Una mattina a Molenbeek

«Pare che al Cafè Les Béguines, oltre a farsi le canne e spacciare, occupassero il tempo guardando i truculenti video dell’Isis con gli ostaggi decapitati o bruciati vivi. Per questo sono parecchio turbata quando ci arrivo davanti. Il locale è identico a com’era nelle foto di prima del 13 novembre 2015. È cambiata la scritta sull’insegna»

Poliziotti schierati a Molenbeek, Bruxelles, il 18 marzo 2016 durante l'operazione antiterrorismo che ha portato all'arresto di Salah Abdeslam, poi condannato all'ergastolo per le stragi del novembre 2015 a Parigi (Foto Carl Court/Getty Images)
Poliziotti schierati a Molenbeek, Bruxelles, il 18 marzo 2016 durante l'operazione antiterrorismo che ha portato all'arresto di Salah Abdeslam, poi condannato all'ergastolo per le stragi del novembre 2015 a Parigi (Foto Carl Court/Getty Images)

Piove senza sosta, piove come se la siccità non fosse mai esistita, piove come ognuna delle tre volte che sono stata a Bruxelles. È sabato mattina, primo giorno di aprile, e sono qui perché stasera ho un incontro coi lettori di Piolalibri.

Sto andando a Molenbeek, che – come scrive Emmanuel Carrère in V13, il suo ultimo libro per Adelphi – è «il quartiere nella periferia di Bruxelles che ha la cattiva fama di essere il centro del jihadismo europeo».

Da quando l’ho incontrato a Milano, qualche giorno fa, per presentare il suo portentoso racconto del processo per le stragi di venerdì 13 novembre 2015 a Parigi, non riesco a pensare ad altro. Al libro perché è potentissimo, a lui perché il nostro incontro non è andato come immaginavo.

«Vorrebbero poter descrivere Molenbeek come un luogo multiculturale, ma sono costretti a riconoscere che è un luogo quasi completamente monoculturale, dato che il novantacinque per cento dei suoi abitanti è musulmano, le donne portano il niqab… non per questo però è un quartiere pericoloso per i kuffar, così vengono chiamati in arabo gli infedeli come noi» scrive Carrère.

Io sono una kuffar e le stragi me le ricordo bene: un morto davanti a un ingresso dello Stade de France; tredici davanti ai ristoranti Le Carillon e Le Petit Cambodge, cinque nella sparatoria contro il Café Bonne Bière e la pizzeria Casa Nostra, ventuno davanti al ristorante La Belle Équipe, novanta al Teatro Bataclan durante il concerto del gruppo Eagles of Death Metal. Centotrenta morti, trecentosessantotto feriti, un suicida tra i sopravvissuti, sette terroristi morti tra kamikaze e uccisi dalla polizia. Una carneficina. Quello che avevo quasi dimenticato, o forse rimosso, erano le scene angosciose dell’assedio del quartiere di Molenbeek, delle irruzioni, della caccia all’uomo, della cattura, e soprattutto il fatto che gran parte del piano del massacro nascesse qui a Bruxelles, in un bar di Molenbeek: il Café Les Béguines, in rue des Béguines.

Da quando l’ho letto penso molto a V13 e non solo per i dettagli orribili come i coriandoli di carne che cadono addosso ai ragazzi stesi sulla pista del Bataclan quando un terrorista si fa esplodere, o per i racconti strazianti dei sopravvissuti e di chi quel giorno ha perso una figlia come Nadia o il marito come Maya. Ci penso perché è uno dei pochi libri dove il bene – di alcuni gesti e discorsi di parenti e sopravvissuti – è molto più affascinante del male. Ci penso soprattutto per la difficoltà a capire come un gruppo di ragazzi dell’età di mio figlio, nati in Europa, decida di assassinare decine di loro coetanei che si stanno divertendo e di farsi saltare in aria.

Sette tra gli imputati del processo e tre dei componenti morti del commando abitavano a Molenbeek: «piccolo centro di sei chilometri quadrati dove la densità della popolazione è il doppio rispetto al resto di Bruxelles e la disoccupazione è il triplo. Gli imputati abitavano a due passi l’uno dall’altro… sono cresciuti insieme, andati a scuola insieme, hanno fatto cazzate insieme ed erano cazzate innocenti finché nel 2012 non è sorta all’orizzonte la grande e tenebrosa e magnetica cazzata che ha stravolto le loro vite».

Da place Loix a Saint-Gilles – dove ho dormito – a Molenbeek ci vogliono tre quarti d’ora se si va un po’ a piedi e un po’ in tram, come mi ha consigliato di fare mio figlio – che ha vissuto qui un anno – «per sentire meglio la differenza tra il centro e la periferia». Cammino sotto la pioggia fino alla Gare du Midi poi prendo il tram 82: undici fermate fino alla fermata Cimetière de Molenbeek. Tutti i passeggeri hanno un aspetto arabo. Ragazzi e ragazze in jeans, sneakers e piumino, qualche famiglia con bambini piccoli, qualche donna velata. Nessuno guarda la kuffar italiana, anche perché sono vestita come loro e ho la pelle olivastra come loro, ma non credo che mi guarderebbero nemmeno se fossi una modella scandinava in minigonna. Sul tram 82 lo sguardo di tutti i passeggeri è fisso sullo smartphone, come sul 10 a Milano.

Scendo alla mia fermata, lungo chaussée de Gand, un’arteria commerciale simile a tante di altre periferie, con qualche negozio di barbiere, assicurazioni, alimentari, e cammino pochi metri fino a rue des Béguines, una piccola via semideserta fiancheggiata da vecchi edifici a tre piani di mattoni rossi. In uno di questi, al 49, c’era il Café Les Béguines, gestito dal 2013 dai fratelli Brahim e Salah Abdeslam, due dei terroristi.

L’entrata del Café Les Béguines, ora Maison des Béguines, al 49 di rue des Béguines, Molenbeek, Bruxelles (foto Daria Bignardi)

Dopo aver ammazzato trentanove persone Brahim Abdeslam si è fatto saltare in aria alla caffetteria Comptoir Voltaire, Salah Abdeslam all’ultimo momento non si è fatto esplodere ed è scappato. È stato catturato dopo quattro mesi qui a Molenbeek ed è diventato l’imputato numero uno del processo V13, dove l’hanno condannato all’ergastolo senza condizionale, quello che da noi viene chiamato ostativo.

Nel libro Carrère descrive i terroristi affiliati all’Isis come i cazzoni che probabilmente erano: ragazzi che passavano le giornate a farsi le canne, spacciare e giocare alla PlayStation. Come da questa condizione diffusa tra i loro coetanei in tutto il mondo siano poi passati a essere terroristi e kamikaze non mi è ancora chiaro, ma ho capito che la loro radicalizzazione è passata attraverso almeno uno di questi tre momenti: le scuole coraniche, il carcere, la Siria. Il più psicopatico di loro, e anche il più benestante, è quell’Abaaoud che in un video diventato virale trascinava cadaveri e giocava con teste decollate.

Pare che al Café Les Béguines, oltre a farsi le canne e spacciare, occupassero il tempo guardando i truculenti video dell’Isis con gli ostaggi decapitati o bruciati vivi. Per questo, oltre che per tutto quello che ho appena letto sugli imputati del processo V13, sono parecchio turbata quando ci arrivo davanti.

Il locale è identico a com’era nelle foto di prima del 13 novembre 2015: stesse porte e finestre ad arco, stessi davanzali bianchi, stessi infissi neri. È cambiata la scritta sull’insegna: prima c’era il nome del locale, Les Béguines, scritto su un cartellone rettangolare lungo e stretto sponsorizzato dalla birra belga più bevuta, la Jupiler, ora sullo stesso cartellone bianco è stato tolto il logo della birra e il nome del caffè è stato coperto dalla scritta La Maison des Béguines. E in piccolo: Bienvenue chez vous. Un manifesto sulla porta avverte che tutti i martedì dalle nove alle undici e trenta in quel locale, diventato un centro di «accoglienza e integrazione», si può avere gratuitamente una consulenza amministrativa su bollette e altre faccende burocratiche. Un altro manifesto, di Actiris Brussels, l’ufficio di collocamento belga, mostra il ritratto di un sorridente ragazzo arabo – dall’incredibile somiglianza con Salah Abdeslam – con la scritta «Les Bruxellois ont des compétences uniques, ça c’est le tof!» (I brussellesi hanno delle competenze uniche, questa è la figata) che dovrebbe suonare inclusiva e spiritosa ma su questa porta da dove sono usciti coi kalashnikov per la strage suona parecchio sinistra.

Tutto suona sinistro, qui intorno. Il monopattino rovesciato davanti all’ingresso, gli alberelli dai rami scheletrici, il negozio di fruttivendolo buio e deserto all’altro lato della strada. Dettagli normalissimi, che non noterei dietro casa mia a Milano, ma che qui, dopo quel che è successo, sembrano segnali inquietanti.

Decido di entrare nel bar più vicino per osservare la clientela del quartiere. Si chiama STUDIO 33, fa angolo con la via principale, ha due vetrine sulla strada. Quando entro, mi sembra che la barista, una donna altissima dalla lunga coda di cavallo nera, mi guardi allibita, come se nessun cliente non abituale fosse mai entrato lì dentro. Ci sono solo due avventori: uno è un signore coi basettoni e il cappello di feltro seduto al banco che parla con lei in una lingua che non riconosco, l’altro è un giovane biondo e male in arnese in carrozzina. Dietro al banco c’è una gran bandiera rosso nera del RWD Molenbeek, una società calcistica – diventata vent’anni fa FC Molenbeek Brussels Strombeek – che vinse il campionato belga nel ’74-’75, anno in cui in Italia lo vinse la Juve con il Napoli secondo a due punti di distanza.

Su una parete un grande schermo manda video di musica dance elettronica e su quella di fronte ci sono quattro slot machine. Ordino un caffè americano e mi siedo a un tavolo sul quale è accatastata una pila di riviste vecchie di qualche mese: molti numeri di Gala, qualche Ciné Telé Revue. Comincio a sfogliarne una di dicembre con in copertina Céline Dion che «revèle enfin sa maladie».

Sono le undici del mattino, tardi per la colazione e presto per l’aperitivo. Il ragazzo biondo in carrozzina beve caffè, l’uomo al banco vino rosso: per attaccare bottone chiedo alla barista se può mettere in carica il mio telefono e poi domando in che lingua stiano parlando lei e cappello di feltro. «Moldavo» dice, con un gran sorriso. «Ah, sono stata a Chisinãu a fine anno, ho mangiato un ottimo rãcituri» me la gioco. Lei allora si presenta, dice che si chiama Raisa, chiede di dove sono io e alla risposta si illumina e racconta che sua sorella abita da tre anni a Firenze. «E lei da quanto è qui?» chiedo. «Da troppo tempo» risponde, guardando cappello di feltro, che alza il bicchiere verso di me. «C’eravate anche nel 2015?» domando. «Non qui» risponde Raisa. Il sorriso si spegne. Cappello di feltro si alza. Si scambiano un cenno ed escono a fumare, lasciandomi sola nel locale col ragazzo biondo che guarda fisso una partita sul cellulare. I pochi non arabi di Molenbeek sono tutti allo STUDIO 33 ma nessuno sembra aver voglia di parlare dei fatti del 2015.

Mentre aspetto che Raisa rientri, rileggo qualche riga dal libro di Carrère che ho portato con me: «Il Café Les Béguines è un postaccio infame dove a nessun kuffar verrebbe in mente di entrare e dove in una densa nube di hashish ciondola un gruppetto di spacciatori o di grossi consumatori, il più delle volte l’una e l’altra cosa… Chi lo frequentava? Quasi tutta la banda, in qualità di camerieri, spacciatori o semplici habitué – molti erano tutt’e tre le cose. Che succedeva lì dentro? Guardavano i video dello Stato Islamico. Brahim li faceva andare in loop sul suo computer…: la decapitazione del giornalista americano James Foley, il pilota giordano bruciato vivo in una gabbia e il loro video preferito perché ne conoscevano la star, Abdelha-mid Abaaoud, il loro amico d’infanzia, il loro fratello, che al volante del suo pick-up trascinava nella polvere un grappolo di cadaveri, divertendosi, con la sua faccina da spiritello psicopatico, e invitando tutti a venire a divertirsi con lui… È in cantina che scendeva Brahim per lunghe discussioni su Skype con Abaaoud, il quale, a Raqqa, cominciava a organizzare gli attentati».

Raisa resta fuori dal bar dieci minuti. Quando torna, senza cappello di feltro, non riesco più a parlarle: mi evita. Quando chiedo indietro il mio telefono e pago faccio ancora un tentativo di familiarizzare domandando se sa dove a Bruxelles si mangi la placinte moldava al formaggio ma risponde un secco «No» senza guardarmi in faccia. Citare il 2015 non mi ha resa popolare.

Quando lunedì scorso ho incontrato Emmanuel Carrère nella portineria del Piccolo Teatro, mezz’ora prima della presentazione, tra noi è scattata una schietta antipatia. Succede. Ho provato a chiedergli se la sua voglia di scrivere reportage c’entrasse col fatto che sta meglio di quando ha scritto Yoga, dove parla dei suoi disturbi depressivi, perché questo è successo a me. L’ha presa come se pensassi che il reportage sia una forma meno nobile di letteratura, mentre per me è il contrario. Però mi ha dato una risposta bellissima: «Il mondo là fuori è talmente incasinato che non ho voglia di chiudermi dentro a un romanzo, preferisco uscire e raccontarlo». È il motivo per cui stamattina sono a Molenbeek invece che al Museo Magritte.

Risalendo sul tram 82 per tornare verso Saint-Gilles penso alla citazione di Carrère da Simone Weil sul «male immaginario che è romantico, romanzesco e vario mentre il male reale è incolore, desertico, noioso» e il bene immaginario che è noioso mentre «il bene reale è sempre nuovo, meraviglioso, inebriante»: contiene proprio il senso profondo di uno dei migliori libri che ho letto quest’anno.

Daria Bignardi
Daria Bignardi

Daria Bignardi fa la scrittrice e la giornalista, conduce ogni giorno il programma Ora Daria su Radio Capital, e il suo ultimo libro è Libri che mi hanno rovinato la vita (Einaudi).

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