Chi giudica i militari di altri paesi che commettono reati in Italia

Se ne parla perché una militare americana ha investito e ucciso un ragazzo in Friuli, ma non è chiaro dove sarà processata

Soldati statunitensi nella base militare di Aviano, in Friuli Venezia Giulia (Stan Parker/USAF)
Soldati statunitensi nella base militare di Aviano, in Friuli Venezia Giulia (Stan Parker/USAF)
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Nella notte tra sabato 20 e domenica 21 agosto una militare americana in servizio alla base di Aviano ha investito e ucciso il quindicenne Giovanni Zanier sulla pista ciclabile di Porcia, in provincia di Pordenone, in Friuli Venezia Giulia. Per la militare, che si chiama Julia Bravo e ha 20 anni, sono stati disposti gli arresti domiciliari nella base militare, dopo che in seguito all’incidente era risultata positiva all’alcol test. È accusata di omicidio stradale, e ora si dovrà capire se un eventuale processo nei suoi confronti si svolgerà negli Stati Uniti o in Italia.

Un accordo internazionale firmato nel 1951 a Londra da tutti i paesi aderenti alla NATO e ratificato in Italia con la legge 1335 del 1955 stabilisce infatti che i militari dei paesi dell’alleanza atlantica che sono impegnati in un altro paese, sempre della NATO, siano processati nel proprio paese d’origine, se commettono un reato. L’articolo VII del trattato dice, al paragrafo 1:

Le autorità militari dello Stato d’origine avranno il diritto di esercitare sul territorio dello Stato di soggiorno i poteri di giurisdizione penale e disciplinare loro conferiti dalla legislazione dello Stato d’origine su tutte le persone soggette alle leggi militari di detto Stato.

In pratica, la militare statunitense in base agli accordi dovrebbe essere processata negli Stati Uniti. Il fatto è però che la soldatessa non avrebbe commesso il reato di cui è accusata nell’esercizio delle proprie funzioni e questo può comportare altre possibilità. Ci sono infatti alcuni precedenti che fanno pensare che la soldatessa possa essere giudicata da un tribunale italiano.

Giovanni Zanier verso le 2:30 del mattino di domenica stava camminando spingendo la bicicletta a mano, lungo la pista ciclabile di Porcia. Era in compagnia di due amici. A investirlo è stata una Volkswagen Polo che, secondo le testimonianze, viaggiava a velocità sostenuta. Il ragazzo è morto appena arrivato in ospedale. A guidare l’auto era Julia Bravo.

La militare stava rientrando a casa dopo una serata trascorsa con gli amici. Dopo l’incidente è scesa dall’auto, ha soccorso il quindicenne e ha chiamato aiuto. Portata anche lei in ospedale è stata medicata per lievi ferite causate dall’airbag e da schegge di vetro. Dopo essere stata dimessa è stata arrestata dai carabinieri per omicidio stradale. Essendo incensurata è stata messa agli arresti domiciliari.

La sua posizione è aggravata dal fatto che secondo l’alcol test a cui è stata sottoposta, il tasso alcolemico nel suo sangue era pari a 2,09 grammi per litro, quattro volte il limite consentito. Secondo il racconto dei testimoni, l’auto avrebbe perso aderenza, scavalcando il cordolo di protezione, abbattendo un cartellone stradale e poi investendo Giovanni Zanier. Un testimone ha detto, ma di questo non c’è conferma, che l’auto procedeva a zig-zag.

La strada in cui è avvenuto l’investimento non è illuminata perché il comune di Porcia per risparmiare energia elettrica ha disposto che la pubblica illuminazione in quel tratto venga spenta alle 2. Al momento dell’incidente, quindi, in quella strada il buio era pressoché totale. Ha detto il sindaco di Porcia, Marco Sartini: «Noi non abbiamo fatto altro che adeguarci alla richiesta del governo di contenere le spese per la pubblica illuminazione di alcuni tratti stradali. E quello della rotatoria è uno di questi. E poi non dobbiamo dimenticare che i tre ragazzini si trovavano ai bordi della ciclabile, sul marciapiede, e quindi era loro consentito di starsene a chiacchierare in santa pace».

Le indagini sono condotte dalla procura di Pordenone. Il trattato del 1951 dice, al punto 6:

Le autorità degli Stati di soggiorno e d’origine si presteranno reciproca assistenza nello svolgimento delle inchieste, nella ricerca delle prove, compresi il sequestro e, se del caso, la consegna degli elementi di prova e dei corpi del reato.

Al punto 5 è invece stabilito che

La custodia di un membro di una forza o di un elemento civile sul quale lo Stato di soggiorno deve esercitare il suo diritto di giurisdizione e che si trovi nelle mani delle autorità dello Stato d’origine continuerà ad essere assicurata da parte di queste ultime sino a che egli non venga imputato formalmente dallo Stato di soggiorno.

In pratica saranno le autorità militari americane a essere responsabili della custodia della soldatessa fino a che non venga deciso o meno il rinvio a giudizio. Quello che potrebbe succedere dopo l’ha spiegato al Corriere della Sera il procuratore di Pordenone Raffaele Tito: «Nel caso dovesse scattare un eventuale rinvio a giudizio, le autorità americane potrebbero avocare a sé la giurisdizione di ogni provvedimento, ma per farlo dovrebbero inoltrare una specifica richiesta al ministero della Giustizia italiano, come prevede un trattato della Nato. Credo che la vicenda potrà avere molti strascichi».

Le autorità americane potrebbero quindi avanzare la richiesta che venga accolto il “difetto di giurisdizione”, ovvero la mancanza da parte dei giudici italiani della possibilità di esercitare il proprio potere giudicante in quanto questo potere spetta ad altri giudici o ad altri sistemi giudicanti.

Barbara Scandella, la mamma del ragazzo ucciso, ha detto, parlando con i giornalisti:

Chiedo alle autorità che neghino l’autorizzazione allo spostamento di giurisdizione negli Usa, anche se so che in quel paese per questi reati le pene sono anche più severe. Ma noi vogliamo seguire il processo e che la soldatessa venga condannata in Italia al massimo della pena. Sappiamo tutti i precedenti che hanno coinvolto militari americani in gravissimi incidenti in Italia. La verità è che, in queste zone, fanno quello che vogliono e restano impuniti.

Per sapere che cosa avverrà bisognerà quindi attendere l’eventuale rinvio a giudizio della militare americana. A quel punto si capirà se le autorità americane avanzeranno la richiesta di difetto di giurisdizione e se, in quel caso, il ministero della Giustizia italiano accetterà la richiesta.

Esistono dei precedenti.

Nel 2004, James Michael Brown, paracadutista americano di stanza nella caserma Ederle di Vicenza fu arrestato per aver ammanettato, picchiato e violentato una ragazza nigeriana di 27 anni. Fu processato in Italia e condannato a cinque anni e otto mesi di reclusione. Il collegio giudicante applicò le attenuanti perché il militare era da poco tornato dall’Iraq. Venne scritto nelle motivazioni della sentenza: «Il prolungato logorio psicologico al quale è stato sottoposto l’imputato, e la minore importanza che necessariamente ha finito per dare alla vita e alla incolumità altrui, non possono non aver influito sulla commissione dei reati e sui modi con i quali i reati stessi sono stati consumati». Dopo sei mesi di carcere in Italia, Brown venne trasferito in un carcere militare americano in Germania e dopo due anni fu scarcerato.

Louis Carrillo e David Michael Simon, anche loro della caserma Ederle, furono fermati la sera del 2 dicembre 2006 a Vicenza mentre, a bordo di due auto, stavano gareggiando tra loro ad alta velocità per le strade della città. Dopo otto anni, il ministero della Giustizia italiana cedette alla richiesta americana di rinunciare alla giurisdizione e il processo venne trasferito negli Stati Uniti.

Nel 2012, un’auto con a bordo Dax Xavier Board, Kyle Michael Rascon e Jahgary Indiana Ruiz, investì tre pedoni a Vicenza. L’auto, dopo pochi istanti di incertezza, ripartì senza prestare soccorso. I tre militari furono accusati di omissione di soccorso, fuga e lesioni personali. L’anno dopo il ministero della Giustizia italiana rinunciò al diritto di giurisdizione.

Nel 2015 due militari, Jerelle Lamarcus Gray e Darius Montre McCullough, assegnati alle caserme vicentine Ederle e Del Din, furono arrestati con l’accusa di aver sequestrato e violentato una donna rumena, incinta al sesto mese. In quel caso l’esercito americano non avanzò nessuna richiesta e due anni dopo i due militari furono condannati in via definitiva a quattro anni e sei mesi di reclusione ciascuno dalla giustizia italiana. L’esercito americano diede alla donna un risarcimento di 160mila euro.

Il caso più celebre e drammatico è quello dell’incidente della funivia del Cermis, in Trentino, avvenuto il 3 febbraio 1998. Un aereo militare americano, Grumman EA 6B Prowler, decollato dalla base di Aviano, in provincia di Pordenone, tranciò le funi del tronco inferiore della funivia che da Cavalese porta all’Alpe Cermis. La funivia precipitò per 150 metri, morirono venti persone. L’aereo doveva svolgere addestramento a bassa quota ma quando tranciò il cavo stava volando a una quota inferiore a quanto concesso dai regolamenti.

I pubblici ministeri italiani chiesero di processare in Italia i quattro membri dell’equipaggio dell’aereo ma il ministero della Giustizia italiano decise che, in base alla convenzione di Londra del 1951, la giurisdizione sul caso dovesse essere quella statunitense.

Il processo a Richard Ashby, pilota dell’aereo, si tenne a Camp Lejeune, nel North Carolina. Fu accertato che il velivolo aveva volato più basso rispetto alle norme vigenti e che anche la velocità superava i limiti consentiti. Ma fu anche accertato che le mappe non segnalavano la presenza dei cavi della funivia. Il pilota venne assolto. Ashby e il navigatore, Joseph Schweitzer, furono processati anche con l’accusa di intralcio alla giustizia per aver distrutto il nastro che conteneva un video registrato sull’aereo. Schweitzer ammise il fatto dicendo: «Ho bruciato la cassetta. Non volevo che la CNN mandasse in onda il mio sorriso e poi il sangue delle vittime». Riconosciuti colpevoli, i due furono degradati ed espulsi dall’esercito.

Poche settimane dopo l’incidente, il Senato degli Stati Uniti stanziò 40 milioni di dollari come risarcimento alle famiglie delle vittime, ma il denaro fu bloccato dal ministro della difesa William Cohen. Nel dicembre 1999 il parlamento italiano approvò una legge che prevedeva indennizzi ai familiari delle persone morte pari a 4 miliardi di lire per ogni vittima. I risarcimenti furono effettuati dal governo italiano che poi, per il 75 per cento della somma, fu a sua volta risarcito dal governo degli Stati Uniti.