Cosa fare con il gas dell’Adriatico

I progressivi divieti hanno reso inutilizzabili decine di piattaforme, e miliardi di metri cubi non vengono estratti: ma c'è anche la transizione energetica

(ANSA/UFFICIO STAMPA GREEN PEACE)
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Al largo della costa di Rimini, in Emilia-Romagna, ci sono due piattaforme che potrebbero estrarre complessivamente fino a 1,5 miliardi di metri cubi di gas dai giacimenti sotto il fondale del mar Adriatico. Si chiamano Giulia 1 e Benedetta 1: secondo il ministero della Transizione ecologica, la prima piattaforma è “inattiva”, la seconda “potenzialmente produttiva ma non erogante”. Giulia 1 è stata costruita nel 1980, Benedetta 1 nel 2006, ma non fruttano nemmeno un metro cubo di gas all’anno perché entrambe sono a meno di 12 miglia di distanza dalla costa, in una fascia dove non è possibile ottenere nuove autorizzazioni per l’estrazione.

A causa di specifici problemi tecnici e burocratici nelle autorizzazioni, le due piattaforme non hanno ottenuto i necessari permessi entro il 2010, anno dopo il quale è stato introdotto il divieto di trovare nuovi giacimenti a poca distanza dalla costa.

Oggi soltanto le piattaforme che avevano già tutte le autorizzazioni prima del divieto possono continuare a estrarre gas. Giulia 1 e Benedetta 1 non hanno quindi mai estratto gas, e sono soltanto due delle tante piattaforme pronte e non in funzione a causa di problemi legati alle autorizzazioni. Ma anche dove l’estrazione è consentita, oltre le 12 miglia dalla costa, lo sfruttamento è limitato: secondo le stime di geologi e ingegneri minerari, sotto il fondale dell’alto Adriatico ci sono in totale tra i 30 e i 40 miliardi di metri cubi di gas che non vengono estratti. Potrebbero contribuire in modo significativo alla produzione nazionale di energia, anche se andrebbero a coprire una parte marginale del fabbisogno complessivo.

Il dibattito sull’opportunità di sfruttare questi giacimenti è stato per lo più ignorato negli ultimi anni. È tornato al centro delle discussioni all’inizio di quest’anno, quando l’oscillazione dei prezzi e le conseguenze della tensione tra Russia e Ucraina hanno rivelato la scarsa lungimiranza delle scelte politiche dell’ultimo decennio: la produzione nazionale di gas si è fortemente ridotta, la dipendenza dalle forniture estere è cresciuta e lo sfruttamento delle fonti rinnovabili è stato limitato.

Con l’inizio dell’invasione russa in Ucraina e le conseguenti sanzioni decise a livello internazionale, la dipendenza italiana dalla Russia è stata ancora più evidente e ha portato il governo a studiare alcune misure sul medio-lungo periodo con l’obiettivo di rendere l’Italia più autonoma. In una fase di emergenza energetica, però, le soluzioni più immediate, come lo sfruttamento del sottosuolo, hanno avuto generalmente più attenzioni rispetto alle ragioni di chi sostiene che sia necessario cambiare prospettiva energetica puntando totalmente sulle fonti rinnovabili.

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Negli ultimi anni l’Italia ha consumato mediamente 70 miliardi di metri cubi di gas ogni anno. La maggior parte viene importata dall’estero, mentre appena 3,3 miliardi di metri cubi sono garantiti dalla produzione nazionale. Nel 2021, a fronte di una crescita dei consumi di gas del 7,2 per cento, la produzione nazionale è diminuita del 18,6 per cento. Tra gli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila, l’Italia riusciva a estrarre quasi 20 miliardi di metri cubi di gas all’anno.

In Italia ci sono 1.298 pozzi da cui viene estratto il gas, sotto la terraferma e sotto il fondale marino: 514 sono classificati come “eroganti”, quindi attivi, mentre 752 sono “non eroganti”, quindi al momento non sfruttati. I restanti 32 sono impiegati come raccordi tra altri pozzi o per il controllo dei flussi. Tra i pozzi non eroganti ci sono anche Giulia 1 e Benedetta 1, nel mar Adriatico, dove c’è la maggiore concentrazione di piattaforme perché proprio lì si trovano i pozzi più ricchi. In tutta Italia le piattaforme marine sono 138, di cui il 40 per cento non è operativo; 94 piattaforme sono a meno di 12 miglia di distanza dalla costa. Non vengono smantellate subito perché agli operatori è stato concesso di dismetterle entro la fine della concessione.

Il gas non estratto nell’Adriatico, stimato in alcune decine di miliardi di metri cubi complessivi, sicuramente aiuterebbe in un momento di grande necessità ma rappresenterebbe comunque una parte assai marginale del fabbisogno energetico nazionale, di circa 70 miliardi di metri cubi all’anno.

A metà febbraio il governo aveva approvato il decreto Bollette che tra le altre cose era stato pensato per incentivare la produzione nazionale: l’obiettivo è estrarre tra 2,2 e 2,5 miliardi di metri cubi l’anno in più rispetto ai 3,3 miliardi attuali. Aumentare la produzione non è semplice, perché richiede in alcuni casi un aggiornamento dei sistemi impiegati per estrarre il gas, dai macchinari alle infrastrutture per il suo trasporto, o di attendere di avere completamente operativi pozzi in fase di costruzione.

Nella conferenza stampa in cui è stato presentato il decreto Bollette, il presidente del Consiglio Mario Draghi aveva detto che la diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico è un obiettivo indipendentemente da quello che accadrà alle forniture di gas russo: «non possiamo essere così dipendenti dalle decisioni di un solo paese. Ne va anche della nostra libertà, non solo della nostra prosperità».

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Nonostante le dichiarazioni di Draghi, i provvedimenti presi dal governo non sono del tutto chiari. Anzi, in alcuni casi sono contraddittori. Una settimana prima dell’approvazione del decreto Bollette, infatti, il ministero della Transizione ecologica aveva pubblicato il Pitesai, il Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee, che di fatto limita lo sfruttamento dei giacimenti italiani, soprattutto nell’alto Adriatico. Uno dei giacimenti più promettenti, chiamato Teodorico, al largo di Goro, in provincia di Ferrara, è stato classificato come area non idonea: avrebbe garantito 900 milioni di metri cubi di gas.

Il piano del ministero ha confermato anche le limitazioni all’estrazione nel mare verso la zona di Venezia, dove nel 2008 venne vietato l’avvio o il proseguimento dell’attività estrattiva per via del temuto rischio di abbassamento del suolo (“subsidenza”), che avrebbe potuto interessare un’area estremamente delicata come quella della Laguna veneta.

In questa mappa pubblicata dal ministero della Transizione ecologica vengono mostrate in verde le aree idonee alla ricerca di nuovi giacimenti e in grigio le aree non idonee.

Con il decreto Energia, pubblicato all’inizio di marzo, il governo aveva poi chiesto agli operatori di fornire un elenco di possibili sviluppi, incrementi o ripristini delle produzioni di gas naturale, di prevedere in quanto tempo sarebbe possibile produrre più gas, di quanti soldi servano e soprattutto quanto nuovo gas si potrebbe estrarre.

Il decreto potrebbe autorizzare molte delle richieste presentate negli ultimi anni al ministero e finora bloccate, ma dovranno comunque rispettare le regole e le limitazioni del Pitesai. Nonostante siano giacimenti già individuati e sfruttabili da subito, i pozzi sotto alle piattaforme Giulia 1 e Benedetta 1, per esempio, non potrebbero essere aperti perché il Pitesai ha confermato il divieto di estrarre a meno di 12 miglia dalla costa.

Secondo uno studio presentato a novembre 2021 da Assorisorse, l’associazione che rappresenta le aziende dell’industria mineraria, in Emilia-Romagna con un investimento di 332 milioni di euro si potrebbe raddoppiare la produzione annuale di gas da 800 milioni di metri cubi a 1,6 miliardi all’anno, ma solo sui giacimenti già presenti, senza ricorrere all’ampia disponibilità non ancora sfruttata.

Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, ricercatore e docente alla facoltà di ingegneria dell’università Alma Mater di Bologna, sostiene che il mancato sfruttamento dei giacimenti del mar Adriatico sia un «delitto economico».

Le nuove estrazioni e un maggiore sfruttamento dei giacimenti già scoperti, dice, consentirebbero di ridurre la dipendenza dalla Russia e farebbero risparmiare moltissimi soldi all’Italia. «In tutta Italia potremmo produrre 10 miliardi di metri cubi di gas in più ogni anno, 10 miliardi di sviluppo italiano che lasciamo sottoterra, di mancata occupazione, di mancata tassazione», dice. «Per rispondere all’emergenza dovuta all’invasione dell’Ucraina è sicuramente tardi. In ogni caso, anche se Putin non avesse ordinato l’invasione, sarebbe stato opportuno diminuire la dipendenza dalla Russia. L’unico modo per farlo in tempi ragionevoli è attraverso l’aumento della produzione nazionale».

Uno dei motivi che spingono Tabarelli a definire un paradosso la scelta di vietare l’estrazione di gas nell’alto Adriatico è il corposo investimento fatto dalla compagnia energetica croata Ina per cercare e sfruttare giacimenti nello stesso mare, a pochi chilometri di distanza dal punto in cui iniziano le limitazioni in Italia. L’Agenzia croata per gli idrocarburi (AZU) punta ad estrarre 285 milioni di metri cubi in più rispetto agli attuali 2,7 miliardi annui raggiungendo il 40 per cento del fabbisogno nazionale.

Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia-Romagna, ha detto che è necessario «fare ciò che questa emergenza ci impone», cioè aumentare la produzione nazionale. Anche Bonaccini sostiene che le limitazioni siano poco sensate in presenza di attività estrattiva a un chilometro dal confine con le acque della Croazia, ma a differenza di Tabarelli dice che il gas va cercato nelle concessioni già rilasciate, senza la ricerca di nuovi giacimenti. «Non si pensi di abbandonare il gas da un giorno all’altro», ha detto a febbraio durante la conferenza Stato-Regioni.

Le ragioni di Bonaccini e Tabarelli, nelle loro diverse sfumature, sono prevalenti nel dibattito, mentre a causa dell’emergenza sono state poco considerate le posizioni più critiche nei confronti dell’attuale politica energetica italiana e delle prospettive indicate dal governo. Molte associazioni ambientaliste, per esempio, hanno ribadito il dissenso già emerso negli ultimi anni rispetto allo slancio limitato verso la ricerca e l’applicazione nelle fonti rinnovabili, e al contemporaneo aumento degli approvvigionamenti di gas e petrolio. La transizione energetica, dicono molte associazioni, è troppo lenta.

Davide Ferraresi, presidente di Legambiente Emilia-Romagna, conferma quello che l’associazione chiede da anni: chiudere il prima possibile le concessioni nel mar Adriatico e iniziare lo smantellamento delle piattaforme non più produttive. In un dossier intitolato “Oltre il fossile: energia e lavoro nell’Adriatico del futuro”, Legambiente Emilia-Romagna definisce lo sfruttamento dei bassi fondali adriatici «una visione economicamente poco attraente e di corto respiro».

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La crisi climatica, dice Ferraresi, impone di lasciare gli idrocarburi nel sottosuolo per puntare sulle energie rinnovabili: «non vanno incentivati solo i grandi impianti, ma anche quelli medio-piccoli per favorire l’autoconsumo. C’è anche un tema di risparmio energetico che spesso viene sottovalutato. Come stiamo usando la nostra energia? Quanta ne potremmo risparmiare?»

Spingere sulle rinnovabili non è sempre semplice. Nelle ultime settimane Legambiente Emilia-Romagna ha sostenuto con decisione il progetto di un parco eolico off-shore proposto dall’azienda Energia Wind 2000 che, dopo le prime proteste degli enti locali per la sua vicinanza alla costa, aveva presentato una soluzione alternativa con le pale a 9 miglia di distanza dalla riva. I progettisti stimano di produrre in totale 710 gigawattora (GWh) annui, pari al fabbisogno di una grande città. Molti politici locali e anche associazioni ambientaliste come Italia Nostra hanno però confermato la contrarietà al progetto.

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Anche secondo Enrico Gagliano, portavoce del coordinamento No-Triv, i comitati contro le trivellazioni, è inutile continuare a cercare gas perché anche nell’Adriatico i volumi sono scarsi rispetto al fabbisogno energetico nazionale. «Tutto il dibattito ruota attorno al gas», dice. «Purtroppo i danni che affrontiamo in questa fase sono colpa dell’inerzia dei governi che non hanno spinto verso un diverso sistema energetico e che ci hanno costretto a dipendere da una risorsa di cui il paese è povero». Gagliano sostiene che il referendum sulle trivellazioni del 2016 avrebbe potuto essere un’occasione per un ripensamento profondo su come è strutturato il sistema energetico italiano, ma allora il dibattito si concentrò prevalentemente sulla contrapposizione tra sì e no e il risultato è stato che negli anni successivi, fino ad oggi, la politica e l’opinione pubblica hanno trascurato un problema fondamentale per la crescita del paese e il contrasto al cambiamento climatico.