Il primo lancio di Artemis è stato rinviato

A causa di un problema a un motore, la prima storica missione del nuovo programma spaziale della NASA per tornare sulla Luna non partirà oggi

di Emanuele Menietti

(AP Photo/Brynn Anderson)
(AP Photo/Brynn Anderson)

Il lancio di Artemis 1, la prima missione dell’ambizioso programma spaziale statunitense per tornare sulla Luna che sarebbe dovuta partire oggi, è stato rinviato a causa di un problema tecnico a uno dei motori del razzo. Mentre il sistema di lancio (Space Launch System, SLS) veniva preparato con il propellente nelle prime ore di lunedì, una procedura che interessava i motori del primo stadio (Core Stage) ha fatto rilevare l’anomalia, inducendo i tecnici della NASA a sospendere il conto alla rovescia in attesa di soluzioni per risolvere il problema. Non potendo attuare rapidamente una soluzione, il lancio sarà riprogrammato nei prossimi giorni in modo da consentire ulteriori verifiche, il primo giorno utile dovrebbe essere venerdì 2 settembre. Un rinvio era un’eventualità, trattandosi del primo volo di test di un sistema estremamente complesso.

Quando l’enorme razzo alto 98 metri partirà da Cape Canaveral, in Florida, per superare l’atmosfera terrestre e spingere un veicolo spaziale verso l’orbita della Luna, non ci sarà un equipaggio a bordo: sarà una sorta di prova generale, ma il lancio è considerato ugualmente cruciale perché dal suo esito dipenderà il futuro delle missioni lunari e forse un giorno verso Marte.

Le ultime parole pronunciate sulla Luna nel dicembre del 1972 durante la missione Apollo 17 vengono ricordate meno rispetto a quelle del primo allunaggio, avvenuto appena tre anni prima: al termine di un breve discorso, l’astronauta statunitense Eugene Cernan disse al proprio compagno di viaggio «andiamocene», e insieme lasciarono il suolo lunare. Da allora sono passati 50 anni e nessun essere umano è tornato sulla Luna, ma le cose potrebbero presto cambiare, aprendo una nuova e attesa stagione delle esplorazioni spaziali.

SLS e Orion
Le attenzioni dei tecnici della NASA e delle aziende e agenzie spaziali che partecipano all’iniziativa, compresa quella europea (ESA), saranno concentrate soprattutto sullo Space Launch System (SLS), il sistema di lancio che avrà il compito di spingere Orion, il veicolo spaziale vero e proprio che si trova sulla sua sommità, oltre la Terra verso l’orbita lunare.

A vederlo da lontano, SLS ha una forma familiare che ricorda alcune parti degli Shuttle, le astronavi che partivano in verticale e tornavano atterrando come un aeroplano impiegate fino al 2011 dalla NASA per trasportare in orbita equipaggi e satelliti, nonché per assemblare la Stazione Spaziale Internazionale. Il nuovo sistema è in effetti una derivazione di varie tecnologie già sviluppate per gli Shuttle: il suo corpo centrale, il primo stadio (Core Stage), ricorda il grande serbatoio arancione cui erano collegati gli Shuttle al momento della partenza e dal quale attingevano il propellente per alimentare i loro motori.

Lo Space Shuttle Discovery a confronto con SLS (NASA)

Nel caso di SLS, i motori (che sono dello stesso modello usato un tempo per gli Shuttle) sono collegati direttamente alla base del Core Stage, ma non sono gli unici coinvolti nelle prime fasi di lancio. Proprio come avveniva con gli Shuttle, ai due lati del primo stadio ci sono due razzi più piccoli (Solid Rocket Booster, SRB), essenziali per imprimere la spinta iniziale all’intero SLS alto quasi 100 metri per staccarsi dalla base di lancio.

Ogni SRB è alto quanto un palazzo di 15 piani e contiene un propellente composto da perclorato d’ammonio e polibutadiene acrilonitrile, che producono una rapida reazione. Ogni booster brucia circa sei tonnellate di propellente ogni secondo, producendo una spinta pari a quella prodotta da 14 aerei di linea (Boeing 747), secondo i calcoli della NASA. Da soli, i due SRB producono più di tre quarti della spinta necessaria per le prime fasi del lancio. Il Core Stage utilizza invece idrogeno liquido e ossigeno liquido per alimentare i propri quattro motori.

Sopra al Core Stage è montato uno stadio superiore, dotato di un solo motore, sopra al quale è collocato il veicolo spaziale vero e proprio che si chiama Orion, costituito da due moduli: quello dell’equipaggio, dove un giorno ci saranno le astronaute e gli astronauti, e quello di servizio realizzato da Airbus per conto dell’ESA. Infine, in cima a Orion c’è il sistema di abbandono del lancio, dotato di propri motori e che ha il compito di portare velocemente il veicolo spaziale a distanza dall’enorme razzo cui è collegato nel caso in cui qualcosa vado storto, probabilmente con una grande esplosione.

(NASA)

Ricapitolando, partendo dal basso ci sono: il Core Stage, cioè il grande cilindro arancione, con i due booster collegati, poi il secondo stadio, il modulo di servizio, il modulo dell’equipaggio e in cima a tutto il sistema di abbandono del lancio. Soluzioni modulari di questo tipo sono molto comuni nell’industria spaziale: portare tonnellate di materiale in orbita richiede un grande dispendio di energia, di conseguenza la strategia migliore è rendere via via più leggero il proprio veicolo spaziale man mano che prende quota, in modo da poterne spingere più facilmente la massa. E questo ci porta sulla rampa di lancio.

Lancio
Al momento del lancio, SLS accenderà fragorosamente i propri motori e si staccherà dal suolo, guadagnando rapidamente velocità nonostante la propria massa complessiva di 2.600 tonnellate. Lo farà soprattutto grazie ai due potenti SRB, che in un paio di minuti faranno raggiungere al sistema un’altitudine di 48mila metri. Avendo esaurito il propellente ed essendo ormai una zavorra inutile, si staccheranno dal resto di SLS andando a tuffarsi nell’oceano Atlantico, dove non saranno recuperati.

L’ascesa proseguirà grazie alla spinta dei quattro motori del Core Stage per altri sei minuti, quando anche lo stadio più grande avrà esaurito il proprio propellente dopo avere consentito al resto di SLS di raggiungere una quota di quasi 170 chilometri. Nel frattempo si sarà già separato il sistema di abbandono del lancio e a poco meno di 8 minuti dall’inizio del viaggio, il Core Stage si separerà dallo stadio superiore e tornerà sulla Terra, finendo nell’oceano Pacifico.

(NASA)

A questo punto di SLS sarà rimasto Orion collegato allo stadio superiore di SLS, che dopo un breve periodo in orbita intorno alla Terra attiverà i propri motori per inserire il veicolo nella giusta rotta verso la Luna, che dista in media 380mila chilometri da noi. A circa due ore dal lancio, Orion proseguirà il proprio viaggio da solo dopo essersi separato dallo stadio superiore, che avrà intanto lasciato in eredità dieci piccoli satelliti (CubeSat) utilizzati per compiere vari esperimenti. Tra questi ci sarà anche ArgoMoon, satellite realizzato dall’italiana ArgoTec per conto dell’Agenzia spaziale italiana, che si occuperà di osservare le condizioni dello stadio superiore.

Luna
Orion impiegherà una decina di giorni per raggiungere la Luna, dando tempo ai tecnici di raccogliere dati importanti sul comportamento del veicolo nell’ambiente spaziale. In prossimità del nostro satellite naturale, Orion condurrà un passaggio ravvicinato a poco meno di 100 chilometri dalla superficie lunare, sfruttando poi la spinta gravitazionale per inserirsi in un’orbita retrograda, cioè contraria al senso di rotazione della Luna. Il veicolo spaziale si spingerà fino a 64mila chilometri oltre la Luna, segnando un nuovo record rispetto al precedente di 16mila chilometri circa, raggiunto con la missione Apollo 13.

(NASA)

Rientro
Orion trascorrerà alcuni giorni nell’orbita lunare, prima di accendere nuovamente i motori che gli consentiranno di uscirne e di riprendere il viaggio verso casa. In prossimità del nostro pianeta si libererà del modulo di servizio e orienterà il proprio scudo termico verso la Terra, in modo da ripararsi dalle alte temperature che si svilupperanno nel corso del turbolento ingresso nell’atmosfera terrestre. Superate le fasi più intense del rientro, aprirà i propri paracadute e terminerà il viaggio nell’oceano Pacifico, dove le squadre di soccorso si occuperanno del suo recupero.

I tempi della missione potranno subire variazioni a seconda del momento della partenza, ma nel complesso la NASA ha in programma di compiere tutte le attività, dal lancio al rientro, in un arco di tempo di 43 giorni. Se tutto filerà liscio, la fine della missione sancirà il primo importante successo del programma Artemis e renderà in un certo senso la Luna un po’ più vicina ai suoi futuri esploratori.

Test di recupero del modulo dell’equipaggio di Orion nel marzo del 2018 (NASA)

Da Apollo ad Artemis
La storia di come siamo arrivati a tornare sulla Luna è sicuramente più tortuosa della rotta che dovrà seguire Orion nei prossimi giorni. Dopo i successi del programma Apollo, che tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta aveva reso possibili ben sei allunaggi, l’interesse verso la Luna iniziò a diminuire: gli Stati Uniti avevano dimostrato la propria superiorità nella cosiddetta “corsa allo Spazio” rispetto all’Unione Sovietica, e le enormi quantità di denaro investite fino ad allora avevano indotto a rivedere i fondi per la NASA. I progressi dell’elettronica stavano inoltre aprendo la strada a sonde e robot automatici, con missioni meno costose e senza la necessità di mettere a rischio la vita degli astronauti.

L’interesse delle esplorazioni con esseri umani si spostò verso l’orbita bassa della Terra, con la costruzione delle prime basi orbitali, avamposti in cui gli astronauti e le astronaute potessero trascorrere varie settimane in orbita. Da quelle esperienze nacque il progetto più ambizioso mai realizzato intorno alla Terra: costruire un enorme laboratorio, gestito da più paesi per la ricerca scientifica in numerosi ambiti, la Stazione Spaziale Internazionale (ISS).

La Luna continuava però a essere il pallino di molte persone, soprattutto negli Stati Uniti dove l’industria spaziale è molto sviluppata e ha una grande influenza sulla politica. In molti stati ci sono aziende che da decenni lavorano per la NASA, danno lavoro a migliaia di persone e sono sempre alla ricerca di nuovi contratti e opportunità. Fanno pressioni sui politici perché rappresentino le loro istanze al Congresso, ed è del resto il Congresso a stanziare periodicamente i fondi che utilizza la NASA per gli appalti.

Da presidente, George W. Bush mostrò di essere particolarmente sensibile a quelle istanze e più in generale a rilanciare le attività della NASA. Nel 2004 annunciò il programma Constellation dando obiettivi puntuali all’agenzia spaziale: completare l’ISS entro il 2010, chiudere il programma degli Shuttle, sperimentare un nuovo sistema di trasporto che sarebbe poi diventato Orion e tornare sulla Luna entro il 2020. I primi due obiettivi furono sostanzialmente centrati, mentre gli altri furono un mezzo fallimento per problemi organizzativi, di rapporti con le grandi e influenti aziende del settore aerospaziale e per finanziamenti insufficienti dell’intero programma.

Barack Obama a Cape Canaveral, Florida, nell’aprile del 2010 (NASA/Bill Ingalls)

Il successore di Bush, Barack Obama, commissionò una revisione di Constellation poco dopo essersi insediato nel 2008 e ne propose una drastica revisione, che incontrò una forte resistenza da parte del Congresso, non intenzionato a interrompere contratti da miliardi di dollari con gli storici partner privati della NASA. Fu trovata una sorta di compromesso: il trasporto degli equipaggi verso la ISS sarebbe stato affidato ad aziende private (come SpaceX di Elon Musk) in grado di gestire in autonomia l’intero processo in tempi brevi e senza il coinvolgimento diretto della NASA, con il programma Commercial Crew, mentre altri fondi sarebbero stati destinati agli storici partner privati dell’agenzia spaziale per realizzare un sistema di lancio (SLS) in grado di portare Orion oltre l’orbita terrestre.

Per la realizzazione di SLS, l’idea era di sfruttare il più possibile soluzioni e tecnologie già sperimentate durante gli anni degli Shuttle. Da qui derivano le somiglianze di oggi con il nuovo sistema di lancio, ma realizzare versioni più grandi e comunque modificate non si rivelò per nulla semplice. SLS avrebbe dovuto compiere il proprio primo volo inaugurale nel 2016, ma ci sarebbero voluti ancora sei anni prima che il nuovo razzo della NASA fosse pronto per la rampa di lancio e decine di miliardi di dollari in più rispetto al previsto.

Tre anni fa il progetto sembrava essere nuovamente a rischio e Mike Pence, il vicepresidente di Donald Trump con le deleghe per lo Spazio, annunciò l’ennesimo rilancio dell’intera iniziativa. O meglio, inventò un nuovo piano per tornare sulla Luna cui il Congresso non avrebbe potuto dire di no, e ne legò strettamente le sorti a SLS. Chiamò il nuovo programma Artemis, come la dea greca della caccia e della Luna, nonché sorella gemella di Apollo, il nome dell’unica iniziativa spaziale che aveva veramente portato gli umani sul suolo lunare. Artemis aveva come obiettivo il ritorno sulla Luna e la promessa di utilizzare SLS per tutti i lanci, ma c’era dell’altro.

Nuove aziende spaziali private, come SpaceX e Blue Origin di Jeff Bezos, stavano dimostrando di avere le capacità per gestire in autonomia il trasporto di materiale e persone in orbita con razzi riutilizzabili e meno costosi, così come di sviluppare nuovi sistemi da impiegare per le esplorazioni spaziali. Alla parte più istituzionale e tradizionale il cui frutto è SLS, il programma Artemis affiancò la possibilità di coinvolgere sempre di più i privati, con gare e appalti finanziati tramite i fondi messi a disposizione della NASA da parte del Congresso.

È in questo nuovo misto tra pubblico e privato – che coinvolge partner storici della NASA, aziende ormai affermate come SpaceX e nuove startup – che molti osservatori e analisti vedono una possibilità di successo per Artemis, anche se con tempi più lunghi rispetto a quelli inizialmente posti dall’amministrazione Trump che prevedevano un primo allunaggio nel 2024. Il programma è stato mantenuto dall’attuale presidente Joe Biden, insieme agli Accordi di Artemis, una serie di accordi aperta a tutti i governi che vorranno partecipare all’iniziativa; tra i sottoscrittori ci sono oltre 20 paesi, compresa l’Italia.

Allunaggio
Se Artemis 1 sarà un successo, nel 2024 la missione Artemis 2 ripeterà sostanzialmente le stesse attività, ma con un equipaggio di quattro persone a bordo di Orion. Non prima del 2025 è invece previsto l’allunaggio vero e proprio con la prima astronauta e il primo astronauta non bianco che cammineranno sul suolo lunare.

Nel frattempo sarà avviata la costruzione del Lunar Gateway, una base orbitale molto più piccola della ISS che servirà per ospitare gli equipaggi, altre strumentazioni e per consentire a Orion e ad altri veicoli spaziali di attraccare, compresi quelli che porteranno fisicamente gli astronauti sulla Luna. E qui le cose si complicano, di nuovo.

A oggi non esiste un sistema per allunare. A differenza delle missioni Apollo, dove il modulo di discesa (LEM) veniva trasportato dalla Terra alla Luna insieme al resto della strumentazione, Orion viaggia senza veicoli per consentire agli equipaggi di raggiungere il suolo lunare. Con l’obiettivo di accorciare i tempi, la NASA ha affidato a SpaceX il compito di provvedere a questo passaggio, con un contratto da quasi 3 miliardi di dollari per rendere compatibile la sua astronave in fase di sviluppo – Starship – con le attività lunari.

Starship a Boca Chica, Texas (SpaceX)

Dal gigantesco cantiere-base di lancio in Texas dove viene sviluppata e costruita, Starship non ha mai raggiunto l’orbita terrestre, ma SpaceX confida di poterne realizzare in tempi relativamente brevi una versione semplificata che possa gestire i trasferimenti degli equipaggi dal futuro Gateway nell’orbita lunare alla Luna. Se, come spera Musk, in tempi brevi la nuova astronave dimostrerà di poter raggiungere l’orbita terrestre e tornare indietro intera, Starship potrebbe diventare il principale alleato di SLS, ma anche ciò che potrebbe determinare la sua fine prematura.

Starship è infatti progettata per fare tutto da sola: partire dalla Terra, viaggiare fino alla Luna, compiere l’allunaggio e tornare indietro. Quando diventerà pienamente funzionante, potrà sostituirsi completamente a SLS e rendere molto più economici i viaggi verso la Luna, perché potrà essere utilizzata per più lanci, un po’ come un aeroplano di linea, ma per rotte oltre l’atmosfera terrestre.

È un obiettivo molto ambizioso che richiederà probabilmente più tempo per essere raggiunto rispetto a quanto prospettato da Elon Musk, ma a oggi è visto come l’esito più probabile delle prossime evoluzioni dell’esplorazione dello Spazio con esseri umani. Nei piani di SpaceX, un giorno Starship potrà essere utilizzata per andare oltre la Luna e raggiungere Marte.

Nel frattempo altre aziende private svilupperanno sistemi di trasporto, robot, sonde e moduli abitativi nell’ambito di Artemis, che consentiranno alla NASA e alle altre agenzie spaziali di portare avanti le attività di ricerca in un contesto economico più dinamico, o almeno è quanto auspicano molti dei loro responsabili. La Luna e lo Spazio in generale sono inoltre visti come un’importante opportunità commerciale, legata per esempio alla possibilità di produrre nuovi materiali sfruttando condizioni di gravità differenti da quelle terrestri e difficili da immaginare cinquant’anni fa.

Prima di quell’«andiamocene» rivolto al proprio compagno di viaggio, Eugene Cernan, l’ultimo uomo sulla Luna, aveva pronunciato un breve discorso in vista della partenza dalla valle lunare Taurus-Littrow dove era allunato con l’Apollo 17: «Mentre lasciamo la Luna a Littrow, ce ne andiamo come siamo venuti e, se Dio vuole, come ritorneremo, con pace e speranza per tutto il genere umano». Probabilmente non immaginava che sarebbero trascorsi decenni, ma sapeva che prima o poi qualcuno sarebbe tornato sulla Luna.