecchie scuole. Le Frattocchie, la Camilluccia. Gli ultimi di quel mondo lì, quando i partiti erano tre, massimo quattro, e si chiamavano tutti partiti. Niente animali fiori frutta. Niente leghe e movimenti. Partiti. Un certo rispetto reciproco, nella diffidenza. Si diceva che fossero tutti e due in corsa per la presidenza. Io lo sapevo per certo: avevo sentito una telefonata furibonda in cui diceva “a me non mi fregate, io quello lo conosco, mi vuole fottere. Ma quale intesa, quale patto. Ha sempre fatto solo il gioco suo da quando aveva i calzoni corti. Io me lo ricordo. Se non mi date l’elenco completo dei nomi, tutti, io non ci credo”. Però invece si vede che parlandoci si era convinto.
Quasi tre ore, era stato su. Qualcosa doveva essere successo, qualcosa che lo aveva persuaso. E guarda che la diffidenza era enorme, e la cautela, e tutto. Insomma fatto è che appena salito in auto mi diede l’indirizzo di un palazzo dietro Borgo Pio, alle spalle del Vaticano. Un posto dove non eravamo stati mai. Telefonò. “Tutto a posto. Convergono su di me. È fatta. Sto arrivando e ti spiego.” Restò su mezz’ora. Quando tornò in macchina aveva in mano un foglietto di quaderno a quadretti piegato in due, lo poggiò sul sedile per telefonare. Chiamò la moglie: “Vieni a Roma col primo treno domattina, Ada. Vieni con mia madre, avvisala tu e valla a prendere. Vi faccio trovare i passi all’ingresso, i commessi vi porteranno al vostro posto. Alle otto inizia la seduta, mi raccomando. Il treno delle sei e mezzo, dovete prendere”.
Poi chiamò il negozio. “Quell’abito che avevo visto giorni fa, si ricorda? Ecco. Vengo per l’orlo ma dobbiamo farlo subito, entro domattina. Avete una sarta che lavori la notte? Arrivo. Sto arrivando.”

Da Cenci rimase venti minuti, forse meno. Il tempo di misurare l’orlo dei pantaloni.
“Domattina, Agostino, prima di venire a prendermi a casa vai tu a ritirare il vestito: a questo indirizzo, alle sette meno un quarto. Devi chiedere della signora Rosa.”
Mi lasciò l’appunto che gli aveva scritto il direttore del negozio, la via e il numero, il cognome sul citofono. Ci furono molti altri viaggi, quella notte. Un momento in ufficio, mezz’ora al ristorante con lo staff, di nuovo nello studio del Comunista, sarà stata già mezzanotte. Continuava ad arrivare gente, a orari scaglionati. Ogni quarto d’ora qualcuno. Le auto parcheggiavano in via Giulia e gli autisti restavano con lo sportello aperto, a fumare. Ne riconobbi solo uno, Aldo, che per una vita era stato al servizio del segretario socialista. Poi – morto il segretario, sparito il partito – era rimasto con i figli, a volte portava a scuola i nipotini del vecchio leader, ci era tanto affezionato. Aldo quella sera aveva accompagnato un vecchio comunista migliorista. Gli altri erano giovani, portavano giacche lucide, avevano scarpe con la punta quadrata e stavano fra loro. Gente che non avevo mai visto. Girava voce che i nuovi arrivati, al governo, avessero preteso come autisti agenti dei servizi. Poteva essere. Comunque non li conoscevo. Restammo a parlare, con Aldo, fino alle tre e mezzo di notte. Erano le quattro meno dieci quando diedi la buonanotte al Presidente, davanti al portone di casa sua. Non sembrava stanco, per niente, alla sua età. Ero più stanco io.

Alle sei e mezzo suonai a Rosa. Terzo piano senza ascensore. Mi ricevette in cucina, la caffettiera era sui fornelli spenti in attesa del risveglio di qualcuno, pensai avesse figli a cui preparare la colazione prima di scuola. Aveva trovato nella tasca dei pantaloni un foglio, me lo porse. Una pagina di quaderno piegata. Dovevo dire al Presidente che non era riuscita a stringere in vita oltre un certo punto, avrebbe avuto bisogno della cinta. Del resto bisognava ridurre tutto il pantalone di una taglia, continuò, era la taglia sbagliata, avrebbe dovuto prendere quella sotto, lei in così poco tempo aveva fatto il possibile. Forse sarebbe stato meglio comprare un altro abito, della taglia giusta. Lei aveva fatto il possibile.
Grazie signora, grazie.
Misi in tasca il foglietto, scesi le scale. Ero ancora nell’androne quando squillò il telefono. “Agostino, non si affretti col vestito. Non serve più.”
Le sette meno un quarto.
“L’ho già con me, Presidente. L’ho appena poggiato in macchina.”
“Va bene, non importa. Venga pure a prendermi alle nove e mezzo, stamani.”
“Ma Presidente, la seduta plenaria inizia alle otto. Scusi se mi permetto, ma…”
“Agostino, alle nove e mezzo. Grazie. Non andiamo a Montecitorio, andiamo a Rieti. Torniamo a casa.”

Feci qualcosa che non faccio mai. Aprii la pagina di quaderno. C’erano appunti presi a mano, cancellature, qualche parola in stampatello, qualche sottolineatura. Potevo leggere perfettamente la calligrafia del Presidente, a volte meglio di lui. Sai quante volte mi ha chiesto: “Agostino, scusi cosa ho scritto qui?”.

È con grande onore e con preciso e pieno senso di responsabilità che accolgo l’esito della votazione del parlamento sovrano, cominciava il discorso.

Il parlamento sovrano. Il re, crudele e vile. Le bon roi.

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Prima edizione “I Narratori” maggio 2019