Il gusto del marcio

I cibi fermentati e puzzolenti, nati per necessità, sono apprezzati e riscoperti un po' ovunque, dallo squalo islandese al tofu peloso fino al kimchi

Kimchi preparato a Seul, in Corea del Sud
(Chung Sung-Jun/Getty Images)
Kimchi preparato a Seul, in Corea del Sud (Chung Sung-Jun/Getty Images)

Ci sono alimenti che piacciono generalmente al primo assaggio e altri che si imparano ad apprezzare con pazienza, imponendosi di dare un primo morso e poi sforzandosi a riconoscerne la bontà: questi ultimi fanno parte dei cosiddetti gusti acquisiti e comprendono cibi dal sapore aspro, pungente, complesso o dall’odore per molti rivoltante, come i formaggi erborinati (cioè quelli con la muffa, come il gorgonzola), le frattaglie, l’acre wasabi, il caviale e la bottarga. Molti di questi prodotti sono ottenuti con la fermentazione, il processo in cui gli enzimi di alcuni microrganismi – batteri e funghi, in particolare lieviti e muffe – scompongono lo zucchero presente in un cibo in altre sostanze, in assenza di ossigeno.

È uno dei metodi di conservazione più antichi, pare che fosse conosciuto già nel 10mila a.C. in Nord Africa, dove i primi yogurt venivano prodotti fermentando il latte in sacche di pecora attaccate al dorso dei cammelli, sfruttando le temperature esterne che superavano i 40 gradi. È anche una delle più economiche, visto che generalmente non prevede l’impiego di sale o spezie costose ma soltanto l’assenza d’ossigeno e il passare del tempo.

Si diffuse moltissimo per necessità, perché garantiva risorse alimentari cacciate o raccolte mesi prima anche durante i lunghi inverni infruttuosi e perché permetteva di non buttare il cibo in un momento di abbondanza ma di preservarlo. Sempre per necessità ci si abituò al sapore non immediatamente piacevole di alcuni suoi prodotti, accompagnato spesso da un odore sgradevole che oggi assoceremmo a quello delle fogne, dei piedi sudati, delle discariche, dei panni sporchi.

Negli ultimi due secoli la pastorizzazione, i frigoriferi e altre tecniche moderne di produzione e conservazione del cibo hanno reso certi tipi di fermentazione meno necessari, e alcuni suoi prodotti sono diventati un retaggio del passato apprezzato da pochi anziani o assaggiato da turisti curiosi. Ma la riscoperta dei cibi tradizionali sta spingendo le nuove generazioni a recuperare alcuni di questi piatti mentre un recente e rinnovato interesse occidentale verso la fermentazione sta spingendo a conoscere quelli di altri paesi: è sempre più comune trovare, anche in Italia, il kombucha cinese (una bevanda frizzantina ottenuta dalla fermentazione del tè), il caucasico kefir (un’altra bevanda prodotta dalla fermentazione del latte) e il miso giapponese (un condimento ottenuto dalla fermentazione dei fagioli di soia gialla).

Alcuni cibi fermentati si sono guadagnati una certa popolarità o una fama in un certo senso leggendaria, spesso anche per via di più o meno spontanee operazioni commerciali che sono riuscite ad alimentare l’interesse degli appassionati di gastronomia o anche solo di sfide estreme, dalla carne di squalo islandese che profuma di ammoniaca alle acciughe del Baltico svedesi maturate nelle lattine per mesi, dal tofu peloso al nerastro uovo centenario.

La fermentazione, in brevissimo
In generale, le cellule hanno bisogno di ossigeno per portare avanti le loro attività (metabolismo) e per produrre l’energia di cui hanno bisogno partendo dagli zuccheri (glucosio). Nel caso in cui manchi l’ossigeno, esseri viventi come i lieviti e alcuni batteri sono in grado di produrre l’energia di cui hanno bisogno in altro modo: questo processo è ciò che chiamiamo fermentazione.

Per fare un esempio vicino a noi, nella fermentazione alcolica particolari funghi unicellulari (i lieviti, appunto) si trovano in mancanza di ossigeno e attuano quindi la fermentazione: scompongono gli zuccheri e nel processo si ottengono alcol etilico e anidride carbonica. Grazie a questo processo, che abbiamo semplificato molto, possiamo far fermentare il mosto per fare il vino, o il malto per produrre la birra, o ancora l’impasto per fare il pane (che gonfia proprio per la presenza dell’anidride carbonica che rimane intrappolata).

La fermentazione alcolica, conosciuta da millenni, è solo uno dei processi di questo tipo utilizzati dall’uomo per sfruttare le risorse alimentari a disposizione. A seconda delle sostanze coinvolte si hanno processi di fermentazione diversi, che portano alla produzione di “scarti” che nel corso del tempo siamo diventati piuttosto abili a sfruttare. Processi che sono stati perfezionati per aumentare il periodo di conservazione dei cibi, ma anche per ottenere prodotti con gusti e consistenze nuovi e assai apprezzati. Se in Occidente le fermentazioni alimentari riguardano tradizionalmente i latticini, i prodotti da forno e gli alcolici, i popoli nordici l’hanno spesso usata per il pesce, mentre ad esempio in Asia è molto comune per i derivati della soia.

Sushi
Siamo abituati a pensare che il pesce del sushi debba essere il più fresco possibile, ma nella sua forma originaria era esattamente il contrario. Il sushi era già in circolazione in Cina attorno al IV secolo a.C. ed era un metodo di conservazione del pesce: veniva eviscerato, salato e lasciato a fermentare nel riso cotto a vapore per mesi, così da poterlo trasportare facilmente. Il sale impediva la formazione di batteri e microrganismi mentre il riso produceva una muffa che proteggeva il pesce dalla putrefazione; al momento di mangiarlo, il pesce si puliva e il riso si buttava. La tecnica venne portata in Giappone attorno all’VIII secolo d.C. (la prima occorrenza scritta è del 718 nel codice di Yōrō) dove venne chiamato nare-zushi, o sushi invecchiato.

Qui lentamente si iniziò a mangiare anche il riso fermentato e acidulo insieme al pesce semicrudo e col tempo la lavorazione si trasformò in un piatto: il sushi, appunto, che significa riso all’aceto. Durante il periodo Edo (1603-1867) nacque una versione di sushi veloce, detta haya-zushi: non si aspettava che il riso fermentasse ma, una volta bollito, lo si condiva con aceto di riso e lo si mescolava a pesce, verdure e altri ingredienti. In questo modo, oltre ad accorciare i tempi di preparazione, si evitava anche l’odore pestilenziale della fermentazione del nare-zushi.

Il sushi, per come lo conosciamo oggi, venne inventato o perlomeno reso famoso nel 1823 da Hanaya Yohei, che aprì un banchetto sul fiume Sumida a Tokyo. Prendeva una striscia di riso, la condiva con sale e aceto di riso, la lasciava insaporire qualche minuto e poi aggiungeva una fettina di pesce crudo appena pescato dal fiume che, essendo fresco, non aveva bisogno di essere fermentato. Fu così che nacque il nigiri, pronto in pochi minuti e simile a un fast food.

Anche se molto raro, il nare-zushi si prepara ancora in alcune zone del Giappone. Una sua specialità, considerata una prelibatezza dai locali, si chiama funa-zushi, risale a 1.000 anni fa ed è tipica del lago di Biwa. Si usano le carpe dorate pescate nel lago, che vengono messe sotto sale e conservate per almeno un anno in barili di legno; poi vengono mescolate al riso e lasciate a fermentare per altri due o tre anni. La carne inizia a marcire e l’interno ad ammorbidirsi e il risultato, scrive il sito Atlas Obscura, è simile a un formaggio pungente; ad altri invece ricorda il sapore dell’ammoniaca. Spesso viene venduto come pesce intero e coperto da una salsa cremosa simile allo yogurt; i cuochi lo servono tagliato a fettine sottili su un letto di riso, cotto in una specie di porridge o fritto in tempura.

 

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Hákarl
La carne di squalo fermentata è un piatto tradizionale islandese che oggi è mangiato quasi solo da anziani e turisti. Pare che venne inventato dai vichinghi per sfruttare qualsiasi fonte di nutrimento vista la difficoltà di allevare animali, ottenere raccolti abbondanti e importare cibo comprandolo dalle altre civiltà lontane.

Per lo hákarl si usa la carne dello squalo della Groenlandia, pescato generalmente per sbaglio dai pescherecci che navigano le acque islandesi, che può raggiungere i 7 metri di lunghezza e una tonnellata di peso. Mangiato fresco è altamente tossico perché gli squali non possiedono un sistema urinario e hanno un’alta concentrazione di urea nel sangue, che viene eliminata artificialmente attraverso un lungo processo di fermentazione. Una volta pescato, lo squalo è privato della testa e delle interiora, seppellito in una buca ricoperta di ciottoli, ghiaia e pietre pesanti per pressare meglio la carne e far defluire i fluidi tossici. Viene lasciato lì dai tre ai sei mesi, poi la carcassa viene dissotterrata e tagliata in strisce appese a seccare in un luogo ventilato, lontano dalle abitazioni a causa del nauseabondo odore di ammoniaca.

Nel giro di qualche mese la superficie si ricopre di una crosta scura, rimossa al momento della consumazione, mentre la carne all’interno si ammorbidisce. Quando è pronta, viene tagliata in pezzetti più piccoli, confezionata sottovuoto e messa in vendita.

Oggi la fermentazione avviene per lo più in container di plastica e quasi tutto lo hákarl è prodotto nel museo dello squalo di Bjarnarhöfn. Si consuma tutto l’anno ma in particolare durante la festa di Þorrablót, che si svolge a febbraio. Durante il banchetto è previsto il þorramatur, la consumazione di una serie di piatti tradizionali tra cui testa di pecora bollita, testicoli di ariete, pinne di foca e, appunto, lo hákarl.

 

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Ne esistono due varietà: quella ricavata dalla ventresca, che è bianca, soffice e ha una consistenza simile al formaggio, e quella ottenuta dal resto del corpo, che è rossiccia e gommosa. Nonostante sia forse il piatto islandese più noto all’estero, non trova il consenso unanime della popolazione e molti lo trovano disgustoso. Ad assaggiarlo sono sempre più spesso turisti spericolati a cui viene servito tagliato a pezzetti infilzati con stuzzicadenti o in un macero di brennivín, l’acquavite islandese. Lo chef Anthony Bourdain, noto per assaggiare le pietanze più improbabili al mondo, lo definì «la singola cosa peggiore, più disgustosa e dal sapore più rivoltante» che avesse mai assaggiato, mentre l’altro noto chef Gordon Ramsay non riuscì a ingoiarlo e lo sputò.


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Pi Dàn, o uovo centenario
È un piatto tradizionale della cucina cinese dove l’uovo, generalmente d’anatra e raramente di gallina o quaglia, non è fermentato per cento anni ma dieci giorni, in un composto di acqua, sale, carbone e ossido di calcio, e poi avvolto in una pellicola di plastica per qualche settimana: il risultato sono un tuorlo verde scuro e un albume nerastro. Il tuorlo ha una consistenza cremosa e un sapore simile a quello dei formaggi erborinati, l’albume è gelatinoso e salato mentre l’odore è particolarmente respingente e ricorda lo zolfo e l’ammoniaca. Sulla superficie di alcune uova possono comparire dei funghi, innocui, che assomigliano a fiocchi di neve o aghi di pino: sono chiamate “uova dai disegni di pino” e sono considerate le più pregiate.

 

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La ricetta tradizionale è molto più lunga di quella messa a punto grazie alla chimica moderna e prevede un periodo di fermentazione di 100 giorni in una miscela di calce viva, cenere, sale e a volte un’infusione di tè bollente: la miscela viene spalmata sulle uova che poi vengono fatte rotolare su foglie e chicchi di riso per non farle appiccicare e infine conservate in ceste, vasi o barili. Il fango si indurisce in una crosta attorno al guscio, il sale alcalino della calce aumenta il pH delle uova attivando il processo di fermentazione mentre il guscio viene dissolto del tutto o in parte dalla soluzione salina.

Le uova centenarie, una volta pronte, vengono sgusciate, tagliate a spicchi e servite come antipasto o contorno, in base alle diverse varianti regionali: a Canton sono avvolte in fette di radice di zenzero in salamoia o aggiunte al congee, una specie di porridge di riso, a Taiwan sono adagiate su tofu freddo e condite con katsuobushi (fiocchetti di tonno essiccato, fermentato e affumicato), salsa di soia e olio di sesamo, nello Sichuan vengono marinate con aceto e vino cinesi, salsa di soia, olio di sesamo, zenzero e aglio.

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Secondo la leggenda, le prime uova centenarie vennero scoperte 600 anni fa nello stato centrale cinese di Hunan. Una famiglia le ritrovò in una pozza di calce spenta che aveva usato due mesi prima per costruire la propria casa: le assaggiò, le trovò deliziose e iniziò a prepararle e venderle.

Surströmming
Sono le aringhe del Baltico fermentate, un piatto tipico della cucina svedese, famose per l’odore stomachevole considerato tra i peggiori al mondo. Le aringhe vengono pescate in primavera, prima di riprodursi e ingrassare, e vengono messe per circa 20 ore in salamoia, per drenare il sangue; poi si taglia la testa e le si lascia in una salamoia più leggera per qualche mese. A inizio luglio vengono inscatolate, restando così almeno 5 settimane prima di essere vendute nei negozi, mentre i gas della fermentazione deformano la lattina. Si mangiano tradizionalmente dopo il terzo giovedì di agosto, soprannominato il giorno delle surströmming, fino a inizio settembre.

L’odore è talmente nauseante che vengono consumate prevalentemente all’aperto. Si servono sul tunnbröd, un cracker sottile e croccante, oppure in un panino fatto di due fette di tunnbröd con patate e cipolla rossa; nel sud della Svezia il panino è farcito anche con panna acida o crème fraîche, erba cipollina, aneto e fettine di pomodoro. Si accompagnano con birra, acquavite o latte freddo.


La tecnica di conservazione è molto antica e risale al XVI secolo: all’epoca il sale era molto costoso e la fermentazione consentiva di usarne una quantità minima, giusto per evitare la putrefazione della sardina.

Le surströmming non sono apprezzate da tutti gli svedesi, come tutti i gusti acquisiti che necessitano tempo per familiarizzarci; a causa della loro fama però sono protagoniste di molte sfide sui social network, dove le persone cercano di mangiarle in genere dopo essere state sopraffatte dal loro odore puzzolente.


Kimchi
È il piatto nazionale coreano e negli ultimi anni sta diventando di moda anche in alcune città italiane, vista la curiosità per la cucina fermentata in generale e per quella coreana in particolare. È a base di cavolo napa, o cavolo cinese, e ravanelli coreani, fermentati con vari tipi di spezie e condimenti (pare ne esistano almeno 200 versioni diverse), tra cui gochugaru (peperoncini in polvere), zenzero, aglio, cipolle e jeotgal, una salsa di pesce sotto sale, fatta con gamberi, ostriche, vongole, pesce o uova di pesce.

Si affetta il cavolo, lo si mette in salamoia per un’oretta, lo si sciacqua, lo si aggiunge agli altri ingredienti e infine si invasa il tutto in barattolo per circa 5 giorni, finché si formano delle bolle che indicano che la fermentazione è completata. Si tratta della cosiddetta fermentazione lattica, la stessa dei cetriolini e delle verdure sott’aceto: i lactobacilli, batteri non patogeni presenti nella verdura, trasformano gli zuccheri in acido lattico, che le conserva e conferisce loro il tipico sapore acidulo.

Il kimchi si mangia soprattutto in autunno, quando le verdure sono fresche, da solo o infilato in panini e involtini di carne o come accompagnamento a piatti di carne o pesce. Qui trovate una ricetta facile per farvelo a casa.

La preparazione del kimchi a Seul, Corea del Sud
(Chung Sung-Jun/Getty Images)

Il piatto nacque per la necessità di avere del cibo a disposizione anche durante i rigidi inverni del paese, dove si riusciva a produrre poco e niente: per questo i coreani divennero abili nella conservazione sotto sale e nella fermentazione. Inizialmente si utilizzavano i ravanelli e altre verdure locali, ma col tempo il piatto si arricchì di nuovi ingredienti man mano che la Corea si apriva all’influenza dei paesi vicini. La prima menzione scritta del kimchi risale al periodo Koryeo (918–1392), quando venne importato il cavolo napa dalla Cina; durante la dinastia Joseon (1392–1910) vennero aggiunte spezie e nuove verdure, mentre dal Giappone arrivarono la salsa di soia, le patate dolci e i peperoncini piccanti, una componente fondamentale del piatto. La versione contemporanea, a base di cavolo cinese, si impose circa 200 anni fa.

Hongeohoe
È un altro piatto fermentato coreano, tipico della provincia di Jeolla, nel sudovest del Paese, a base di una specie locale di pesce razza. È considerato anche dai locali uno dei piatti più difficili da ingoiare: l’odore è «un misto di bagno pubblico e panni umidi non stesi da giorni», che accompagna «una carne gommosa e una cartilagine croccante». La razza, come lo squalo, non ha un sistema urinario e rilascia l’urina attraverso la pelle: per questo, durante la fermentazione lunga circa un mese, l’acido urico preserva la carne ma le conferisce un tipico odore di ammoniaca.

Lo hongeohoe viene servito sottoforma di sashimi, cioè crudo e tagliato a fettine, in una preparazione detta samhap, che significa “trinità armoniosa”: insieme, cioè, a pancetta di maiale bollita e kimchi. Spesso è accompagnato da makgeolli, una bevanda alcolica frizzante a base di vino di riso.

 

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Il hongeohoe risale almeno al XIV secolo. All’epoca i pirati giapponesi minacciavano le coste della zona e il governo ordinò agli abitanti dell’isola di Heuksan di spostarsi sulla terraferma, lungo il fiume Yeongsan; durante il viaggio scoprirono che tutto il pesce che portavano con sé era marcito, tranne le razze che si erano conservate nella loro stessa urina. Da allora venne servito come piatto esotico alle feste reali e tra gli abitanti più ricchi della regione. Oggi viene consumato soprattutto dagli uomini più anziani e come prova di virilità; ultimamente è apprezzato anche delle generazioni più giovani, che stanno riscoprendo la cucina tradizionale. Per questo, se ne mangia una media di 11mila tonnellate all’anno (contro i 2 milioni di tonnellate di kimchi).

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Tofu puzzolente e tofu peloso
Il tofu è un alimento diffuso in tutto l’Estremo oriente, ricavato dalla cagliatura del succo estratto dalle fave della soia e poi pressato in blocchi. La lavorazione è simile a quella del formaggio e anche il risultato: è forse il cibo orientale che più gli si avvicina, considerato che molte cucine asiatiche non lo prevedono. Il tofu può essere fresco – ha una consistenza budinosa ed è usato sia come dessert sia nei piatti salati – o conservato, cioè prodotto della lavorazione di quello fresco.

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Lo si ottiene con vari metodi, compresa la fermentazione, che dà come risultato il tofu in salamoia, quello puzzolente e quello peloso. Il primo si produce dal tofu secco, un tipo di tofu fresco con pochi liquidi, compatto come la carne cotta. Viene fatto essiccare all’aperto sotto il fieno, poi immerso in acqua salata con liquore cinese, aceto, pepe o una miscela di riso e semi di soia: il risultato ha un sapore simile ai formaggi erborinati e una consistenza che ricorda quella del formaggio spalmabile.

Il tofu puzzolente si ottiene dalla fermentazione in salamoia, che varia in base a numerosissime ricette regionali che ne determinano il colore – dal dorato al verdastro – e il sapore. Le più tradizionali sono a base di latte fermentato, verdure e carne, ma anche gamberi disidratati, amaranto, senape, germogli di bambù e erbe cinesi, in cui il tofu viene lasciato fermentare diversi mesi. Gli estimatori sostengono che la prelibatezza sia direttamente proporzionale al sapore speziato e all’odore puzzolente. Non viene mangiato crudo ma fritto, stufato, al vapore, in umido, alla griglia o alla brace e accompagnato spesso da una salsa dolce o al peperoncino e da verdure sottaceto. Non viene servito al ristorante, ma è considerato un tipico snack di strada.

I quadrotti neri sono tofu puzzolente

 

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Secondo la leggenda cinese, il tofu puzzolente venne inventato da uno studioso durante la dinastia Qing (1636-1912). Caduto in disgrazia, si mantenne vendendo tofu a Pechino; un giorno gliene avanzò troppo, lo tagliò a pezzetti e lo infilò in un vaso di terracotta; lo aprì qualche tempo dopo e scoprì che era diventato verdastro e puzzolente ma anche delizioso. Così iniziò a venderlo nel suo negozio, riacquistò popolarità e venne riammesso a palazzo.

Il tofu peloso, detto maotofu e tipico della provincia orientale di Anhui, è ricoperto di pelo e ha un forte odore di ammoniaca. Si ottiene inoculando nei panetti di soia il fungo rhizopus oligosporus, poi li si lascia in un luogo fresco e asciutto e si attendono tre giorni in estate e sei in inverno. A quel punto il tofu è pronto per essere cotto, solitamente pastellato e fritto.


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Nespola
Le nespole che mangiamo comunemente oggi sono piccoli frutti dalla buccia arancione e dalla polpa color crema, morbida e aromatica. Si raccolgono dal nespolo giapponese, che arrivò in Europa a fine Settecento (la prima apparizione in Italia fu nell’orto botanico di Napoli nel 1812) e che soppiantò nel giro di un secolo il nespolo europeo o comune, che fino ad allora era stato diffusissimo, tanto quanto i meli e i peri, e che ora è quasi del tutto scomparso e dimenticato.

Il nespolo europeo è originario della regione del Mar Caspio e da lì arrivò lentamente in Europa: la prima occorrenza scritta si trova in un frammento di poesia greca del VII secolo d.C. I Romani lo portarono nel Sud della Francia, in Bretagna e nelle regioni germaniche, mentre Carlo Magno lo inserì in un elenco di alberi da frutto da piantare nelle corti del suo regno. Durante il Medioevo divenne estremamente popolare e non mancava mai nei giardini dei monasteri medievali, delle corti reali, degli spazi pubblici e nelle opere letterarie: ne scrissero per esempio l’autore inglese Geoffrey Chaucer nei Canterbury Tales, risalenti alla fine del XIV secolo, e anche William Shakespeare in Romeo e Giulietta. I motivi di questo successo sono tanti: pratici e alimentari, allegorici e goliardici.

Per il loro aspetto – la presenza di un largo calice spalancato sul fondo del frutto – le nespole venivano indicate con appellativi grossolani e sboccati, come open-arse (culo aperto) in inglese e cul de’singe (culo di scimmia), cul d’ane (culo d’asino) o cul de chien (culo di cane) in francese.

 

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La loro qualità principale però è che, una volta raccolte a settembre, devono maturare a lungo prima di essere mangiate e sono pronte a dicembre, fornendo così una rara fonte zuccherina nei lunghi inverni medievali. Quando si raccolgono, in autunno, sono acerbe, hanno un colore marrone o verdastro, sono dure, acide e legnose a causa dell’alto contenuto di tannini. Per questo vanno messe ad ammezzire per circa 2-3 settimane, un processo che consente di ammorbidire i frutti ricoprendoli di paglia e tenendoli al buio. Così i tannini più forti si esauriscono mentre si sviluppa l’acido malico, presente anche nelle mele, responsabile del sapore acidulo; le nespole si raggrinziscono, diventano marrone scuro e la polpa si ammorbidisce, assumendo la consistenza di una mela cotta.

A quel punto vengono succhiate direttamente dalla buccia oppure portate a tavola insieme al formaggio, ancora ricoperte dalla segatura, da mangiare con un cucchiaino. Oppure ancora si possono infornare, arrostire, trasformare in marmellate, nella confettura detta nespolata, in brandy o in sidri.

Oltre che strategiche a tavola, le nespole erano molto utili anche ai filosofi medievali, affascinati dalla metafora di un cibo marcio prima di essere maturo; in Italia ispirarono anche un proverbio popolare, “col tempo e con la paglia maturano le nespole”, che invitava alla pazienza e alla sopportazione. Nemmeno al picco della loro popolarità, comunque, il loro sapore metteva d’accordo tutti, come dimostra una ricerca del 1989 che raccoglie opinioni espresse sulle nespole nel corso del tempo: un libro di giardinaggio del XVIII secolo scriveva che «la nespola al suo meglio è solo un grado più buona di una mela marcia», mentre un anonimo autore medievale era più categorico: «non vale una merda finché non è matura e poi ha proprio lo stesso sapore».


Furono probabilmente le stesse ragioni del successo a decretarne l’abbandono, avvenuto dopo la Seconda guerra mondiale. In quel periodo i frutti tropicali, come ananas e banane, divennero più economici e comparvero nei negozi tutto l’anno, senza la necessità di coltivare frutti invernali. Contribuirono anche i tempi dell’ammezzimento, poco adatti ai rapidi processi produttivi dell’economia contemporanea. Il nespolo però è ancora popolare nei suoi paesi d’origine, come l’Iran, l’Azerbaijan, il Kirghizistan, la Georgia e la Turchia.

Kiviak
È un piatto invernale tipico degli Inuit della Groenlandia a base di gazza marina minore, un uccello marino fermentato intero, becco e piume compresi, nella pelle di foca. Una foca ne può contenere anche 500, più sono meglio è per evitare la presenza di ossigeno; poi viene cucita e sigillata con il suo grasso, seppellita in una buca ricoperta di ciottoli e pietre pesanti e lasciata a fermentare per circa tre mesi. A quel punto la foca viene dissepolta e gli uccelli – spiumati, privati di becco e zampe e risciacquati – sono pronti per allietare i matrimoni, i compleanni e le grandi feste degli inverni artici. Hanno un sapore pungente, simile ai formaggi erborinati e alla liquirizia; sono mangiati crudi, la parte più prelibata pare essere il cuore e i fluidi intestinali sono usati come condimento per altri piatti.


Igunaq
È un piatto di carne preparato sempre dalle popolazioni Inuit, ma dell’Alaska. Trichechi, altri mammiferi marini e orsi polari catturati in estate vengono ridotti in grasse bistecche, sepolte nel terreno, ricoperte di pietre e lasciate a fermentare fino all’arrivo dell’inverno. Può anche essere pericoloso se la carne è lasciata a maturare troppo tempo fino a marcire; quando la procedura è corretta, la carne assume un colore verdastro o addirittura marroncino. Una volta pronta viene risciacquata e accompagnata con le mele a Natale e nelle feste più importanti. Negli ultimi tempi l’igunaq è mangiato sempre più raramente, sia per i pericoli che comporta sia perché gli Inuit hanno sempre più accesso ad altri cibi anche in inverno.

Nattō
È un piatto tradizionale giapponese considerato tra i più fetidi al mondo: odora di calzini sporchi e spazzatura umida. È fatto con fagioli di soia fermentati e viene servito a colazione condito con salsa di soia, cipolla e karashi, la senape giapponese piccante che ha un sapore simile al wasabi, e accompagnato da riso bianco o miso. È salutare e ricco di proteine, vitamine e batteri della flora intestinale. In Giappone è diffuso soprattutto nelle regioni orientali e, anche se molti lo mangiamo solo per ragioni salutistiche, piace alla maggioranza della popolazione; in Occidente il suo tanfo accompagnato dalla consistenza appiccicosa e dal sapore pungente incontra più resistenza e lo chef Anthony Bourdain, già citato a proposito dello squalo islandese, una volta lo definì «una sostanza appiccicosa simile al muco». Il sapore del nattō è stato via via paragonato a fiocchi di latte molto salati, al foie gras o al formaggio brie invecchiato. Se volete provare a farlo in casa, trovate una ricetta qui.

Una ciotola di appiccicoso nattō
Shizuo Kambayashi/AP I

Le sue origini sono incerte, ma come gli altri cibi di questa raccolta risalgono ai tempi in cui era necessario conservare gli alimenti per i momenti difficili e la fermentazione permetteva di farlo più economicamente di altri metodi. Una delle leggende più note racconta che il nattō sarebbe stato scoperto attorno al 1080 d.C. dall’esercito del valoroso samurai Minamoto no Yoshiie durante una guerra contro un clan rivale. Una notte i guerrieri si erano rifugiati in una fattoria e mentre stavano per cenare con riso e fagioli di soia bolliti vennero attaccati dal nemico; avvolsero il cibo nella paglia di riso e fuggirono a cavallo. Il calore della paglia e il sudore degli animali attivò il processo di fermentazione: due giorni dopo i soldati, arrivati in salvo, aprirono i fagottini e trovarono i fagioli fermentati, nutrienti e deliziosi.

Bonus: il durian
Anche se non è un cibo fermentato, questa lista di prodotti tanfosi e mefitici non può tralasciare il durian, il frutto asiatico dall’odore così intenso e stomachevole che è stato vietato nei luoghi pubblici – dai treni agli ospedali – in molti paesi asiatici, come a Singapore, in Thailandia e in Malaysia. Ne esistono 30 specie ma solo 9 sono commestibili e soltanto una viene commercializzata a livello internazionale, il Durio zibethinus.

In Asia viene chiamato anche il re dei frutti, per la sua grandezza e la sua sontuosità; ha una buccia verde costellata di spine piramidali e una polpa gialla o rossastra e dalla consistenza burrosa, frazionata in una membrana non edibile; si possono consumare anche i grossi semi, tostati. Si mangia in diversi stadi di maturazione ma acerbo è duro e insapore, se troppo maturo diventa amaro e pungente. Oltre che fresco è usato per preparare caramelle e dessert come gelati, cheesecake e frittelle.


Il durian sembra essere originario della regione del Borneo e di Sumatra e già 400 anni fa era commercializzato nell’attuale Myanmar e coltivato in Thailandia e in Vietnam. Il primo europeo a parlarne fu il mercante veneziano Niccolò Da Conti, che viaggiò in Asia nel Quattrocento e che lo descrisse come un frutto verde, delle dimensioni di un’anguria, con all’interno cinque frutti grandi come melarance «d’eccellente sapore, che nel mangiare sembrano del buttiro [cioè burro] rappreso».


Di recente un gruppo di scienziati ha cercato di comprendere le ragioni di tanta puzza e ha scoperto che è dovuta alla combinazione di circa 50 sostanze chimiche, che prese singolarmente possono essere anche gradevoli; sono per esempio associate a profumazioni fruttate, metalliche, bruciacchiate, gommose e mielose.

Un durian aperto
(AP Photo/Sadiq Asyraf)