Le razze dei cani attraverso le mode
Da secoli le scelte dei proprietari sono influenzate da fenomeni culturali e di consumo, con effetti anche sulla loro evoluzione
Esiste una tendenza abbastanza diffusa – anche se recentemente messa in discussione da uno studio pubblicato su Science – a credere che a determinate razze canine siano associati determinati temperamenti, caratteri e “personalità”. Questa tendenza si riflette inevitabilmente sulle scelte dei proprietari e, in generale, sulle percezioni collettive. Sapere che una certa persona che non conosciamo possiede un alano o un pitbull potrebbe dirci qualcosa di diverso rispetto al sapere che possiede un chihuahua o uno yorkshire terrier (oltre, eventualmente, a quanto spazio ha in casa).
Seppure in modi indiretti e spesso involontari, tendiamo a proiettare sui cani domestici ambizioni, desideri e debolezze umane anche in relazione ai valori che attribuiamo alle loro razze. Quei valori sono determinati da molteplici fattori culturali: dalla diffusione di quelle razze in certi contesti sociali o ambienti mondani, alla loro presenza in film e serie televisive popolari, per esempio. Tutto questo ha influenzato nel corso dei secoli non soltanto le scelte dei proprietari ma anche quelle degli allevatori.
In un articolo intitolato «Semiotica dei cani» e pubblicato sul sito di approfondimento Aeon, la scrittrice e storica statunitense Katrina Gulliver ha ricostruito alcuni passaggi della storia evolutiva delle razze canine. E ha scritto di come i valori culturali espressi da quelle razze abbiano determinato nel tempo fenomeni, tendenze e mode che – nonostante l’abitudine a considerare i cani domestici come membri della famiglia o quasi – sono tipicamente associate ai prodotti di consumo.
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Dopo millenni di addomesticamento dei cani, scrive Gulliver, gli esseri umani cominciarono a un certo punto a badare molto al lignaggio e all’allevamento. E si diffuse nel frattempo un crescente desiderio di avere degli animali domestici oltre a quelli da lavoro, sebbene il confine di separazione tra gli uni e gli altri diventi via via meno chiaro andando indietro nel tempo. I cani acquisirono un’identità diversa, e avere un cane di una certa razza cominciò a riflettere specifiche attenzioni da parte dei proprietari più di quanto non dicesse sugli animali stessi.
Diverse caratteristiche distintive degli animali domestici – come le orecchie, in molti casi – non sono il risultato di un intervento umano diretto. Ma molte altre caratteristiche presenti nei cani moderni, dalla taglia al colore del pelo, sono riconducibili alla selezione compiuta dagli allevatori. Questa parte di evoluzione dei cani, in altre parole, è avvenuta con l’assistenza degli esseri umani e in funzione del tipo di lavoro richiesto o di altri bisogni.
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A cominciare dal XV secolo, in età moderna, la ricchezza crescente in Europa rese più comune possedere animali domestici negli ambienti aristocratici. Aumentò anche la disponibilità di soldi per pagare i dipinti che permettevano, tra le altre cose, di mostrare i cani e far comprendere il valore che avevano nelle famiglie.
Cani di piccola taglia – spesso piccoli spaniel – cominciarono a comparire nell’arte elisabettiana, mostrati quasi come fossero giocattoli, per simboleggiare la ricchezza dei proprietari. Dal momento che erano troppo piccoli per essere animali da lavoro, quei cani non potevano che essere animali di compagnia.
L’idea di avere un cane «di razza» – intendendo con questa espressione un valore in sé, a prescindere da quale fosse poi la razza – si diffuse soltanto in epoche successive. Gli allevatori passarono progressivamente da una selezione basata sulle abilità specifiche alla selezione di un particolare fenotipo, sebbene le due cose rimanessero ovviamente legate. Come sintetizza Gulliver, «riconosciamo un segugio dal suo aspetto, e sappiamo a cosa servono i segugi».
Il concetto di «pedigree» cominciò ad avere un’estesa diffusione in età Vittoriana per indicare l’elenco degli ascendenti di un animale domestico, riproducendo più o meno allo stesso modo una parallela attenzione ai propri alberi genealogici da parte della classe media in ascesa.
A partire dal XIX secolo, i cani cominciarono a essere considerati «di razza» soltanto se discendevano da genitori iscritti in un registro ufficiale di quella razza. Fu infatti il secolo dei Kennel Club: quello del Regno Unito, fondato nel 1873 e considerato il più antico club cinofilo al mondo, e anche l’American Kennel Club, fondato nel 1884. E fu anche il secolo delle mostre canine: la prima edizione del Crufts Dog Show, la più importante mostra internazionale di questo genere, organizzata e ospitata dal Kennel Club a Birmingham, risale al 1891.
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Molte delle razze canine diffuse ancora oggi hanno origini genealogiche che risalgono al XIX secolo. Ma alcuni proprietari di cani, racconta Gulliver, sperano ancora oggi di scoprire lignaggi antecedenti e che i propri cani «provengano da una tradizione molto più antica di un gruppo di appassionati di animali domestici vittoriani». Alcune persone utilizzano anche il test del DNA canino sui loro cani di razza mista, per cercare di conoscerne la discendenza.
Scoprire i lignaggi delle razze attraverso questo test è possibile proprio per il tipo di allevamento che si diffuse da un certo momento in poi e per tutta la metà del XX secolo. Per rafforzare determinate caratteristiche dei cani, gli allevatori predilessero l’allevamento «lineare», quello che incoraggia l’accoppiamento tra parenti stretti. Come risultato ottennero molti animali fortemente consanguinei e una moltiplicazione dei problemi genetici.
Questo fenomeno di limitazione della diversità genetica è noto come «collo di bottiglia» e si verifica quando il numero di individui che fanno parte di una popolazione si riduce drasticamente a causa di forze atipiche nella selezione naturale o a causa di selezioni di altro tipo. La razza del barbone, in origine tenuto come cane da caccia, è un esempio significativo e studiato di «collo di bottiglia» – e dei relativi problemi genetici – prodotto dagli allevatori.
Gran parte degli esemplari di razza in circolazione ancora oggi nel Regno Unito, negli Stati Uniti e in Australia discende da una premiata e prolifica stirpe di cani barbone di una cucciolata nata dall’unione di due esemplari degli anni Cinquanta, Annsown Gay Knight of Arhill e Wycliffe Jacqueline. E i geni di questa cucciolata sono riscontrabili attraverso le analisi genetiche (che forniscono appunto risposte del tipo «x per cento Wycliffe»).
Negli anni Novanta, oltre il 40 per cento dei geni dei cani barbone registrati proveniva da questo collo di bottiglia, e la percentuale arrivava al 50 per cento nel caso degli esemplari neri. Per questa ragione è comune per i cani barbone soffrire di due malattie autoimmuni (l’adenite sebacea e il morbo di Addison) diffuse lungo la discendenza. E tutto questo è almeno in parte una conseguenza a lungo termine della crescente popolarità del barbone nel dopoguerra: le registrazioni all’American Kennel Club passarono da poco più di 2 mila nel 1949 a 58 mila nel 1959 (oggi negli Stati Uniti sono oltre 250 mila).
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Il barbone è anche una delle razze più citate per spiegare l’evoluzione dell’estetica canina, a sua volta influenzata dai progressi tecnologici. Tra il XIX e il XX secolo, racconta Gulliver, era comune vedere i cani barbone con il pelo «cordato», molto lungo e arricciato a cavatappi: «L’immagine di un barbone da esposizione della fine del XIX secolo assomiglia al cugino Itt».
Fu soltanto in seguito allo sviluppo delle tosatrici elettriche e dei phon che si diffuse il cosiddetto «taglio continentale», ossia la tipica toelettatura che associamo ai cani barbone (quella con il pelo presente soltanto sulla testa, le spalle e il torace, e quella specie di pompon di pelo alle caviglie e alla coda). In breve tempo diventò un modello di riferimento nelle presentazioni alle mostre canine e, successivamente, un simbolo molto riconoscibile e un profilo riprodotto su tessuti, stampe e loghi nella moda degli anni Cinquanta.
Anche in decenni più recenti e per altre razze canine come per il barbone, scrive Gulliver, la diffusione di certi cani anziché altri ha seguito una moda legata alla loro estetica. Per esempio, è successo con i cani carlino, la cui faccia corta è determinata da una condizione nota come brachicefalia ed è alla base di frequenti problemi respiratori.
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Secondo Gulliver, la ragione della popolarità contemporanea dei carlini è da ricercare nella loro capacità di rappresentazione simbolica del valore della «neotenia», il fenomeno per cui gli esemplari adulti di una specie mantengono alcune caratteristiche giovanili. Sono caratteristiche riscontrabili in generale «in qualsiasi animale che susciti una risposta umana tipo “che carino!”», che appaia indifeso e vulnerabile, bisognoso di cure, e che sia quindi più facile da «antropomorfizzare».
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Un esempio estremo di questo genere di caratteristiche neoteniche apprezzate dai proprietari di cani e favorite nel tempo dagli allevatori è il bulldog inglese. Si stima che, a causa dell’eccessiva larghezza delle teste dei cuccioli rispetto al bacino della madre, circa l’80 per cento dei parti di questa razza canina sia di tipo cesareo.
Sia i registri ufficiali dei club cinofili che gli studi sulla diffusione delle razze canine mostrano tendenze che cambiano nel tempo. Negli anni Venti, per esempio, il chow chow era molto popolare, prima di sparire per decenni dalle liste delle razze più diffuse. Nelle stampe dell’Art déco di quegli stessi anni erano molto diffuse le immagini stilizzate di cani di razze oggi molto meno popolari come il saluki e il levriero russo.
Esistono poi razze molto famose e la cui diffusione rimane relativamente costante nel tempo, come nel caso del labrador retriever e del golden retriever, diventati simboli di lealtà e stabilità, e animali «totemici» nelle famiglie. Sono cani peraltro molto impiegati nelle unità cinofile delle forze dell’ordine o come cani guida, fattore che incide sul numero di registrazioni complessive. Anche per loro vale il discorso dei problemi genetici legati alla consanguineità (la displasia dell’anca, comune anche in altre razze di cani di grande taglia, e il cancro, soprattutto tra i labrador).
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La diffusione delle razze è stata poi notevolmente influenzata nel tempo anche da film e programmi televisivi. Il pastore tedesco fu reso molto popolare da Rin Tin Tin, il cane protagonista di diversi film americani degli anni Venti e di una serie televisiva trasmessa anche in Italia a partire dagli anni Cinquanta. E le richieste di cani di razza collie, prevedibilmente, aumentarono molto in conseguenza del successo dei film e della serie di Lassie. In un certo senso, scrive Gulliver, le razze diventarono «marchi in termini di preferenza dei consumatori».
Mode e tendenze nella diffusione delle razze, spiega Gulliver, si riflettono poi inevitabilmente anche sulle disponibilità nei canili e nei rifugi in cui molti di quei cani finiscono. La carica dei 101, famoso cartone animato Disney del 1961, determinò negli Stati Uniti uno straordinario incremento della domanda di cani di razza dalmata, seguita da una successiva maggiore diffusione di questa razza nei rifugi per cani abbandonati.
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Attraverso la scelta del cane come animale domestico, anche in modi non necessariamente chiari a noi stessi, «segnaliamo la nostra classe, le nostre preferenze e la nostra personalità», scrive Gulliver. Come chiamiamo i cani, come li trattiamo e come ci relazioniamo con loro, anche agli occhi degli altri, ha un significato che è cambiato nel tempo e continua a cambiare attraverso la «coevoluzione del nostro rapporto con gli animali». E questa evoluzione interessa oggi non soltanto l’estetica ma a volte anche l’alimentazione dei cani domestici, di cui si occupano proprietari sempre più attenti a quali siano le scelte migliori.
Gulliver segnala infine quanto negli ultimi decenni sia molto cresciuta la domanda di cani presi da canili e rifugi. È una domanda in parte incentivata da messaggi di successo che descrivono come più «virtuoso» prendere un animale domestico da un canile che acquistarlo da un allevatore, perché magari quegli animali sarebbero altrimenti soppressi.
Tuttavia, prosegue Gulliver, questo argomento trascura la drastica riduzione della popolazione dei cani nei rifugi degli Stati Uniti a partire dagli anni Settanta. E in generale trascura il fatto che probabilmente non ci sarebbero abbastanza cani nei rifugi e nei canili per soddisfare la domanda, «se ogni aspirante proprietario di cani andasse lì per un animale domestico». È un dato di cui qualsiasi sostenitore del benessere degli animali dovrebbe peraltro rallegrarsi, conclude Gulliver, perché è determinato almeno in parte dal successo delle campagne di sterilizzazione e dalla diffusione dei microchip per ritrovare i cani smarriti.
Ed è un dato che anche i gestori dei rifugi e le organizzazioni che si occupano di cani abbandonati conoscono, secondo Gulliver, e che negli Stati Uniti è alla base di una tendenza crescente anche da parte di queste organizzazioni ad acquistare cani dagli allevatori per soddisfare la domanda. A prescindere se poi presentino o no quegli animali come animali «salvati» da un destino peggiore, conclude Gulliver, anche quei gestori di rifugi «in realtà stanno facendo un’offerta sul prezzo per i cani all’asta e, come si aspetterebbe chiunque abbia un’idea di economia, incentivano più persone ad allevare cani».
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