Le 5 urgenze economiche del governo Meloni

Aiuti, prezzo del gas, legge di bilancio, PNRR e pensioni: molte cose sono da fare in poche settimane, senza far aumentare troppo il debito pubblico

di Mariasole Lisciandro

Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti durante un convegno nel 2018 (Foto Roberto Monaldo/LaPresse)
Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti durante un convegno nel 2018 (Foto Roberto Monaldo/LaPresse)
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Il governo di Giorgia Meloni è entrato in carica in un momento difficile per l’Italia. Le conseguenze economiche della guerra in Ucraina, tra cui rincari dell’energia e inflazione, pesano su famiglie e imprese italiane. Il nuovo governo dovrà continuare da una parte con il programma di aiuti impostato negli scorsi mesi dal governo Draghi e dall’altra dovrà continuare i faticosissimi negoziati sul tetto al prezzo del gas a livello europeo.

Tra gli impegni inderogabili c’è poi far approvare la legge di bilancio entro dicembre e continuare a rispettare il programma serrato di scadenze per ottenere i fondi europei legati al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Ma rimangono urgenti anche i tradizionali dossier che caratterizzano da sempre l’economia italiana: concorrenza, pensioni, tasse sul lavoro, riforma fiscale e così via.

Queste misure dovranno essere portate avanti in un clima economico di grande incertezza. L’economia italiana dovrebbe chiudere quest’anno in crescita del 3,3 per cento, grazie soprattutto a un grande slancio ereditato dallo scorso anno, ma si avvia verso un 2023 in cui potrebbe già essere un successo una debole crescita poco sopra lo zero per cento.

Come riuscirà Meloni a sostenere un’economia che sembra destinata al rallentamento se non alla recessione? I modi per finanziare nuove misure economiche sono sostanzialmente tre: ridurre le spese, aumentare le tasse o usare il debito pubblico.

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E il ricorso al debito, a differenza di quanto è accaduto in passato, non potrà essere fatto alla leggera. Benché siano momentaneamente sospese le regole europee sui conti pubblici, che prevedono rigidi vincoli di spesa e indebitamento soprattutto per un paese già indebitato come l’Italia, i tassi di interesse sono in aumento proprio per le politiche monetarie che la Banca Centrale Europea sta portando avanti per fermare l’inflazione.

Questo significa che il debito aggiuntivo avrà un costo ben più alto che in passato e i mercati finanziari, ossia chi ci presta i soldi, saranno più sensibili a una gestione poco accorta dei conti pubblici. La breve esperienza di Liz Truss al governo britannico lo dimostra: la sola proposta di una grossa riduzione delle tasse finanziata a debito ha portato il Regno Unito in una seria crisi finanziaria, che ha costretto prima la Banca d’Inghilterra (cioè la banca centrale britannica) a intervenire per mantenere la stabilità e poi la prima ministra a dimettersi, dopo aver ritirato il piano quasi per intero.

Secondo una vecchia metafora che risale a quando Pier Carlo Padoan era ministro dell’Economia nei governi di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, il governo si muove in un «sentiero stretto»: deve prepararsi a sostenere l’economia ma tenendo i conti pubblici in ordine, cercando di ricorrere con parsimonia al debito pubblico.

Più nel dettaglio, ecco quali sono le urgenze economiche del governo Meloni.

Rinnovare le misure in scadenza contro i rincari dell’energia
Nel giro di un anno il governo Draghi ha attuato parecchie misure per attenuare i rincari dell’energia e ha intensificato gli sforzi dall’inizio della guerra in Ucraina. Il vecchio governo ha stanziato oltre 60 miliardi di euro per misure come l’abbattimento degli oneri di sistema in bolletta, ossia quella componente fissa che è stata azzerata per tenere più basso il costo delle utenze, il bonus sociale per le famiglie più povere, il taglio delle accise sulla benzina pari a 30,5 centesimi al litro, i crediti di imposta per le aziende e così via.

Meloni sembra voler continuare su questa strada, anche perché iniziare a togliere proprio ora questi aiuti sarebbe economicamente controproducente e molto impopolare. L’ex ministro dell’Economia Daniele Franco ha lasciato al nuovo governo circa 10 miliardi finora inutilizzati per far sì che le misure messe in campo possano durare almeno fino a fine dicembre.

Continuare i negoziati europei sul tetto al prezzo del gas
Il governo Meloni dovrà poi continuare i complicati negoziati europei sull’introduzione di un meccanismo per tenere sotto controllo il prezzo dell’energia. Draghi è stato il principale sostenitore di un tetto al prezzo del gas fin dalle prime fasi della guerra in Ucraina e nell’ultimo Consiglio europeo ha contribuito all’ottenimento di un accordo politico piuttosto generico che però va in questa direzione.

Meloni dovrà trovare il modo di rendere concreto questo impegno. Sembra che ne sia ben consapevole dal momento che ha mantenuto l’ex ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani come consulente del governo proprio su queste materie. Che accompagnerà il nuovo ministro Gilberto Pichetto Fratin alle riunioni tecniche dei ministri dell’Energia europei di questa settimana.

La legge di bilancio deve essere approvata entro il 31 dicembre
La legge di bilancio, ossia quella legge che contiene le indicazioni sul bilancio dello stato per l’anno successivo, quindi le sue previsioni di spese ed entrate, dovrà essere disegnata in tempi strettissimi. E sarà anche piuttosto impegnativa, non solo per i tempi, ma anche per la congiuntura economica che l’Italia affronterà il prossimo anno e per il “sentiero stretto” in cui dovrà muoversi il nuovo ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti.

Giorgetti avrà a disposizione solo qualche settimana per costruire un’intesa con la Commissione europea sull’impianto generale della manovra finanziaria, che dovrà poi essere formalizzata entro la fine di novembre con l’invio del Documento programmatico di bilancio. Anche perché l’autunno è da sempre dedicato alla legge di bilancio, non si erano mai tenute elezioni generali in questo periodo dell’anno nella storia repubblicana.

La legge di bilancio dovrà trovare il modo di rifinanziare innanzitutto gli aiuti a famiglie e imprese per far fronte all’aumento dei prezzi, ma le cifre definitive devono ancora essere fissate. Secondo i calcoli di Marco Mobili e Gianni Trovati sul Sole 24 Ore, la nuova legge di bilancio prevederà spese aggiuntive tra i 30 e i 40 miliardi di euro solo per riproporre le stesse misure di Draghi, escludendo quindi le varie promesse elettorali della coalizione di destra. A meno che non voglia imporre nuove tasse o ridurre spese esistenti, entrambi scenari politicamente inaccettabili per una coalizione che ha incentrato la campagna elettorale sulla riduzione dell’onere fiscale per i cittadini, è plausibile ipotizzare che il governo dovrà far ricorso al debito pubblico. E che per il momento metterà da parte le sue promesse elettorali più costose, come la flat tax.

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Rispettare le scadenze serrate del PNRR
Non è ancora chiaro cosa Meloni intenda fare con il PNRR. In campagna elettorale ha dichiarato più volte che il piano deve essere rinegoziato con la Commissione europea, anche per tenere conto di tutti i cambiamenti che ci sono stati in questi mesi, a partire dal consistente rincaro dei materiali. Da allora però i toni si sono attenuati molto, anche in vista dell’ultima tranche dell’anno dei fondi europei legati al PNRR che devono essere incassati, pari a 21 miliardi, a patto che siano stati raggiunti gli obiettivi concordati per quella data.

Meloni, che è sempre stata molto critica sul modo in cui è stato scritto il piano dal governo Draghi, sostiene poi da settimane che «i ritardi del PNRR sono evidenti e difficili da recuperare». A inizio ottobre si era anche creata una piccola polemica a distanza con Draghi, il quale al contrario sostenne che «non ci sono ritardi nell’attuazione del PNRR: se ce ne fossero, la Commissione non verserebbe i soldi».

Effettivamente, ad oggi, il governo italiano ha ottenuto senza intoppi i fondi che aveva preventivato di ottenere. Ma l’erogazione dei fondi da parte della Commissione citata da Draghi racconta soltanto una parte della storia.

Nel primo anno e mezzo di attuazione del piano il governo è riuscito a spendere la metà dei fondi che aveva preventivato. Questo per svariati motivi: innanzitutto si devono tenere in conto gli effetti dei rincari notevoli di materie prime ed energia; c’è poi un tempo fisiologico necessario affinché la pubblica amministrazione si adatti alle nuove procedure del PNRR; infine, l’Italia ha da sempre grande difficoltà di spesa dei fondi europei a causa di tantissima burocrazia da soddisfare, motivo per cui sono state create procedure apposta per la realizzazione di questo piano.

Ma ci sono altri elementi che si possono legittimamente considerare preoccupanti: per esempio il fatto che finora le spese effettuate nell’ambito del PNRR hanno riguardato soprattutto progetti già esistenti e avviati che erano stati inseriti nel piano per assicurarne il completamento.

Meloni non ha tutti i torti quando dice che l’Italia è in ritardo su alcuni aspetti dell’attuazione del PNRR. Il suo governo quindi avrà il compito di portare avanti il piano rispettando le scadenze previste ed è probabile che il compito sarà ben più difficile di quello di Draghi. Meloni dovrà condurre il piano in una fase che non è più quella iniziale, in cui sarà politicamente più difficile giustificare eventuali ritardi e inefficienze.

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Decidere cosa fare con le pensioni
La coalizione che ora forma il governo di destra è sempre stata molto contraria alla cosiddetta legge Fornero, una riforma delle pensioni approvata nel 2011 durante il governo di Mario Monti, un governo tecnico sostenuto da quasi tutti i partiti in parlamento per far fronte alla gravissima crisi economica in corso in quel momento.

Come altre norme adottate da quel governo, la legge Fornero fu una misura mirata a risanare immediatamente le finanze pubbliche: impostò un percorso per rendere più sostenibile a livello economico il sistema delle pensioni, attraverso un aumento dell’età pensionabile e una rivalutazione più frequente dell’aspettativa di vita. Fu una norma molto dura da far accettare ai cittadini, perché di fatto rendeva più lontano nel tempo l’andare in pensione.

Proprio perché c’era una grave crisi economica da risolvere nell’immediato, almeno all’inizio fu accolta senza troppe critiche da parte dei partiti, ma già un anno dopo, quando l’economia italiana aveva cominciato a riprendersi, quasi la totalità dei politici le rivolsero accese e continue critiche. Il partito più duro, anche con toni molto aggressivi, fu la Lega, che sulla questione delle pensioni cercò spazi per guadagnare consensi elettorali.

I governi politici successivi a Monti hanno trovato negli anni nuovi meccanismi per allontanare nel tempo il passaggio al regime integrale previsto in origine dalla riforma Fornero. Le pensioni sono infatti uno dei temi più sensibili tra l’elettorato, quindi è politicamente difficile per un governo che non abbia un enorme consenso trasversale imporre misure peggiorative dello status quo.

Negli anni si è assistito quindi all’introduzione di eccezioni temporanee per aggirare i limiti imposti dalla riforma: c’è stata prima l’introduzione dell’Ape sociale (Ape sta per “anticipo pensionistico”), che consentiva di andare in pensione prima a chi aveva svolto lavori gravosi, poi di Quota 100 nel 2018 e infine di Quota 102 per il 2022.

Dal 1° gennaio del 2023, in mancanza di nuove misure, si tornerebbe alle rigidità del sistema Fornero. Ecco perché quella delle pensioni è una priorità assoluta per il nuovo governo, che deve trovare il modo di far entrare in vigore l’ennesima eccezione alla legge Fornero per andare in pensione così da non perdere consensi.

Secondo Marco Rogari del Sole 24 Ore, sarebbero quattro le ipotesi allo studio del governo. La prima è Quota 41, molto cara alla Lega e ai sindacati, che prevede il pensionamento con 41 anni di contributi a prescindere dall’età. Tuttavia è un’opzione che costa 4 miliardi l’anno e per questo si pensa di affiancarla a un vincolo d’età, che potrebbe essere fissato a 61 o 62 anni. Così nascerebbe una Quota 102 o 103 di fatto.

La seconda è una Quota 102-103 ma flessibile, con requisiti elastici. È un’ipotesi molto vicina a quella diffusa in un rapporto del centro studi del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro, organismo di cui la nuova ministra del Lavoro Marina Calderone era presidente. Nello studio si fa riferimento ad una Quota 100 o 102 “flessibile”, una condizione che dovrebbe consentire l’uscita dei lavoratori di età compresa tra i 61 e i 66 anni con almeno 35 anni di contributi.

C’è poi la possibilità di estendere Opzione Donna anche agli uomini. Opzione Donna è una misura introdotta nel 2004 dal governo Berlusconi e prevede la possibilità per le lavoratrici dipendenti di andare in pensione a partire dai 58 anni di età con 35 anni di versamenti contributivi, a patto che la quota di pensione che andrebbe calcolata con il sistema retributivo (basato sulla retribuzione e non sull’ammontare di contributi versati) venga ricalcolata con il metodo contributivo.

Infine l’ultima ipotesi è l’uscita con penalizzazione: è la proposta di Fratelli d’Italia che consentirebbe l’uscita dal lavoro a partire da 62 anni (con 35 di contributi) e non ai canonici 66, a fronte di una riduzione dell’assegno pensionistico che aumenta più si anticipa la pensione, per un massimo dell’8 per cento: chi andrà in pensione a 62 anni avrà una riduzione dell’8 per cento, chi ci andrà a 64 avrà una riduzione un po’ inferiore. L’assegno pensionistico, soprattutto per i lavoratori sul mercato del lavoro da più tempo, è composto da una componente contributiva, che si basa su quanti contributi si è versato in totale, e una retributiva, che si basa sugli ultimi stipendi percepiti, ed è su questa che agirebbe la penalizzazione.

Il governo Meloni sembra quindi costretto a dover decidere tra far scattare le rigidità della riforma Fornero con un impatto nullo sui conti pubblici, che però deluderebbe una parte consistente del suo elettorato, oppure una delle opzioni costose in discussione e di favore che renderebbero ancora più instabile la situazione finanziaria del paese.