L’omicidio di Salvo Lima

Trent'anni fa a Palermo la mafia corleonese uccise il suo referente politico, per vendicarsi delle condanne del maxiprocesso

Salvo Lima, dietro di lui, a destra, Vito Ciancimino (ANSA - FRANCO LANNINO - CD))
Salvo Lima, dietro di lui, a destra, Vito Ciancimino (ANSA - FRANCO LANNINO - CD))

La mattina del 12 marzo di 30 anni fa a Palermo fu ucciso Salvo Lima, il più potente politico siciliano, leader della Democrazia cristiana nell’isola. A decidere il suo assassinio furono Totò Riina e Bernardo Provenzano, i capi dei corleonesi, la mafia vincente di quegli anni. Secondo le indagini e i processi che seguirono, Lima fu ucciso perché non era riuscito a impedire le tante condanne inflitte ai mafiosi al termine del maxiprocesso, il più grande processo penale mai svolto in Italia.

Gli imputati erano stati 475: al termine del processo, dopo 22 mesi di dibattimento, furono decise 346 condanne. Ci furono 19 ergastoli, tra cui quelli di Riina e Provenzano, latitanti, e 2.665 anni complessivi di carcere. I boss mafiosi avevano sperato che, come già era accaduto in passato, la Corte di cassazione potesse annullare l’esito dei processi d’assise e d’appello invece, il 30 gennaio di quell’anno, tutte le condanne vennero confermate. I vertici di Cosa Nostra, che avevano già deciso di colpire i politici considerati non più affidabili e i magistrati del pool che aveva reso possibile il maxiprocesso, diedero così inizio alla catena di omicidi e attentati portando, con le stragi del 1992 e del 1993, l’attacco direttamente allo Stato.

Negli anni Sessanta Salvo Lima era stato due volte sindaco di Palermo, con Vito Ciancimino assessore ai Lavori pubblici. Fu il periodo del cosiddetto «sacco di Palermo», durante il quale la giunta comunale concesse 4mila licenze edilizie (di cui 1.600 a prestanome) e decise un’infinità di varianti al Piano regolatore. Eletto parlamentare e poi europarlamentare, Lima fu il referente di Giulio Andreotti in Sicilia. Il sospetto che avesse rapporti con Cosa Nostra comparve più volte in varie relazioni della Commissione parlamentare antimafia, e la Camera respinse quattro volte richieste di autorizzazione a procedere nei suoi confronti.

Vari collaboratori di giustizia negli anni seguenti alla sua morte sostennero che Lima avesse stretti rapporti con i costruttori legati alle cosche palermitane e che fosse il referente politico dei corleonesi. Tommaso Buscetta, collaboratore di giustizia, raccontò ai magistrati di conoscere bene Lima in quanto il padre era un “uomo d’onore”, cioè affiliato alla mafia, e che lo stesso Lima poteva contare sui pacchetti di voti elettorali delle cosche. Nel 1993, la Commissione parlamentare antimafia guidata da Luciano Violante concluse che «risultano i collegamenti di Salvo Lima con uomini di Cosa Nostra. Egli era il massimo esponente, in Sicilia, della corrente democristiana che fa capo a Giulio Andreotti. Sulla eventuale responsabilità politica del senatore Andreotti, derivante dai suoi rapporti con Salvo Lima, dovrà pronunciarsi il Parlamento».

La prima pagina del Corriere della Sera il giorno dopo l’omicidio di Lima

La mattina del 12 marzo 1992 Lima uscì dalla sua villa in viale delle Palme, a Mondello, assieme all’amico professore universitario Alfredo Li Vecchi. Ad attenderli c’era l’Opel Vectra di un altro amico, l’assessore provinciale al Patrimonio Nando Liggio. Erano attesi all’hotel Palace dove si stava preparando un convegno a cui avrebbe dovuto partecipare anche Andreotti. Lima, in auto, si sedette davanti. Furono sorpassati da una moto con sopra due uomini con il casco integrale. La persona seduta dietro iniziò a sparare, ma lo fece quando la moto aveva già superato l’auto. L’Opel Vectra si fermò e i tre occupanti scesero di corsa e scapparono a piedi.

Lima gridò: «Tornano, Madonna santa tornano…» e corse lungo la strada. La moto fece inversione e tornò indietro, il passeggero scese e sparò due colpi alla schiena di Lima e poi un terzo alla nuca. I due amici dell’europarlamentare si nascosero dietro a un cassonetto della spazzatura: gli attentatori li ignorarono e scapparono. Si seppe dopo che Riina aveva invece dato l’ordine di uccidere tutti, anzi per la precisione di «rompere le corna a tutti. Tutta la razza. Non deve restare niente». Raccontò Liggio nella sua deposizione: «Ho sentito soltanto le ultime parole di Salvino e l’ho visto scappare a piedi. È riuscito a percorrere una trentina di metri, ma è stato raggiunto da un killer che lo ha finito con un colpo alla nuca. Poi con Li Vecchi siamo scesi e ci siamo nascosti dietro i cassonetti. Solo quando non abbiamo sentito più sparare e il rombo della moto che andava via abbiamo capito che ci avevano risparmiato».

A uccidere Lima furono Giovanbattista Ferrante e Francesco Onorato, due mafiosi della cosca di San Lorenzo. Fu lo stesso Onorato, poi divenuto collaboratore di giustizia, a raccontare ai magistrati la pianificazione e l’esecuzione dell’attentato. Gli uomini di Cosa Nostra indossavano giubbotti antiproiettile, la moto era stata rubata da tempo ed era stata ferma, in attesa che servisse, in un garage dei corleonesi. «Appena lo abbiamo visto ci siamo avvicinati alla sua auto, Lima era con altri due», raccontò Onorato, «chi guidava la moto era emozionato, li ha sorpassati troppo. Così mi sono girato e gli ho sparato dei colpi di pistola per bloccarli. Sono sceso dalla moto, ho inseguito Lima e gli ho sparato».

Onorato spiegò poi nella sua confessione che Riina aveva dato ordine di uccidere tutti, «anche se non era solo. Allora ho cambiato pistola perché in Cosa Nostra mi dissero che dovevo andare con due o tre pistole perché un uomo d’onore non deve mai caricare, ma deve essere sempre pronto. Così ho preso l’altra pistola per uccidere gli altri due ma non me la sono sentita, mi sono sentito di graziarli. Poi Riina mi ha rimproverato».

Un altro mafioso, Antonino Giuffrè, anche lui divenuto collaboratore di giustizia, raccontò invece di come si svolse la riunione in cui venne deciso l’omicidio di Lima:

«Io ho partecipato alla riunione in Cosa Nostra dove appositamente c’è stata la famosa riunione della resa di conti tra Cosa Nostra e le persone ostili a Cosa Nostra, tra cui i politici da un lato e tra cui Salvo Lima e altri politici, e la resa dei conti nei confronti dei magistrati, quali Falcone e Borsellino… Da tenere presente che nella lista dei politici vi erano… Non vi era solo Lima, ma vi erano i Salvo, che poi Ignazio Salvo è stato ucciso, Mannino, Vizzini, Andò e altri personaggi importanti nell’ambito politico, appositamente per il discorso che era partito politicamente della inaffidabilità, ed ecco il discorso dell’87, quando c’è stato il cambiamento di rotta, venivano… Erano stati considerati inaffidabili questi politici».

Andreotti, allora presidente del Consiglio, arrivò a Palermo 24 ore dopo. Disse: «I calunniatori sono peggio degli assassini. O almeno uguali. E il mio amico Salvo Lima è stato per decenni un calunniato». Il leader socialista Bettino Craxi, intervistato quella sera dai telegiornali Rai, disse: «Non capisco, e le cose che non capisco mi preoccupano». Giovanni Falcone invece fece una previsione: «Adesso succederà di tutto», aggiungendo che temeva che l’omicidio di Lima «fosse solo il primo della reazione della mafia che, se non vuole perdere potere e prestigio, deve dimostrare di essere ancora la più forte».

Il cadavere di Salvo Lima, a Mondello (Palermo) (Ansa)

Per l’omicidio di Lima vennero condannati all’ergastolo i boss mafiosi Totò Riina, Francesco Madonia, Bernardo Brusca, Pippo Calò, Giuseppe Graviano, Salvatore Montalto, Giuseppe Montalto, Salvatore Buscemi, Nenè Geraci, Raffaele Ganci, Antonino Giuffrè, Salvatore Biondino, Michelangelo La Barbera, Simone Scalici e Salvatore Biondo. Tra i nomi non fu incluso quello di Bernardo Provenzano perché allora si riteneva che fosse morto. Salvatore Cancemi e Giovanni Brusca furono condannati a 18 anni. I due esecutori materiali del delitto, poi divenuti collaboratori di giustizia, furono condannati a 13 anni di carcere.

A riassumere le motivazione dell’uccisione di Salvo Lima fu Giovanni Brusca, l’esecutore materiale dell’attentato a Giovanni Falcone: «Dopodiché viene la sentenza [del maxiprocesso n.d.r.] e si comincia a fare tutta una serie dì omicidi per… per toglierci le spine dal fianco, come si suol dire, o quelli che prima, tramite la mafia hanno avuto del bene, tipo l’onorevole Lima, la corrente andreottiana e lo stesso onorevole Andreotti… ne hanno avuto beneficio e poi ci hanno abbandonato, cioè si sono un po’ defilati e si sono guardati i suoi fatti e ci hanno un po’ abbandonati».